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STORIA: I MAESTRI: Matteo Lo Vecchio15 agosto 2017
di Leonardo Sciascia In via Albergheria domandiamo a una donna dov’è la via Matteo Lo Vecchio. Risponde che dev’essere un po’ più avanti, a sinistra. Per darci più sicura indicazione, gridando domanda a una vicina se la via di Mattiu ‘u Viecchiu non è più avanti, a sinistra. La vicina ripete il nome, ci pensa su un momento, conferma. Pronunciato in dialetto, con quel di possessivo e con una inflessione in cui ci pare di cogliere lontano timore e disprezzo, quel nome fa uno strano effetto: come stessimo cercando una persona viva, nel quartiere ben conosciuta ma indesiderata. La via è poi un vicolo corto e stretto, fatto di tristissime case; e una piuttosto antica, forse appunto quella del Lo Vecchio. Meno oscuro, però, di quello vicino intitolato a Cagliostro: il vicolo in cui Goethe entrò in un pomeriggio di aprile del 1787, per ingannare la vecchia madre del grande avventuriero. * Con la bolla Quia propter prudentiam tuam, nel 1097 Urbano II conferiva a Ruggero il normanno e ai suoi successori il potere della Legazia Apostolica sulla Sicilia appena « liberata » dagli arabi. Tale potere consisteva nella giurisdizione sulle cose ecclesiastiche da parte dei re di Sicilia: e veniva esercitato, supremamente, attraverso un tribunale detto della Regia Monarchia (denominazione in cui si affermava e ribadiva la doppia potestà, temporale e spirituale, del re: sia nell’interpretazione di Monarchia come contrapposto a diarchia, sia nel significato medioevale di diocesi). Unito al potere di nominare i vescovi, quello della Legazia, anche se non entrava nelle questioni di fede, faceva dei re siciliani quasi dei papi (o quasi degli antipapi): e perciò più volte, nel corso dei secoli, la Curia Romana aveva tentato di negare l’autenticità della bolla o di darne interpretazioni limitati- ve; ma in difesa del privilegio si era formata in Sicilia una scuola giuridica talmente agguerrita, intransigente e sottile che la bolla « aveva aspetto e sostanza di un vero e proprio contratto non rescindibile unilateralmente ». La bolla insomma era considerata dai giuristi siciliani come oggi, rovesciandosi le parti, alcuni giuristi cattolici pare vogliano considerare il concordato del 1929. Sul punto, il conflitto più violento tra Curia Romana e Regno di Sicilia esplose il 22 gennaio del 1711. E per un pugno di ceci che due guardie annonarie del comune di Lipari (i cui nomi — Giambattista Tesorero e Giacomo Cristo — dai brevi pontifici sono stati tramandati alla storia) prelevarono come tassa da un bottegaio che per conto del vescovo li teneva in vendita. Era vescovo di Lipari monsignor Nicolò Teleschi, di recente nomina. E appena appresa la notizia di quella esazione, secondo lui illegittima, si accese « di sì vehemente furore, che divenendo Mongibello di eccidi, eruttar parea fiamme di orrende minacce ». A placarlo, le autorità comunali di Lipari ordinarono alle due guardie di restituire gli ottocento grammi di ceci. Ma a monsignore non bastava la restituzione: voleva che le autorità dichiarassero illegittima l’azione delle guardie e gli rivolgessero pubbliche scuse. Al rifiuto, fulminò sulle due guardie, quali violatori delle immunità ecclesiastiche, la scomunica maggiore. Il Tribunale della Regia Monarchia, cui le guardie fecero ricorso, sospese il provvedimento di scomunica. Il vescovo corse a Roma: e ottenne piena approvazione al suo operato, una lettera che dichiarava incompetente il Tribunale della Regia Monarchia ed un’altra, diretta all’episcopato siculo e con ordine di renderla pubblica, che ribadiva la stessa tesi. Ma per rendere pubblica la lettera, i vescovi avevano bisogno dell’approvazione di quel Tribunale stesso che la lettera attaccava. Alcuni vescovi la chiesero (e naturalmente non l’ebbero), altri fecero presente alla Santa Sede le conseguenze che la pubblicazione della lettera poteva portare (i più ingenui: poiché la Santa Sede appunto le aveva calcolate); i vescovi di Catania, Girgenti e Mazara la pubblicarono senz’altro. A questo punto, il viceré Carlo Antonio Spinola domandò al clero siciliano più qualificato per dottrina un parere sulla controversia. Cinquantanove maestri teologi dichiararono legittima l’azione del Tribunale e illegittime le pretese della Santa Sede. Stampata e diffusa la dichiarazione, il viceré fece seguire un bando in cui si dicevano nulli tutti gli atti di provenienza estera non approvati dall’autorità regia. Il vescovo di Catania reagì immediatamente: dichiarò nullo il bando del viceré e la dottrina in esso contenuta « temeraria, orrida, scandalosa e perniciosa ». Il viceré ordinò l’espulsione dal Regno del vescovo di Catania; e subito dopo quella dei vescovi di Girgenti e Messina. Partendo, i tre vescovi decretarono l’interdetto sulle loro diocesi e lanciarono scomuniche contro giudici e ufficiali di polizia. Intanto, per il trattato di Utrecht, Filippo V di Spagna cedeva a Vittorio Amedeo II di Savoia il Regno di Sicilia. Il nuovo re cercò di trattare con la Santa Sede una soluzione del conflitto soddisfacente per entrambe le parti. La Santa Sede fu irremovibile: voleva la fine del privilegio. Il conflitto si fece allora più violento. Nella sola diocesi di Girgenti vennero a mancare (per arresto, espulsione e latitanza) settecentodiciannove ecclesiastici. Il clero era ormai di viso in « curialisti » e « regalisti », si parlava di « scisma siciliano ». Nelle diocesi in interdizione nascite, matrimoni e morti non avevano più sacramenti: e la gente si ci rassegnava. Forse perché più acuto dello Spinola, forse perché favorito dal sommuoversi di speranze e di energia che in Sicilia provocano i mutamenti di vertice, il viceré conte Maffei portò la difesa del privilegio da un piano puramente giuridico a un piano culturale e rivoluzionario. Vennero fuori « uomini nuovi », una vera e propria classe dirigente quale mai la Sicilia aveva avuto (e mai, purtroppo fino ad oggi, avrà). Corsero venature gianseniste, si ebbero più stretti rapporti con la cultura francese. Un clero che credeva in Dio e propugnava il diritto dello Stato contro la temporalità della Chiesa veniva affermandosi contro il vecchio clero isolano, sostanzialmente ateo, avido di benefici, intento a scrutare e ad avallare prodigi e superstizioni. Ad eseguire mandati di arresto o di deportazione contro il clero più riottoso, ci voleva un ufficiale di polizia particolarmente zelante e particolarmente refrattario, per temperamento o per convinzione, alle scomuniche. E così venne fuori Matteo Lo Vecchio: forse dai ranghi della polizia ordinaria chiamato alla fiducia del giudice Antonio Nigrì. Fiducia bene accordata: ché Matteo Lo Vecchio fu inflessibile esecutore, affrontando scomuniche, esecrazione, impopolarità. Il canonico Mongitore, del partito « curialista », afferma che facilmente i preti lo corrompevano e scansavano l’arresto: ma il numero stesso dei preti arrestati contraddice l’affermazione, e l’odio di cui il Mongitore lo gratifica, e la vendetta di cui fu vittima. * Nel giugno del 1718, in violazione del trattato di Utrecht, gli spagnoli tornavano a impadronirsi della Sicilia. Tornando alla vecchia politica, la Spagna, che nel 1711 non aveva ceduto alla Santa Sede, nel 1719 ne accettava le condizioni. Per pacificare gli animi, ma più per riparare agli errori, gradualmente venivano revocati gli interdetti, ritirate le scomuniche. Ma molti uomini di cultura erano già emigrati a Torino. Quelli rimasti in Sicilia venivano allontanati o si allontanavano dalla vita pubblica. Ultimo ad essere assolto dalla scomunica fu Matteo Lo Vecchio. Ma non dalla vendetta: e due colpi di archibugio mettevano fine alla sua vita la sera del 21 giugno, davanti la cattedrale. Alla data 22 giugno 1719, il canonico Mongitore annota nel suo diario che al funerale, pagato da don Antonio Nigrì, popolani e ragazzi « si posero dietro il cadavere con fischi e dispreggi, crocitando e ridendo », sicché fu abbandonato in strada. Prelevato da alcuni facchini, fu lasciato dietro la chiesa di Sant’Antonino: ma i frati dell’attiguo convento uscirono armati di bastone, inseguirono i facchini, ne raggiunsero uno solo e costui costrinsero a caricarsi del cadavere. Facchino e frati cercarono di scaricarlo al cimitero dei poveri, ma il romito che lo custodiva rifiutò di accoglierlo: « onde i portatori, salito il muro dietro la chiesa, lo portarono ivi; e vedendo in tal luogo un pozzo secco, in esso denudato gettarono il cadavere ». E conclude: « Fu da tutti ammirata la divina giustizia contro un dispreggiatore della Chiesa e ordine ecclesiastico ». Ma non da noi. E mentre guardiamo la casa che forse fu sua ricordiamo lo straziante racconto di Faulkner che si intitola Una rosa per Emily: di miss Emily che per anni dorme accanto al cadavere dell’uomo amato. Una rosa per Matteo Lo Vecchio: per questo cadavere che esattamente da un secolo e mezzo giace, in fondo al pozzo secco, accanto al cadavere dello Stato.
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