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PITTURA: I MAESTRI: Hayez: Un fotografo di corte e un regista di melodrammi28 gennaio 2017
di Carlo Castellaneta Ci sono pittori che si amano a prima vista, e altri che solo la cultura, il tempo, la maturità insegnano ad amare. Uno di questi è stato per me Francesco Hayez. Vi contribuì, certo, la diffusione di una iconoÂgrafia deteriore (in certe vecchie latterie milanesi si potevano ancora vedere, non molti anni fa, appese sopra il banco, riproduzioni dei suoi quadri più faÂmosi), ereditata dal gusto piccolo-borghese del primo Novecento. Erano i Vespri siciliani che illustravano i manuali di storia. Era la scena del Bacio diligentemente coÂpiato dal pittore dilettante. Era il Cavour dei vecchi almanacchi. Per una sorta di maligna nemesi, che ta-lora colpisce alla loro scomparsa gli artisti più onorati in vita, sulla pittura di Hayez si aggrumò tutto il catÂtivo gusto nazional-popolare dell’Italia savoiarda, con il rischio di confinare questo maestro nel limbo degli illustratori alla Ludovico Pogliaghi. In realtà , basta sfogliare qualcuna delle tavole che seguono per rendersi conto di come quell’angolazioÂne appaia oggi superata, e come sia necessario invece rifare i conti con il caposcuola in pittura del nostro Romanticismo. Perché nessuno meglio di lui ha saÂputo tradurre in immagini quella ‘idealizzazione del reale’ che da Manzoni a Berchet, in polemica con il classicismo, rappresentò per l’epoca una piccola riÂvoluzione. Certo anche in Hayez si ritrovano, più o meno riÂcorrenti, tracce di gusto classicheggiante. Anche da romantico, egli dipinge inseguendo la grecità , il moÂdello della perfezione statuaria. Discende da qui (complice l’ammirazione per Canova) quella impresÂsione di freddezza che lo spettatore deve superare per avvicinarsi all’arte dell’Hayez. L’ideale della bellezÂza classica sembra perseguito talvolta a dispetto del soggetto medesimo, come se una grazia più sottile delÂle comuni apparenze possa, anzi debba, essere raffiguÂrata anche nel dipingere ciò che è brutto, come la miseria o la disperazione o la vecchiaia. Ritraendole, Francesco Hayez è impegnato a coglierne comunque gli aspetti nobili: saggezza nella vecchiaia, idealismi nella disperazione, compostezza nella miseria. La mitologia e la storia greca, portate in auge dalla Rivoluzione francese (Francesco bambino va a scuola di disegno mentre sta per chiudersi l’età del Direttorio), contrassegnavano ancora il RomanticiÂsmo, insieme alle reminiscenze bibliche, forse come parametri di giustizia sociale, o come aneliti unitari di perdute idealità entro un mondo di ambiguità politiche e complicità asburgiche, qual era il Lombardo-Veneto (provincia di un impero di burocrati) in cui crebbe e operò Francesco Hayez. Merito suo, comunque, è l’aver introdotto in ItaÂlia, mediandola dai suoi interessi per il Settecento francese  (non è immemore di Chardin l’Ammalala del Museo Civico di Torino), quell’aria rinnovatrice e sprovincializzante che il Pellico aveva definito esemÂplare per il “dirozzamento degli intelletti italiani” Quando a trent’anni espone alla mostra di Brera uno dei suoi primi quadri storici, il Carmagnola, Hayez diventa inconsapevolmente l’alfiere del nuovo moviÂmento nel campo delle arti figurative. Gli spiriti più aperti si riconoscono nei suoi dipinti. La reazione ai classicismo imperante (ormai ridotto a puro formaÂlismo, a esercizio accademico) non poteva avere inÂterprete migliore. Dirà acutamente Mazzini definendo l’arte dell’Hayez: la sola “che il pensiero nazionale reclamava in Italia”. Si noti che il quadro storico, genere screditato nella nostra epoca, costituiva per gli artisti dell’Ottocento — ce lo provano persine le lettere di Fattori – un traguardo ambizioso. Esso stava al riÂtratto come l’ode al sonetto. Il ritratto era affare priÂvato, una questione personale tra il pittore e il comÂmittente. Il quadro storico era invece il messaggio ‘urbi et orbi’ dell’artista verso il suo tempo. Saranno questi due motivi, il ritratto e il quadro storico, a suggestionare tutta la produzione dell’Hayez e a condizionarne la fortuna critica nell’arco di centanni. Il nostro tempo non sopporta le ninfe, gli armiÂgeri, i velluti, i pennacchi, le dee al bagno. Questa tematica presupponeva un mondo ben ordinato, paÂcifico, non ancora scosso dalla lotta delle classi. Che cos’è dunque che ci fa guardare ancora queste VeÂneri e queste Betsabee poco vestite, queste incredibili odalische che posano rabbrividendo sotto un lucerÂnario, in uno studio mal riscaldato? In effetti siamo ben consapevoli della mistificazione, dinanzi ai Due Foscari o dinanzi ai Crociati sotto Gerusalemme. Il sipario si alza sul primo atto del melodramma. Non dobbiamo lasciarci ingannare, ma attendere qualche minuto che l’effetto dei violini sia svanito. Allora nei chiaroscuri, magari in un particolare insignificante del quadro, potremo leggere un’emozione, il segno – magari una debolezza – di una maestria raffinata. Come se, per consiglio di un critico strutturalista, poÂtessimo esplorare adagio con una lente l’intera superÂficie del quadro storico, alla ricerca delle pagliuzze d’oro. A volte invece l’intento celebrativo è così scoperÂto da presentarsi come una forma di ‘realismo sociaÂlista’ in chiave feudale. Il dipinto diviene così romanÂza, il baritono si fa avanti con la spada sguainata: Maria Stuarda intona l’acuto, Giulietta e Romeo eseguono un duetto, Marin Faliero cantando posa il capo sotto la mannaia. La predilezione per il quadro storico si ritrova del resto nel costume di quella società : le feste da ballo in maschera così care all’aristocrazia milanese. Lo stesso Hayez disegnerà gli abiti per questi balli. In tal modo i soci della ‘Patriottica’ troveranno rispecÂchiato nei dipinti di Hayez un mondo prediletto dalÂl’immaginazione. Ma dove l’impeto romantico prevale sul tema, allora abbiamo quadri come Il bacio, forse il più hayeziano di tutti. Intorno a questo soggetto, di irritante perfezione, si può esercitare tutta una serie di congetÂture negative. Ma non a caso la sua ideazione coinÂcide, date alla mano, con la seconda campagna d’indiÂpendenza. Quell’amante dal cappello piumato (il danÂnunzianesimo ribattezzerà questo dipinto Paolo e Francesco) è dunque, per l’osservatore avvertito, il volontario in procinto di prender l’armi contro l’odiaÂto tiranno. Quello stesso tiranno che aveva nominato (per bocca di Radetzky) il signor Francesco Hayez alla direzione dell’Accademia di Brera, e poi gli aveÂva ordinato il ritratto dell’imperatore. E se è vero che nel Bacio echeggia il rullo del tamburo che chiama con Garibaldi (anzi coi pieÂmontesi, se stiamo alle inclinazioni conservatrici del Maestro), è un sentimento civile che Hayez rappreÂsenta dietro il paravento di un episodio amoroso. Episodio che dovette turbare tuttavia i benpensanti per l’insolito realismo della scena: il modo in cui il giovane tiene tra le mani il viso dell’amata; l’attegÂgiamento disinvolto, quasi da istantanea rubata, colta sul vivo; infine la durata di un bacio in pubblico che nel 1859 doveva apparire scandaloso, tale da invocaÂre, se fosse esistito, l’intervento immediato di quel Codice Hays che a Hollywood stabiliva in minuti seÂcondi la durata degli abbracci. Idolatrato dal pubblico, sensibile al successo, HaÂyez pagò certo alla moda un prezzo forse eccessivo, e al mercato che l’alta borghesia gli offriva qualche ripetizione di se stesso, come sarebbe accaduto a Boldini qualche decennio più tardi. Ma anche come pittore ‘di cappa e spada’, anche in questo suo teaÂtrino di ‘beaux gestes’, di favole, di allegorie, di miti, balena a tratti la pennellata geniale, il segno inconÂfondibile dell’artista, come ad esempio nel paesaggio ‘corotiano’ dei Profughi di Parga. Da notare invece come nei nudi manchi la senÂsualità di un Ingres (sebbene sia evidente l’origine di quelle odalische), a causa di una concezione delÂl’arte austera e severa che dominò non lui solo ma gli spiriti romantici in tutto il Lombardo-Veneto. Di nuovo allora l’Hayez va cercato nei dettagli. Va cerÂcato nell’elmo di Rinaldo appeso al ramo più che nell’idillio campestre tra i due eroi. Va cercato nel profilo della bella ebrea nell’Incontro di Giacobbe ed Esaù. Ma soprattutto il meglio di sé Hayez lo ha affiÂdato ai ritratti. È qui che egli tocca i suoi vertici, quando il discorso romantico si fonde col realismo, o meglio con una sorta di fisionomismo interiore che da al modello un’insolita autonomia. Se dobbiamo credere alla fedeltà dei dipinti, pur concedendo alÂl’autore di avere forse aggraziato qualche difetto, è indubbio che i ritratti possiedono un fascino a cui è difficile sottrarsi. Essi ci raccontano un mondo scomparso, immobiÂle nelle sue barriere di classe, ma nel quale l’aristoÂcrazia aveva un ruolo non indifferente verso l’arte e la cultura. Mi chiedo se un conte Ninni o una Belgioioso o una contessa Vitali dei nostri giorni riusciÂrebbero a esprimere tanta inquietante maestà , una tale consapevolezza di sé. Negli esempi più distaccati (nessuno sorride, in questi ritratti, perché così vuole la moda) ci appaiono come una quadreria di benefattori ancora immuni dalle tempeste del QuaÂrantotto, sprofondati in un loro ‘spleen’ cattolico e austriacante. Hayez dunque coglie con maestria, e magari ‘malgré soi’ come succede talvolta agli artisti, quel risvolÂto del carattere lombardo fatto di sussiegoso distacÂco e di repressa inquietudine, che nella borghesia delÂla Restaurazione si palesò maggiormente, ma che a Milano aveva radici più remote, controriformistiche, come dire? di ‘pruderie’ borromea. Sotto questo aspetto, Hayez è il più grande fotoÂgrafo di corte dell’aristocrazia ambrosiana. La soaÂvità del pennello non impedisce di vedere, al di là di questi volti atteggiati a mestizia, un piccolo uniÂverso di mappe catastali, di beghe ereditarie, di frulÂlanti telai di Brianza, generazioni di filerine, dinastie di oculati finanzieri, di mogli sagaci e pie. Sono le ‘damm del bescottin’ (così dette per i biscotti che recavano in visita agli ammalati, capegÂgiate dalla marchesa Teresa Arconati), che il Porta proprio in quegli anni (1817) metteva alla berlina in un celebre sonetto. Ma sono anche le sognanti creature, come la Felicina Caglio, amate da Stendhal ancora ufficialetto nel suo primo viaggio a Milano. “Questa sera alla Scala, giorno di prima recita, nei palchi tutte le signore erano abbigliate splendiÂdamente, cioè con le spalle e il collo nudi, e grandi cappelli adorni di enormi e bellissime piume …”, annota Henry Beyle il 16 luglio del 1817 nel suo diaÂrio milanese. I monili, i velluti, i cannellotti arricciati col ferro dalla pettinatrice, la spuma di una trina su un avaro ‘décolleté’, ma anche i fondali del paesaggio tenue come i colori della Grigna quando appare in lontaÂnanza, sono decalcomanie di un mondo che preme immediato alla memoria. Dove abbiamo già visto queÂste gentildonne? Certamente all’ora della passeggiata sul Corso, cioè sui bastioni di Porta Renza, quando gli equipaggi gareggiano per il lusso dei legni o per la fama dei proprietari. Lasciamo di nuovo la parola a Stendhal. “Le vetture delle belle donne sono circondate di bellimbusti. Le signore della nobiltà non permettono ai loro amici borghesi di far loro la corte così in pubÂblico. Le dame anziane intrecciano una singolare conversazione con il loro domestico il quale, quando la carrozza è ferma, si pone accanto allo sportello”. Ecco un modo per godere, a parte la preziosità del dato pittorico, questa galleria di ritratti come oggi assisteremmo a un documentario. Curioso, piutÂtosto, il fatto che nei ritratti virili Hayez si abbandoni a un maggior estro romantico. Il volto di Giuseppe Roberti o di Pompeo Marchesi hanno il piglio di un Delacroix. Qui davvero la Lettera del Berchet (che doveva diventare il manifesto del Movimento) è inÂcarnata splendidamente. Nell’ ‘atelier’ in contrada della Spiga, che possiamo immaginare arredato con austero decoro (l’enorme cavalletto, l’odor di acquaÂragia, il sofà per la modella, i tubetti dei colori ben ordinati), passa un soffio di sregolatezza. Hayez è il Giovane Werther, è Julien Sorel, è l’eroe anonimo di una passione sfortunata, come esiÂge il tempo suo. Quel sublime artigianato col quale lavora sempre meticolosamente cede per un momenÂto al piacere impressionistico del bozzetto, la pennelÂlata è rapida, quasi stenografica. Vien da chiedersi dove l’Hayez sarebbe giunto su questa strada, rischioÂsa ma certo meno formalistica di quella che invece preferì seguire. Nella ritrattistica dei grandi personaggi, da Ca-vour al d’Azeglio, da Rossini al Manzoni, il mestiere col quale egli spadroneggia ormai da gran virtuoso è tale da rasentare l’illusione del dagherrotipo. La morbidità del chiaroscuro (anche negli scarni autoritratÂti) restituisce intatta la poca luce di quei salotti, l’odore dei panni di lana pesante, il pulviscolo sul bracciolo di una poltrona, le mani gelide che il moÂdello ha appena distolto dallo scaldino. Dei dipinti visti un giorno nella quadreria delÂl’Ospedale Maggiore, Stendhal aveva scritto: “QueÂsti ritratti, eseguiti durante il XVII e il XVIII seÂcolo, sono di un cattivo gusto neppur sospettabile in Francia; pochi sono passabili, ed uno solo è buono, quello eseguito di recente dall’Hayez, un giovane veÂneziano che sa usare il chiaroscuro e il colore, e ha nel complesso una certa forza …”. Quale maggior riconoscimento, per un pittore così agli antipodi delle predilezioni stendhaliane? Altre volte Hayez appare invece sorprendentemente moderÂno, come in quel Nudo di donna stante di un taglio così ‘novecentesco’ da figurare metafisico, oppure in taluni particolari della Distruzione del tempio di Gerusalemme, in cui si può cogliere un’anticipazione del grande realismo. Concludendo, pur con i limiti che si sono indicaÂti, esce dall’opera di Hayez la cronaca interiore, e perciò più ‘fedele’ d’ogni altra, della Milano asburgica, una città austera e sospirosa, repressa e conÂformista, ma con un gusto per le cose belle che oggi ci è dato soltanto di rammemorare. Scriveva un critico, recensendo un’esposizione nel 1838 in cui l’Hayez figurava con nove tele, che “quanÂdo tu vieni innanzi ad uno di questi dipinti, e ti fermi e lo guardi a lungo, il tuo occhio si avvezza, dirò così, a quella atmosfera artificiata, e quei visi e quegli atti parlano al tuo cuore, e quasi dimentichi di essere inÂnanzi ad una fredda tela, e credi a quel pianto o a quella letizia che il pittore ha voluto esprimere …”. Chiudiamo anche noi gli occhi, per un istante, e all’aprirsi del sipario echeggerà sopra quei fondali di teatro che sembran dipinti a colla come le quinte del balletto eroico La vendetta di Venere, un preludio rossiniano, una musica d’archi, forse l’aria della GazÂza ladra su una fila di candidi mantelli d’ufficiali. AnÂche questo è uno dei miracoli dell’arte. Ma il mistero che abita i ritratti di Francesco Hayez, quello reÂsterà inviolato, anzi perduto per sempre, entro i laÂbirinti del tempo. Letto 946 volte.

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