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ARTE: I MAESTRI: Ecco l’Arte Povera

28 Luglio 2010

di Dino Buzzati
[dal “Corriere della Sera”, lunedì 9 febbraio 1970]

Bologna, febbraio
La terza Biennale della Gio ­vane Pittura è una collettiva senza precedenti in Italia. Le prime due avevano messo in vista la cosiddetta neo-figura ­zione. Stavolta l’Ente bologne ­se manifestazioni artistiche ha adunato nel Museo civico l’Ar ­te Povera, particolarmente nel ­le forme dette Arte Concet ­tuale. Commissari critici; Re ­nato Barilli, Maurizio Calvesi, Andrea Emiliani e Tommaso Trini.

Che cosa è l’Arte Povera? Altre volte se ne è parlato. Oggi rappresenta l’avanguar ­dia. Germano Celant, pioniere teorico del movimento, ha pub ­blicato recentemente un libro intitolato appunto Arte Pove ­ra (editore Gabriele Mazzotta). Spiega come «vegetali e animali sono insorti nel mon ­do dell’arte… L’artista alchi ­mista organizza le cose viven ­ti e vegetali in fatti magi ­ci, lavora alla scoperta del noc ­ciolo delle cose, per ritrovarle ed esaltarle… Un momento che tende alla decoltura, alla re ­gressione, al primario e al re ­presso, allo stato prelogico e preiconografico, al comporta ­mento elementare e spontaneo, un tendere agli elementi primi ­geni della natura (terra, mare, neve, minerali, calore, animali) e della vita (corpo, memoria, pensiero) e della politica (nu ­cleo familiare, azione sponta ­nea, lotta di classe, violenza, ambiente) ».

A sua volta, nel saggio intro ­duttivo del catalogo, Renato Barilli osserva che, dopo la sta ­gione informale e quella neo-costruttivista (pop, op, mecart, neorealismo, eccetera…) « ina ­spettatamente, sperata da al ­cuni, temuta da molti, ricom ­pare verso la fine degli anni 60 la spinta forte e perturban ­te dell’informe, attraverso una serie di indirizzi vari nella de ­nominazione ma sostanzial ­mente convergenti come l’arte della terra, o del processo, o del non rigido, o dell’antiforma ». Un ritorno alla natura bruta? Un bagno nel mondo primordiale? Un desiderio di ritrovare se stessi nelle cose umili che ci circondano, sassi, terra, acqua, alberi, uccelli? O un raffinato estremo approdo del decadentismo borghese?

Dal nome si poteva credere che Arte Povera significasse arte fatta con materiali pove ­ri: originariamente era infatti così. Pascali, considerato uno dei maestri, perito tragicamen ­te l’anno scorso, costruiva per esempio, con tela e centine di legno, dei simulacri di dinosau ­ro, di balena, di onde marine, utilizzava anche spazzole, reti, tessuti di plastica, tubi metal ­lici. Ceroli, assente dalla mo ­stra benché invitato, è diven ­tato celebre con le sue sagome di figure umane ritagliate in grezze assi di abete.

Ma poi l’Arte Povera si è sviluppata in forme sempre più sottili, sofisticate e anche cervellotiche. Non si produce più un oggetto, quadro o sta ­tua che sia. L’artista si limita spesso a un « intervento » sul ­l’ambiente naturale, talora sem ­plicemente a progettare questo intervento, descrivendolo a pa ­role. Si tratta ovviamente di opere d’arte praticamente inu ­tilizzabili, invendibili, talora im ­palpabili e invisibili, che ma ­gari durano pochi minuti o po ­chi secondi. Non cose, bensì momenti. Manifestazioni quin ­di adatte ad essere codificate da fotografie o film. Infatti la mostra di Bologna accresce il repertorio dei mezzi già collau ­dati con la registrazione di im ­magini e di azioni su nastro elettromagnetico televisivo, cioè ampex; e questi documentari, della durata complessiva di un’ora e mezzo, sono diffusi in continuazione da televisori si ­stemati in ogni sala.

Ma la cosa migliore è dare qualche esempio.
Appena entrati si nota, se ­gnato sul pavimento, un cer ­chio bianco. Un cartellino av ­verte che è « un cilindro invi ­sibile » di Gino De Dominicis. Il quale, nel catalogo, ci in ­forma: «Forse perché non so ­no mai riuscito a nuotare, ho deciso di imparare a volare. Da tre anni infatti ripeto que ­sto, esercizio tutti i giorni, pro ­babilmente non riuscirò mai a volare ma se farò ripetere que ­sto esercizio anche ai miei fi ­gli e ai figli dei miei figli… ». Sul video lo vediamo infatti agitare come ali le braccia, co ­si come si assiste ai suoi ten ­tativi   di   «far   formare dei quadrati, invece che dei cer ­chi intorno a un sasso che ca ­de nell’acqua ».

Livio Marzot voleva costruire una grande piramide con tas ­selli di tufo per metterci in ci ­ma un parallelepipedo metal ­lico che sembra essere un suo prezioso feticcio. Ma il pavi ­mento del museo non avrebbe tenuto e i tasselli sono rima ­sti ammucchiati in cortile.

Eliseo Mattiacci ha portato una vasca piena di calce viva con dentro un tubo di rete me ­tallica. La calce a poco a poco mangerà il metallo, la rete sprofonderà fino ad annichilir ­si. Egli propone pure una grande foto di superficie mari ­na con attaccato un filo che termina in una cuffia costruita con due conchiglie, per sentire il rumore del mare.

Luciano Fabro ha lasciato in bianco le quattro pagine del catalogo a lui destinate.

Giovanni Anselmo ha appog ­giato una trave nera alla pa ­rete « per una incisione di in ­definite migliaia di anni », in quanto il tempo lentamente consumerà la trave la cui estre ­mità superiore si abbasserà via via lungo il muro, lasciandovi una traccia. Anselmo racconta che « in un pomeriggio di sole per i prati, con una corsa al ­lo spasimo, in direzione del tramonto, ha allungato il gior ­no di un soffio ».

Carlo Bonfà di Verona, come documentano le fotografie, ha messo degli specchi sul prato per far specchiare le stelle di notte. Ha costruito « una stret ­tura rivestita di lana per de ­purare l’acqua dei pesci di un piccolo fosso inquinato ». Ha ricoperto con veli di plastica dei piccoli fiori che avevano freddo. Ha medicato con ben ­de un albero ferito. Giovedì, 4 novembre, ha trovato una pa ­lude; è rimasto con lei fino a sera.

Luca Patella, per mezzo di un suo « obiettivo colloidale organico » ha avvertito qual ­cosa di insolito in un lembo di cielo. Ha potuto accertare che si trattava di marziani in av ­vicinamento. Scesi i quali sul ­la terra, Patella si è messo a cercare le loro minime tracce. Per vederle, ha dovuto ingi ­nocchiarsi. E si è messo a pre ­gare.

Giuseppe Penone, appoggian ­do dei fogli bianchi a un tron ­co d’albero, ci è passato sopra con la matita, segnandone così i rilievi; dopodiché l’insieme dei fogli gli ha permesso di « leggere l’albero ». Ha costrui ­to un cuneo di ferro con incise le lettere dell’alfabeto; confic ­cato questo cuneo in un tronco, la pianta ne assorbirà il mes ­saggio e imparerà quindi a leg ­gere.

Una enumerazione completa sarebbe troppo lunga. Gli arti ­sti sono trenta. Alcuni dei qua ­li, intendiamoci, espongono del ­le sculture vere e proprie come Del Pezzo, Marotta e Nespolo, o addirittura dei quadri come Devalle, Pozzati e Gajani.

In tutto questo mi sembra ci siano varie componenti. La pri ­ma è il gusto del gioco fine a se stesso, gioco materiale e gio ­co mentale (paradosso). La se ­conda è una indubbia carica di fantasia, di poesia e di favola, che si richiama a certi giochi che si facevano da bambini co ­me scavare un fosso, tracciare un sentiero, ammucchiare dei sassi, appendere oggetti ai rami degli alberi (l’aquilone, se non fosse stato ancora inventato, sarebbe appunto un capolavoro d’Arte Povera). Terzo, c’è una componente magica, come se compiendo certe azioni, modifi ­cando certe cose della natura, potessero succedere dei miraco ­li (e forse ne succedono). Quar ­to, nei casi deteriori c’è la sma ­nia di mostrarsi bizzarri e nuo ­vi ad ogni costo. Quinto, nei casi peggiori, c’è della balor ­daggine bella e buona. Insom ­ma non c’è da scandalizzarsi. Con l’Arte Povera si possono fare delle scemenze, si possono fare delle cose intelligenti.

Certo, le facce dei visitatori erano impagabili. Esterrefatti, annichiliti, disorientati come minimo. Nessuno però aveva il coraggio di sbeffeggiare. Si guardavano l’un l’altro interro ­gativamente, sperando di leg ­gere, sull’altrui volto, un con ­senso al no è all’irrisione. Cose di pazzi! E se uno accennava appena appena a un minuscolo sorriso, l’altro rispondeva con un sorrisetto più marcato. Nien ­te di più. Non scuotevano nep ­pure la testa. Chissà come, in ­timiditi.


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