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LETTERATURA: TEATRO: I MAESTRI: Wilder. Le regole di un vecchio gioco10 marzo 2016
di Claudio Gorlier THORNTON WILDER Vi sono scrittori che acquistano una loro tranquilla e stabile notorietĂ che coincide con l’abitudine di incontrarli a periodi fissi, proprio come capita a certe statue collocate nei parchi pubÂblici e di cui nessuno si domanda mai quanto esattamente valgano. La loro stabilitĂ viene assunta quale istituÂzione, e si perpetua con la regolaritĂ piacevole degli utili di un pacco di obbligazioni tenute in banca. E’ stato così, mi sembra, per Thornton Wilder. Il teatro di Wilder ha incontrato un favore considerevole negli Anni QuaÂranta, dapprima presentandosi seconÂdo una dubbia angolatura sperimenÂtale, poi, man mano che si accentuaÂvano al suo interno le riaffermazioni tra patetico e volontaristico, prendenÂdo un posto per così dire ufficiale nei repertori, compresi quelli di compaÂgnie americane itineranti in Europa e altrove, ovviamente finanziate da enti governativi o a essi vicini. La curioÂsa e astuta commistione di cecovismo (l’ingrediente fondamentale per deÂcenni nel teatro americano, sino alÂmeno a Tennessee Williams) e pirandellismo, adagiata sul gusto per il riÂtratto della provincia, funzionò e per molti versi funziona ancora, senza che si possa mai stabilire fino a che punÂto gioca nel successo l’ingrediente, la trovata, il moralismo appena dissiÂmulato, o semplicemente l’accortezza divulgativa che stempera la tensione ed evita alternative troppo brusche. Critici di qualche impegno hanno scritto pagine sull’uso originale della dimensione temporale, quasi che WilÂder non fosse in realtĂ , un estremo discepolo di Bergson. Anche il romanzo piĂą noto e piĂą diffuso di Wilder, Il ponte di San Luis Rey, si fonda su una tecnica affine a quella del teatro, su un’idea accorÂtamente sviluppata per preparare la indagine fortemente paradigmatica del destino umano, con l’aggiunta di quel tanto dì esotico che ancora cirÂconda l’ambiente del Sud America. A questo suo repertorio Wilder si attieÂne anche nel romanzo piĂą recente, L’ottavo giorno, che naturalmente, coÂme tutti i prodotti di una certa ambiÂzione e di buona confezione, ha subiÂto raggiunto la lista dei best-sellers. La spiegazione della favola, posta dall’auÂtore al termine del libro per chi conÂservasse ancora qualche dubbio in meÂrito al suo significato, parla dell’esiÂstenza umana da considerarsi simile a un grande arazzo: « La storia è un unico arazzo… Si parla molto del diÂsegno dell’arazzo. Alcuni sono sicuri di vederlo. Alcuni vedono ciò che è stato detto loro di vedere. Alcuni riÂcordano di averlo scorto una volta ma l’hanno dimenticato. Alcuni traggono forza dal vedere un disegno in cui gli oppressi e gli sfruttati a poco a poco si svincolano dalla loro schiavitĂą. AlÂcuni trovano forza nella convinzioÂne che non ci sia nulla da vedere ». L’idea non è per nulla peregrina, e rimanda, superficialmente, al « diseÂgno nel tappeto » di Henry James; senonchĂ© lĂ si trattava della formulaÂzione — sia pure per vie negative e indirette — di una poetica, della teoÂrizzazione del romanzo « oggettivo » e necessariamente ambiguo, che valeva per James e per molta parte della narrativa del Novecento. Qui, invece, la spiegazione risulta piuttosto didatÂtica e corrente; difatti, l’arazzo si deÂfinisce gradualmente con molta preÂcisione, e rimane arduo sottrarsi alÂl’impressione che Wilder ne tessa i fili attentamente, perchĂ© il disegno si possa, in definitiva, cogliere. Il ponte, cioè l’elemento connettivo utilizzato in passato da Wilder, viene sostituito qui da un delitto misterioso. Un ingegnere minerario, John Ashley, avrebbe ucciso in una cittadina dell’Illinois il migliore amico durante una esercitazione di tiro a segno, e l’avrebbe fatto deliberatamente per sbarazzarsi di lui in quanto aveva una relazione con la moglie. Processato, condannato a morte senza che si sia praticamente difeso, viene liberato da un gruppo di individui misteriosi e, incredibilmente, disarmati, durante il viaggio verso un penitenziario dove l’attende l’esecuzione capitale. L’autoÂre può dunque sbizzarrirsi ora a indaÂgare la vita intima della vedova e dei figli di Ashley, ma anche di Eustace Lansing, moglie dell’ucciso, e dei suoi figli, andando avanti e indietro nel tempo e contrapponendo il presente al passato. Ashley fugge (ecco nuovaÂmente l’America spagnola) in Cile, inutilmente braccato; a Coaltown, la cittadina dove viveva, la sua famiglia e quella dei Lansing si trova costretÂta a una serie di difficili decisioni che corrispondono almeno in parte a un riesame, volontario o meno, della proÂpria condizione umana, a un bilancio reticente ma indispensabile. I fili dell’arazzo vengono qui in luÂce e tradiscono, tra l’altro, una certa usura. Siamo infatti alla ripresa di materiali non insoliti nella narrativa americana del secondo Ottocento e del primo Novecento. Intanto, abbiamo il quadro della provincia, seguito all’inÂterno, e l’itinerario del giovane privo di mezzi ma intraprendente, autodiÂdatta, irrequieto (il figlio di Ashley) che si trasferisce nella grande città — Chicago — per affermarsi, e natuÂralmente ci riesce, diventando un giornalista di fama. Non manca il vecÂchio medico saggio e debitamente scetÂtico a Coaltown, o lo strenuo e incorÂrotto anarchico a Chicago. La vedova Lansing è una creola, con le caratteÂristiche di disponibilitĂ per gli affetÂti e di morbida inquietudine che una simile qualificazione comporta. L’elenÂco potrebbe continuare a lungo. Dicevamo prima che la storia del delitto e della condanna di un innocente appare, quasi dichiaratamente, un pretesto. Vale la pena di osservaÂre che il personaggio di John Ashley finisce per essere abbandonato e posto in secondo piano, anche se da lui coÂmincia il processo di sgretolamento che in sostanza rimane, anche se allo stato di intenzione, il pregio principaÂle del libro. La provvidenza di WilÂder, difatti, si presenta ambiguamente e con un’immagine bifronte: essa agiÂsce imprevedibilmente quanto impreÂvedibili sono gli individui; nessuno dei personaggi, salvo forse la vecchia emigrata russa insediatasi a Coaltown ma rimasta idealmente nella terra di origine, e quindi sufficientemente forÂte per difendersi dai veleni del nuovo Paese, approda mai a una autentica definizione di sĂ©, a una identificazioÂne coerente. Tutti sono esposti al compromesso, all’incertezza, e contiÂnuamente alle soglie del fallimento. Non a caso del figlio del figlio di AshÂley, appena un ragazzo, sappiamo, con una anticipazione senza seguito, che si autodistruggerĂ , coinvolgendo gli stessi genitori. E soprattutto ogni preÂmessa che riguarda i protagonisti posÂsiede una sua fatale fragilitĂ ; ognuÂna delle scelte che essi hanno comÂpiuto si rivela affrettata, superficiale quando non addirittura gratuita. Ma l’ambiguitĂ che dovrebbe sostanÂziare il libro non si realizza nĂ© si definisce mai compiutamente. Se è veÂro che Wilder offre una morale poliÂvalente ed elusiva, egli ha l’aria di preoccuparsi di continuo di chiarire che una conclusione si può trarre, a patto di seguire correttamente le sue istruzioni; che la fedeltĂ a valori assoÂluti consente una salvezza, sĂłlo che la si cerchi. La visione di Wilder, ove si superi il suo giocare a rimpiattino col lettore, si identifica curiosamente con quella di un tardo vittoriano che abbia subito una crisi religiosa, senza prendere con questo la sua innata pruderie. Una simile disposizione fiÂnisce per trasferirsi allora nelle strutÂture del romanzo, che è di impianto rigidamente tradizionale e rammenta le maestose costruzioni della narratiÂva alla Thackeray o, in qualche miÂsura, alla Dickens, ma senza lievitĂ e senza ironia. Le apparizioni dello scrittore sono frequenti e insistite; egli interviene spesso per rimettere le cose a posto, per esprimere un giudiÂzio generalmente paternalistico, per richiamare all’ordine il lettore. Sono le regole di un vecchio gioco, come si sa; Wilder rientra legittimamente nella categoria del romanziere-Dio di cui parlava trent’anni or sono Jean Paul Sartre, lamentando che purtropÂpo Dio non è un buon romanziere. Letto 880 volte.

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