PITTURA: Dal quadro al racconto: L’atelier del pittore
2 Novembre 2007
racconto di Lucetta Frisa
[Gli ultimi libri di poesie pubblicati da Lucetta Frisa sono: “L’altra”, Manni, 2001 e “Se fossimo immortali”, Joker, 2006]
Un attore fuori scena sembra un evaso da un regno di fantasmi. Ha un attimo di vita sotto le luci che lo illuminano, nel doppio gioco degli sguardi. Poi, calato il sipario, l’ombra delle quinte lo inghiotte, l’eco della sua voce si spegne come il bagliore nell’occhio di chi l’ha guardato. E dopo? Chi è? Dove andrà ?
Ma vuole il ritratto da me. Dice di desiderarlo da molto tempo. È passato di qui dopo un lungo viaggio in visita a un parente che gli ha parlato di un bravo pittore che abita proprio girato l’angolo. Sono io. Perché non si è scelto un ritrattista del suo paese? Di quelli con il palco riservato alla première, invitati a corte dal re o alle piccole corti di nobilastri affamati d’immortalità ? Artisti fatui e servili che fanno inchini e complimenti come pappagalli ammaestrati.
  No, non vuole essere ritratto sulla scena mentre recita – sarebbe inoltre un’impresa impossibile – ma come un uomo senza trucchi e costumi di scena,  tra pareti domestiche. Per questo vuole me.
  Lo guardo con imbarazzo: occhi opachi, anonimi, gesti di un’affettata naturalezza. Il modo di rotolare la erre mi dà sui nervi. Ha recitato con Molière, dice. Molière sostiene che la recitazione non deve essere enfatica – è acerrimo nemico di Montfleury, un vecchio istrione – perché la commedia riflette la realtà quotidiana e ridicolizza debolezze e virtù degli uomini, tutti i loro eccessi. Così lui desidera un ritratto da chi sa guardare le cose come sono, senza orpelli né finzioni. Ma con grazia. Voilà tout.
 Non so se accetterò la commissione. Perché io non amo gli attori. Li considero persone a metà come i personaggi che interpretano, mezze persone e mezze marionette.
  E costui mi chiede di esistere comunque, di mettersi a nudo davanti a me, fuori  scena, e di fermarsi per sempre sulla mia tela mentre il suo destino è quello di passare su un palcoscenico come un’ombra fugace. Come lo intitolerò? Ritratto di attore fuori scena? Quale, di queste figure, sarà più reale? Quella da me ritratta, fuori dalla scena, qui, nel mio atelier- – ammesso che mi decida a fare il quadro – o quella che recita sul palcoscenico? Mi sarebbe difficile dipingere tutto questo senza dover rinunciare a qualcosa. Come se io, per un gioco di prestigio, venissi scaraventato su una ribalta e mi imponessero di recitare la parte di un pittore.
Mi sta ancora parlando e io non riesco più a seguirlo. Penso al mio prossimo quadro che diventerà un buon quadro, già lo sento. Ho scelto la posa di mia figlia che mi farà da modella e immagino come calibrare la luce, farla effondere in giro senza sottolineature, non svelando, né nascondendo. La dolce quiete della mia casa dovrà risplendere come sempre, vibrante e discreta, riflettersi negli oggetti più umili e schivi; per sfondo mi rassicura la grande mappa geografica che già da piccolo immaginavo di percorrere a piedi o a cavallo o in comode carrozze, e ora che da adulto mi sono allontanato ben poco dal tepore di questa casa, c’è mio figlio minore che guarda incantato la mappa e insiste a chiedermi notizie sui paesi segnati.
  Cosa risponderò a quest’uomo diviso? Che non so ritrarre il vuoto che vedo in lui?  Che mi mette a disagio. Che amo la scena ma non il teatro, perché in teatro c’è sempre un sipario che si abbassa, luci che si spengono e gli uomini, dopo, non esistono più. Â
  Preferisco la pittura : ferma le cose nel tempo.
  Forse, per meglio riuscirci, mi piacerebbe dipingere l’atto del dipingere. Potrei dipingere un pittore mentre dipinge un quadro.  Sarà in fondo come recitasse anche lui. Perché non in quel quadro che avevo in mente?
  A sinistra la finestra invisibile e mia figlia che è bionda e ha un bel viso chiaro e tenero, la veste azzurra, un’acconciatura greca e in mano un libro e una tromba. Sarà Clio, la Storia. L’idea è stata sua, non so come le sia venuta.
  Mi diranno che la storia è simile a un teatro dove, come dice Shakespeare, gli uomini ne sono i commedianti. So di essere anch’io un direttore di scena. Ma di una scena sola che allude a tutte le altre. Concentrata, assoluta. Se dipingo un’allegoria, l’allegoria è eterna, una figura immobile dentro un sogno.
  Se voglio dipingere un pittore che dipinge un quadro, ritrarrò me stesso al centro del mio atelier. Metterò due specchi, uno davanti a me e l’altro di spalle, di lato, a una certa distanza, in modo che luce e spazio mi avvolgano circolarmente, e io sarò, sia nella scena dipinta, chino sulla tavolozza dove comincia a nascere un sirto d’alloro e poi la figura intera di mia figlia, sia fuori dalla scena, mentre lo guardo, proprio come chi, dopo di me, occuperà il mio punto di osservazione.
 Â
Forse l’attore si è accorto della mia disattenzione. Lo vedo bere d’un fiato il liquore d’erbe che mia moglie, entrata nella stanza in punta di piedi, gli ha offerto timidamente. Mi  sembra di vedere la domestica porgergli in fretta il manto troppo ampio, l’enorme cappello vistosamente piumato che contrasta con l’esiguità e il pallore irreale del suo volto. Un breve inchino, secco e nervoso, e non lo vedo più.
  Finalmente solo, posso tornare a dipingere.
  Sollevo il pesante sipario tessuto preziosamente, e comincio da lui, dal pittore e cioè da me che comincio a dipingere e a fermare la luce dove tutto può rappresentarsi. Questo sipario lo lascio sollevato per impedire al buio di entrare e mentre dipingo avverto migliaia di occhi dietro di me – perplessi o benevoli –  che osservano il mio quadro. Un brivido mi percorre la schiena.
Nota.
Questo racconto mi è stato suggerito dall’omonimo dipinto di Jan Vermeer che rappresenta l’artista stesso visto di schiena al centro del suo atelier. Il quadro è esposto al Kunsthistorisches Museum di Vienna.
Letto 2859 volte.