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STORIA: I MAESTRI: Silvio Spaventa: Un grande borghese23 marzo 2017
di Giovanni Russo La fotografia di Silvio SpaÂventa, che sta accanto al fronÂtespizio del libro di Elena CroÂce (« Silvio Spaventa » EdizioÂni Adelphi pp. 328 lire 3500), sembra giustificare con l’eÂspressione intenta e malincoÂnica, lo sguardo penetrante dietro gli occhiali a stanghetÂta, il pizzetto alla Napoleone III, una mano sulla catena delÂl’orologio, la caricatura di CaÂmillo Marietti che lo rappreÂsentava, nel gennaio del 1865, in un giornale satirico torineÂse, con un corpo di civetta, e la didascalia: « Angel notturÂno, sepolcrale e tristo ». In realtà dalla fotografia, evidentemente ufficiale, poiché indossa una corretta marsina probabilmente confezionata da un sarto di Londra, Spaventa appare, piuttosto, come ce lo descrive il De Amicis, che lo incontrava nel salotto Peruzzi, « torre minacciosa in cui si diceva fosse chiuso un sanÂto, ma che per intanto metÂteva paura ». Questo abruzzese orgoglioÂso e solitario, che fu legato a pochi intensi affetti privati (e soprattutto a quello per il fraÂtello Bertrando, uno dei fonÂdatori della scuola hegeliana in Italia) e che dedicò tutto se stesso alla vita pubblica, non è stato mai popolare ai suoi tempi e non lo è neppure oggi. Senza gli studi del nipote BeÂnedetto Croce (Silvio SpavenÂta era cugino di suo padre e ne divenne il tutore dopo che i genitori di Croce morirono nel terremoto di Casamicciola) le figure dei fratelli SpaÂventa sarebbero probabilmenÂte rimaste circoscritte nell’amÂbiente degli specialisti di stoÂria e di filosofia. E si deve ora alla figlia di Croce, Elena, aniÂmata da una « pietas » quasi familiare, che non fa velo al giudizio storico se, per la priÂma volta, abbiamo un ritratto a tutto tondo del personaggio umano di Silvio. Egli emerge tale da suscitare se non paura (come scriveva De Amicis) riÂspetto e ammirazione, sentiÂmenti che suggeriscono, pur sempre, di tenersi un po’ alla larga da lui. Certo non poteva essere simÂpatico agli italiani, che sospetÂtano sempre nella fermezza di carattere una fonte di disturbi e di « grane », questo rivoluÂzionario meridionale che non venne mai a compromessi, che agiva solo secondo coscienza, che, condannato a morte nelÂl’ignominioso processo per i fatti del ’48, dai giudici borÂbonici, su testimonianze prezÂzolate, in una lettera a GiuÂseppe Massari scriveva parole come queste: « Io sono uno che crede fermissimamente al trionfo della libertà e della raÂgione dell’uomo: e quand’anco mi sarà tolto di vedere riÂsorgere l’alba della nostra reÂdenzione, io morirò lieto perÂché non ne dispero ». Il mito di Spaventa, alimenÂtato anche da studi recenti di storici marxisti, è quello di un borghese conservatore che non capì le esigenze sociali del Meridione e fu, invece, arteÂfice con la « consorteria » toscoemiliana e i piemontesi di uno Stato moderato e sostanÂzialmente oppressore delle pleÂbi del Sud. Antonio Labriola, in una lettera che scriveva a Benedetto Croce, il quale aveÂva raccolto in un volume gli scritti di Silvio Spaventa, anÂticipava questo giudizio quanÂdo affermava che Spaventa era una personalità da « non proÂmettere né ad eruditi né a roÂmanzieri l’occasione o il guÂsto di una qualche scoperta » perché era « un gran giurista mancato, un uomo di straorÂdinaria rettitudine, un singolaÂre misto di semplicità provin-cialesca e di scolasticismo meÂtafisico, ma punto un uomo poÂlitico ». E aggiungeva: « Non mi è chiaro perché Spaventa piuttosto disperato anziché no uomo senza arte e senza parÂte, incline al formalismo logiÂco, privo di studi storici e sociali, in tali condizioni diÂsperate d’Italia, sia stato semÂpre un liberale moderato e niente altro ». * La biografia di Elena Croce è un’esauriente, appassionata e documentata confutazione di questo giudizio: al contrario di quello che Labriola pensaÂva, le scoperte, sia per gli eruÂditi sia per i romanzieri, ci sono e sono, anzi, di una ricÂchezza e ampiezza inattese. Se la biografia di Elena Croce si fosse limitata a racÂcontare la funzione di Silvio Spaventa come uomo pubblico (da quando, nel 1848, fondò, ventiseienne, a Napoli, il giorÂnale « Il Nazionale » a quanÂdo, dopo sei durissimi anni di ergastolo nell’isola di Santo Stefano, divenne deputato al Parlamento Italiano, poi seÂgretario al Ministero dell’InÂterno nel gabinetto Farini-Minghetti del 1863-’64, ConsiÂgliere di Stato nel 1868 e MiÂnistro dei lavori pubblici dal ’73 al ’76) non avrebbe agÂgiunto molto al giudizio che vede in lui l’uomo politico, che, in un periodo delicatissiÂmo, meglio di ogni altro «comÂbatté municipalismo e piemontesismo, congiure di siniÂstra e reazione associata al brigantaggio ». Il fascino di questo libro sta, invece, nel talento con cui l’autrice ha ricostruito non soÂlo la psicologia di Spaventa (compito tremendo se si penÂsa come egli fosse schivo, chiuÂso, restio a confidenze) ma anche l’ambiente familiare e quello della società in cui visse. Con infaticabile solerzia, Elena Croce non ha consultaÂto solo il carteggio di Silvio con il fratello Bertrando, ma anche altri finora sconosciuti: dalle lettere che lo Spaventa scambiò, quando era all’ergaÂstolo, con una sua lontana cuÂgina desiderosa di sposarlo, Felicetta Ulisse, maggiore di lui di qualche anno, non belÂla, ma, come dice l’autrice, « sicura dei propri diritti roÂmantici »; alla corrispondenÂza, che mantenne per tutta la vita, con un’altra cugina più stretta, Marianna, figlia minoÂre del consigliere Croce (che lo aveva ospitato da giovane a Napoli) ed era maritata a Francesco Petroni, ricco proÂprietario salernitano di idee liberali. La Croce ha poi visiÂtato i luoghi dove Spaventa nacque, studiò e lavorò, e perÂsino l’ufficio del Consiglio di Stato, che egli presiedé negli ultimi anni della sua vita. Da questa amorosa indagiÂne, è nato il miracolo che SilÂvio Spaventa, relegato nell’emÂpireo dei Padri della Patria (un noioso da onorare e da dimenticare) è ritornato, inÂvece, un uomo quasi palpabiÂle, E con lui rivive quella soÂcietà liberale del Sud, niente affatto provinciale, perché, coÂme dimostra Elena Croce, l’unica « provincia » europea era allora, proprio quella delÂla cultura napoletana. * Silvio Spaventa non ricercò mai la popolarità e il successo a buon mercato. Questa diÂgnità lo impone alla « consorÂteria » toscoemiliana o a uoÂmini come il Farini, diffidenti verso i « napoletani »; anche se proprio fra i giornalisti pieÂmontesi rinascerà l’insulsa caÂlunnia, di cui ben poco si curava, che lo dipingeva coÂme un « camorrista », lui che fu il vero nemico della caÂmorra. «La caricatura del perÂsecutore di camorristi che asÂsume sembianze di capo caÂmorrista, elaborata a Napoli durante la Luogotenenza — scrive Elena Croce — acquiÂstava automaticamente, coi fatti di settembre, nuovo corÂso ». (Si tratta delle dimostraÂzioni a Torino contro il traÂsferimento della capitale a FiÂrenze). « Si disse che SpavenÂta, chiamati i suoi sgherri naÂpoletani, aveva dato dal suo ufficio, con un colpo di pistoÂla, il segnale perché la trupÂpa aprisse il fuoco sui dimoÂstranti, ed era restato a guarÂdare freddamente, dietro i veÂtri, fumando un sigaro ». Cosa sarebbe stata l’Italia del Sud, se uomini come lo Spaventa non fossero stati perseguitati dalla cecità di Ferdinando? Quale sarebbe stata l’Unità se l’apporto di queste energie morali, nutriÂte di civiltà europea, non fosÂse avvenuto in tali condizioni di inferiorità politica e sociaÂle del Mezzogiorno? La storia non si fa con gli interrogativi; ma tale è il senÂtimento di rammarico che sgorga dalla lettura della bioÂgrafia di Silvio Spaventa, un libro che è, in realtà , il priÂmo romanzo, nel senso prouÂstiano del termine, della borÂghesia rivoluzionaria e libeÂrale del Sud. Spaventa (e il suo matriÂmonio tardivo lo dimostra) era tenero negli affetti anche se era parco nel mostrarli. « Non era effettivamente un uomo politico, e nemmeno un giurista — scrive l’autrice a conclusione della sua opera — perché era un uomo senza mestiere che non aveva nemÂmeno il culto del lavoro: aveva soltanto la passione, apÂpunto ‘disperata’, dello spenÂdere se stesso per una causa». Il libro di Elena Croce è qualcosa più di una biografia. C’è in questa opera, che conÂferma in Elena Croce un’auÂtentica scrittrice italiana, una autentica partecipazione a una società , cui l’autrice sente anÂcora di appartenere: la società del Gattopardo di Tornasi di Lampedusa o dei Viceré di De Roberto, la società della « Fine di un Regno » di De Cesare o del palpitante Diario Napoletano di Carlo De NiÂcola. Letto 932 volte.

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