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LETTERATURA: I MAESTRI: Mangiavamo i fiori12 maggio 2018
di Mosca Ogni anno, un giorno tra gli ultimi di maggio e i primi di giugno, quando le robinie cominciano a fiorire, compio un pazzo pellegrinaggio poco fuori di questa Milano che se anche così mostruosamente s’è estesa con le sue fabbriche e i suoi caseggiati qualcosa, qua e là, ha lasciato della campagna cara ai ricordi: un brandello di prato, la fetta d’un campo del cui grano, da anni non più coltivato, rimangono spighe selvatiche quasi spinose, i resti d’un declivio un tempo verdissimo lungo il ruscello ora velenoso, un ciuffo di alberi, e quello delle mie, anzi delle nostre robinie è rimasto miracolosamente intatto fra i muri di due fabbriche, bassi, che non lo soffocano, e le ciminiere sono così alte che il fumo, anche nelle giornate più calme, viene sempre subito disperso dal vento. Milano supera tutte le città del mondo nella distruzione del verde, ma quel poco che senza danno pei suoi interessi le avvenga di poter risparmiare conserva con tanto più d’affetto quanto più acuto è il pentimento. Non so se abbiate mai visto, dal treno che approssimandosi alla stazione di Milano procede a passo d’uomo, giù, ai piedi della scarpata del terrapieno, quel cementificio nel cui cortile un operaio è permanentemente addetto alla pulizia di un ciliegio sopravvissuto. Lo spolvera ramo per ramo, foglia per foglia, e, a giugno, frutto per frutto, senza dire di come lucidi il tronco, con un panno leggermente oliato che lo fa rilucente e prezioso come un legno antico. * Milano è città da guardare dall’elicottero, a bassa quota, giardini segreti tenuti con la stessa cura con la quale il cementiere tiene il suo ciliegio, orti le cui foglie di lattuga vengono trattate con la stessa delicatezza che i petali d’una rosa. Dal ciuffo di robinie — cui si giunge per un sentiero tra due lunghi muri non solo di fabbriche, ma di abitazioni di guardiani, e qui sporge il fico, qui il girasole — pendono in questi giorni i primi fiori, a grappolo, carnosi, d’un profumo tanto più acuto quanto più forte batte il sole, e d’un sapore tra dolce ed acre che un po’ ferma il respiro. Masticarne una manciata strappata al grappolo è un piacere lungo, da ruminante, consistenti come sono, quasi croccanti, e resi più tenaci dal germoglio di legume che ciascuno, bivalve, contiene come una perla rosea. Il nome tecnico dell’albero è, difatti, Robinia pseuclacacia, in quanto somiglia all’acacia rosa di Costantinopoli, dai fiori a pannocchia, del colore che, secondo Omero, ha la punta delle dita dell’Aurora. Quel rosa inganna, fa pensare che robinia derivi dal latino ruber, rosso. Niente di meno vero. Bisogna andare indietro di alcuni secoli e trasferirsi negli Stati Uniti dove nel 1615 approdò un omino canuto e curvo il quale dimostrava molto di più che i suoi sessantacinque anni. Si chiamava Jean Robin, era giardiniere ed erborista alla corte di Luigi XIII re di Francia, re per modo di dire perché non aveva allora che quattordici anni e le cure dello Stato erano monopolio della madre Maria de’ Medici e del suo favorito Concino Concini. A Luigi, molto amante della natura, era stata lasciata la cura dei giardini, ma poiché, anche quando eserciti la sua autorità soltanto sui giardini, un re è sempre re, così un giorno Luigi XIII approfittando d’una temporanea assenza della mamma, salì sul trono, convocò Jean Robin e gli ordinò di recarsi in America alla ricerca di nuove piante. Robin obbedì com’era suo dovere, ma non se la prese troppo calda. Neppure quando fu re davvero Luigi XIII venne mai preso sul serio dai suoi sudditi. Dalle mani di Maria de’ Medici passò a quelle del Cardinale di Richelieu, così che Robin, il quale se si fosse spinto fino alla California avrebbe scoperto la sequoia, si limitò a un viaggetto in diligenza nella Virginia dove le robinie, bisogna dire, giungono anche fino ai venticinque metri, e i grappoli di fiori sono enormi e straordinariamente odorosi. * Gli bastò. Tornò a Parigi coi bravi giovani esempi, li trapiantò, la maggior parte morirono, ma quelli che sopravvissero, anche se non riuscirono mai a superare i sei sette metri, fecero fiori che piacquero molto a Luigi XIII, il quale provò a mangiarne, ma non essendo innamorato (i fiori, infatti, bisogna mangiarli in due) li sputò dicendo «Robaccia». Non per questo, però, perse la stima per Jean Robin, e se avesse saputo che nel secolo seguente Linneo, nel suo famoso elenco di piante d’ogni parte del mondo, gli avrebbe reso omaggio battezzando robinia l’albero da lui scoperto, gli avrebbe certamente decretato, per avaro che fosse, una molto più ricca pensione. Perché in principio ho definito pazzo il mio annuale pellegrinaggio al boschetto di robinie? Perché non è privo della speranza che anche Laura, un giorno, venga presa dal desiderio di compierlo. Non dirò quanti anni sono passati, non darò a Laura un volto. Mi limiterò a ricordarla dentro di me, gelosamente, tanto è il timore che liberandola per descriverla si disperda come il fumo della ciminiera. Alle robinie, ricordi?, s’andava in bicicletta, appena giunti la gettavamo via, sento il fruscio, mentre ci baciavamo nascosti nell’erba alta, delle ruote che giravano ancora, fu un amore furioso come tutti gli amori impossibili, pieni di promesse e di giuramenti tanto più grandi e tanto più sinceri quanto più si sa che non verranno mantenuti, e fui io, ricordi, che t’insegnai a mangiare i fiori. Non che sapessi qualcosa di Robin e di Luigi XIII, ignoravo il nome dell’albero, poteva essere un’acacia, una quercia, un olmo nano, tanti saluti al nome, secondario, quando si mangiano i fiori, sapere come si chiamano, distesi nell’erba ne facevamo lentamente scendere in bocca il grappolo, un’ora dopo avevamo odoroso tutto il corpo, anche il sudore che il sole faceva fiorire e il vento asciugava. Ora, Laura, non siamo più in due, ma in tre. Avendone letto, una volta, per caso, so di Jean Robin, e il giorno del pazzo pellegrinaggio, mentre t’aspetto inutilmente ma non senza un filo di speranza, eccolo arrivare come sbarcò nell’isola di Manhattan, che nel 1615 gli olandesi non avevano ancora comprata dagli indiani, vestito mezzo da giardiniere e mezzo da gentiluomo (non era forse l’inviato del re?), il vestito di panno grossolano, ma i capelli lunghi fin sulle spalle, il cappello piumato, e il bastone d’ebano dal pomo d’argento passato nella mano sinistra dovendo la destra sostenere il sacchetto pieno di piccoli regali per gl’indigeni, i quali gli facessero conoscere alberi strani. Strana, devo dire, la robinia non è, ma affascinante, con quel suo tronco dalla scorza tormentata, e quei suoi rami contorti e spinosi dai quali, come per un improvviso segno di pace, pendono i più bianchi, i più soffici, i più dolci fiori del mondo. * Il signor Robin mi si siede accanto. « Vidi che gl’indiani ne mangiavano in abbondanza. Provai anch’io, ma, come Luigi XIII, m’affrettai a sputarli. Solo più tardi osservai che per mangiarli con gusto era necessario essere in due ed amarsi. Io non facevo più in tempo ad amare, ma serbo vivo l’incanto del ricordo delle gare di corsa dei giovani indiani attraverso i lunghi prati della Virginia fiancheggiati da migliaia di robinie. Si lasciavano dietro onde di profumo inebbriante, così come profumato era il sudore di chi lavorava non solo nei campi, ma a battere il ferro, a impastare l’argilla, a levigare la pietra per farne mole. Più la fatica era dura, e più odorava di robinie. Mi stupisce che lei solo, e ormai vecchio, mangi con piacere di questi fiori ». « Perché ne ho mangiati da giovane in compagnia. Ed ora che nessuno viene più all’appuntamento, a quanto rimane dell’antico piacere si mischia una vergogna che ogni anno si fa più grande, perché non c’è niente al mondo, io credo, di più ridicolo di un vecchio che mangi i fiori. Prima, perciò, mi guardo molto attentamente intorno, per aver la certezza d’essere solo. L’unica persona di cui non mi vergogni è lei, signor Robin. Sente? Il mio corpo si profuma ancora ». Robin non c’è bisogno di accompagnarlo a casa. Così come improvvisamente appare, improvvisamente sparisce. Torno solo, mi diverto a veder lo stupore della gente per il misterioso profumo che mi lascio dietro come, secoli fa, i giovani indiani della Virginia. Torno a casa a sera tarda, quando sia completamente svanito. E’ un boschetto a nemmeno sette chilometri dal centro di Milano. Ci sarà Laura l’anno prossimo? E ci sarò io? Il signor Robin sì, certamente, con quel suo vestito di panno grossolano, ma i capelli lunghi fino alle spalle, il cappello piumato, e la gloria, che durerà in eterno, d’aver dato il nome ad un albero.
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