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LETTERATURA: I MAESTRI: Pietro Pancrazi14 gennaio 2017
di Cesare Garboli Col titolo Ragguagli di Parnaso, in tre eleganti volumi curati da Cesare Galimberti per l’editore Ricciardi, si ripubblicano oggi, a distanza di sedici anni dalla morte, tutti gli scritti critici di Pietro Pancrazi già compresi nelle ormai famose serie laterziane degli Scrittori d’oggi (sei volumi, 1946-1953), con l’aggiunta, opportunamente distribuita dal Galimberti nelle diverse sezioni e sottosezioni di cui si compone la nuova edizione, di quegli articoli su autori italiani dell’Ottocento e del Novecento che furono già raccolti da Antonio Baldini nel volume postumo Italiani e stranieri (1957). Al corpus risultante da questa fusione, o meglio da questa ristampa arricchita da indiscutibili integrazioni, il curatore ha poi aggiunto, sempre distribuendoli con gran tatto nelle sedi che loro più competono, quattro scritti mai raccolti dal Pancrazi o da altri in volume o serie: due recensioni di scritti del Serra, del 1914 e ’15, risalenti cioè agli esordi del Pancrazi articolista sulla « Gazzetta di Venezia »; la conversazione radiofonica su Dieci libri da salvare, del 1949, « vera professione di fede fatta dal Pancrazi nella letteratura italiana dell’Ottocento », dice il Galimberti (e il Pancrazi, dal canto suo, dopo avere anteposto il Panzini a Pirandello, e messo Carducci ben saldo sopra Verga, « a questo punto » chiudeva il discorso « sento già qualcuno che dice che io sono tornato indietro, e io non me n’ho certamente a male; anzi, dopo aver rimesso così al loro posto i santi e i santarelli come già stavano sulla testata del mio letto, questa notte mi sembrerà di dormire più sicuro »); infine la non dimenticata prefazione con la quale il Pancrazi « riscopriva » nel 1953 quello stupendo racconto d’amore che sono le Memorie lontane di Guido Nobili (e qui sì, che il Pancrazi poteva addormentarsi con la coscienza in pace). Che il Panzini sia preferibile a Pirandello, che Carducci sia più « portante » di Verga, che Foscolo e Manzoni, singolarmente presi, valgano Leopardi, può anche darsi e comunque non discuto, tanto è certo che quanto alla prima coppia, sia pure per motivi diversi, io non salverei né l’uno né l’altro. Ma la graziosa espressione del Pancrazi, per il quale la storia, e con essa la letteratura, era essenzialmente tradizione, rispetto e dipendenza da valori costituiti, valeva la pena di trascriverla come « frase-spia », non soltanto a indicare le predilezioni del critico, tutte sbilanciate dalla parte dei modelli ottocenteschi (« il suo cuore era di là », dice Valgimigli), e non soltanto a illustrare il gusto, a definire il tratto dello scrittore (ispirato, come si vede, a un nativo, saporoso e schietto fondo di realismo toscano), ma anche a schiarire i metodi adottati dal Galimberti nella sua riedizione degli antichi, si può dire, Scrittori d’oggi. Intanto bisogna avvertire il lettore estraneo a queste cose che il Galimberti non ci offre coi tre volumi un « tutto Pancrazi ». Una fetta dell’uomo e dello scrittore toscano resta fuori da queste cronache; e più che il favolista e il moralista creativo, soprattutto il Pancrazi dell’estrosa raccolta Nel giardino di Candido, dove il critico s’impegna con altri, forse più veri amori, coltivandosi il suo Sacchetti, il Magnifico, il Doni, l’Aretino, il Vasari, il Parini, il Tommaseo. Nel segno dell’« auctoritas », la dipendenza dai maestri ottocenteschi si conciliava originalmente nel Pancrazi con una natura di gentiluomo granducale, di aristocratico e faceto uomo di campagna, insofferente di atteggiamenti, pungente sgonfiatore di tutte le arie, pose, gestualità altrui, in quella linea toscana che sta tra il Capponi e Ferdinando Martini. Non è un caso che nella raccolta intitolata a Candido sì ritrovi, tra l’altro, anche « quello studio ampio e ispirato sui Ricordi del Guicciardini, che condotto nel 1929, fu pure dei primissimi che prepararono la fiorente ripresa d’interesse per il grande storico e moralista ». Con quest’omaggio il Cecchi volle di proposito chiudere nel nome del Guicciardini il proprio ricordo dell’amico e compagno di lavoro. Guicciardini da una parte, Cecchi e Pancrazi, due spiriti diversamente toscani, ma egualmente « feriti », si direbbe, ripiegati, rassegnati a un’amarezza irredimibile, storicamente persuasa, dall’altra (osservatore realistico il Pancrazi, spregiudicato e prestigioso tecnico il Cecchi, ma identica la sostanza, gemella la luce): già ci si comincia a orientare sulla fisionomia del Pancrazi critico e sulla sua attività di cronista, informatore, moderatore, sulle colonne del « Corriere della Sera », del gusto letterario italiano tra le due guerre, sotto la dittatura. È appunto questa parte di « critico giornaliero », di arbiter del gusto letterario del Novecento, come toccò al Pancrazi di essere, probabilmente, senza che egli neppure lo volesse, a partire dalla sua collaborazione al « Corriere » di Ojetti (1926), protrattasi in seguito fino alla morte, e convalidata poi dalla sua attività di redattore primario di « Pégaso » sempre con Ojetti (1929-’33), che la nuova edizione curata dal Galimberti confina volutamente in secondo piano, lasciando emergere in vivo contrasto e risalto, invece, il profilo dello studioso appassionato di cose ottocentesche. A questo fine, è bastato al curatore alterare la disposizione degli scritti pancraziani senza escluderne nessuno. Si sa che il Pancrazi aveva raccolto le sue cronache, nel ’46, nell’intento di offrire un panorama dello « svolgersi della letteratura creativa italiana nel periodo che va dalla Grande Guerra alla conclusione di questa ben più grande Guerra Mondiale », e che in fondo a ciascuna delle serie sui contemporanei aveva poi aggiunto « qualche scritto su poeti e prosatori di ieri », precisando: « poeti e prosatori tra l’Ottocento e il Novecento, dopo il Carducci ». Secondo il Pancrazi, così si aiutava « la prospettiva tra due tempi che furono molto diversi ». È bastato al Galimberti travasare in un solo volume dei tre da lui curati queste « appendici » pancraziane perché ne risultasse, insieme alle altre integrazioni, un tomo di 560 pagine interamente dedicato al secondo Ottocento italiano, oltre che al Carducci, al Pascoli e al d’Annunzio. Ed è questa la più importante novità della ristampa ricciardiana. Ma si sa come sia sufficiente un piccolo effetto di luce perché un dato paesaggio, anche il più familiare, prenda tutt’altro aspetto. Felicissima editorialmente, ineccepibile quanto alla vera personalità del Pancrazi, l’edizione del Galimberti la si potrebbe del resto discutere solo per arrivare traverso altre vie alle medesime conclusioni del curatore. Ci pareva d’aver lasciato negli Scrittori d’oggi un Pancrazi specialmente attento ai narratori contemporanei. Lo ritroviamo più dissenziente, più pronto che nel nostro ricordo al rifiuto. E sensibile, se mai, più alle novità dei poeti (a Saba più che a Montale) che dei romanzieri. Acuiscono quest’impressione proprio i modi arguti del Pancrazi, la conversazione motteggiante e briosa (ma troppo ricco d’implicazioni, il sue linguaggio, e di sottintesi, per apparire veramente « chiarozo » come lui voleva), e il piacere di stare in compagnia degli autori, d’intrattenersi con loro, di frequentarli, fino al punto in cui la curiosità critica potesse diventare, a un tratto, naturale vocazione di ritrattista. Chi voglia studiarsi il Pancrazi cerchi soprattutto nel ritratto del Martini, dove in termini eloquenti, tra l’altro, sono segnate le tappe di un itinerario verso un evidente « modello ». Nessuno prima o dopo di lui seppe « citare » come Pancrazi, con tale dono di mimetica, discreta e insieme critica penetrazione. Quello che ci allontana da lui è invece proprio la sua voglia di capire con gli strumenti dell’equilibrio, del senso delle proporzioni, delle misure prese subito al meglio. Gli è stata imputata, mi pare dal Russo, la scarsa sensibilità problematica al fatto letterario, la resistenza ad imbarcarsi in questioni generali e ideologiche. Ma non è quest’attitudine, della quale il Pancrazi si compiaceva, che ce lo distanzia. L’allergia ai « problemi », ci mancherebbe, è cosa che rende sempre contemporanei, eternamente attualissimi. È piuttosto che il Pancrazi concepiva la letteratura come fatto naturale, come espressione spontanea e continua della vita, come operazione che si compie senza scosse e traumi. Mentre niente è più assurdo, invece, della « letteratura », niente c’è di più innaturale, istrionicamente suicida dello « scrivere » per se stesso. O vivere o scrivere, la letteratura come nevrosi: a questo il Pancrazi non seppe arrendersi, o era, questa, intuizione da cui volle d’istinto scostarsi. Ed è invece l’unica, vera scoperta letteraria del Novecento. Tutto il resto, tutte le altre retoriche, erano già state praticate e inventate. Qualche volta, in fondo a lui, sembra che il Pancrazi ci si dichiari nascostamente compagno. Discorrendo di d’Annunzio, colpisce la finezza nel sorprendere i gradi attraverso i quali il primo, e fino ad oggi il più autorevole degli sperimentali giungeva alla conclusione manieristica di « abominare la verità ». E sarebbe bastato al Pancrazi riflettere sulla propria prosa, costruita secondo clausole, ritmi, cadenze ossessive, per accorgersi di quanto ricercata, in letteratura, sia la « naturalezza ». Egli volle trattenersi, al contrario (di là dal carducciano ponte di Madesimo) in quell’idea dell’arte « telescopica », che compone i conflitti, assolve e placa la vita. « Quando l’autobiografìa » scriveva « è entrata nella zona effettiva dell’arte, prende quella distanza e doratura di tempo, quella unitaria inclinazione tonale che sempre distingue l’arte dalla vita. » Quella « doratura »: ecco una di quelle parole che si dicono rivelatrici. E da dove venisse al Pancrazi questa concezione romantica, idealistica e impressionistica della poesia lascio volentieri come argomento di un augurabile studio. Che cos’è la « doratura » dei classici, alla fine, se non un’invenzione, una fissazione dei tardi romantici? (1968)
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