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CINEMA: “Per tutto il tempo che ci resta “ di Vincenzo Terracciano

2 Maggio 2008

di Francesco Improta  

Sono ormai trascorsi   cinque anni e il film “Per tutto il tempo che ci resta” di Vincenzo Terracciano, penalizzato da una pessima distribuzione, continua a rimanere lontano dalle sale cinematografiche nonostante abbia riscosso successo di critica in tutte le nazioni in cui è stato proiettato. Ci sembrava doveroso, quindi, proporlo all’attenzione dei nostri   lettori, anche alla luce della buona accoglienza che presso la critica ha ricevuto il suo secondo film “Ribelli per caso“. Il regista (Vincenzo Terracciano) è un giovane napoletano ma non credo che possa essere confuso con quest’ultima generazione di registi partenopei che hanno fatto della “napoletanità” la loro bandiera e non perché abbia rinnegato la sua città di origine, che ogni napoletano si porta dentro come una malattia che cresce e si acuisce con la lontananza, ma perché si è formato in contesti culturali diversi (Roma, Parigi) e, da vero cinefilo, è cresciuto cinematograficamente con i classici americani degli anni 40 e i “noir” francesi, penso soprattutto a Clouzot e Chabrol. Il film “Per tutto il tempo che ci resta” è un giallo, almeno in apparenza, ambientato nella provincia napoletana, in un immaginario paese della costiera amalfitana che è uno spazio fisico e metafisico nello stesso tempo, un luogo dell’anima e del corpo, ed ha il rigore, il ritmo dei classici. La struttura di genere, però, è solo un pretesto per un’esplorazione dell’anima umana che lascia affiorare debolezze, vizi più o meno reconditi ma anche sentimenti profondi e immarcescibili, alla ricerca di una difficile se non impossibile innocenza, non a caso vengono alla mente scrittori come Bernanos e Dostoievsckij. Ma il film è anche l’amara constatazione dell’insufficienza di una giustizia, costretta continuamente a compromessi e patteggiamenti, e soprattutto un atto di fede nell’amicizia, un sentimento che lega i due protagonisti (Giorgio e Francesco) fin dalla più tenera età e che si è consolidato con il tempo a dispetto della lontananza e dei ruoli diversi da loro ricoperti. Un sentimento che si pone al di sopra e al di là di ogni legge e di ogni costrizione, perché è esso stesso un vincolo indissolubile come risulta dall’abbraccio conclusivo in cui il protagonista Giorgio Nappi, un magistrato sulla soglia della pensione, si fa carico del dolore e delle colpe dell’altro in una comune non rassegnata volontà di espiazione. Giorgio, comunque, deluso dalla giustizia ordinaria e pri ­gioniero della sua stessa etica professionale come risulta, a livello iconico, dalle sbarre reali o metaforiche dietro le quali spesso viene ripreso, con la sua decisione conclusiva si accinge a diventare da prigioniero carceriere e indirettamente a prendersi una rivincita, dimostrando quel coraggio che nell’infanzia e nell’ado ­lescenza – come  si evince dai flash-backs – non aveva mai esibito. Film, quindi, complesso, ambiguo a livello tematico in quanto non solo è portatore di più significati ma si presta anche a molteplici interpretazioni ed è in questa ambiguità di fondo, in questa capacità di seminare dubbi, interrogativi e perplessità il fascino maggiore del film, soprattutto in un periodo in cui il trionfante “buonismo” a Cinema come in Letteratura impedisce di cogliere la contraddittorietà e la complessità del reale.

A livello stilistico il film si snoda in maniera lineare, senza eccessive ellissi, privilegiando le scene nei confronti delle sequenze e gli stessi flash-backs nonché le voci in asincrono finiscono col riordinare più che con lo scomporre la narrazione. Il racconto, quindi, procede fluido, alacre, sostenuto da un ritmo efficace ed incisivo. Ma è nella scelta delle inquadrature, nella figurazione o collocazione degli attori all’interno delle inquadrature e nei movimenti della macchina da presa che la regia di Terracciano si connota e si qualifica; si pensi alle frequenti carrellate, bellissime quelle circolari nei momenti di “spannung”o di massima tensione narrativa e drammatica come durante l’interrogatorio della bambina e il colloquio conclusivo all’interno della chiesa in cui i 2 personaggi si affiancano, si sovrappongono, si nascondono a vicenda fino a fondersi in quell’abbraccio straziante ed in entrambi i casi la musica di Nicola Piovani, proveniente da un carillon rotto, guasto – nel secondo caso sincopato – si amalgama perfettamente. Tra gli stilemi ricorrenti c’è senza dubbio l’acqua nella duplice forma di acqua piovana e acqua marina; l’ele ­mento liquido è decisamente dominante ed inquietante ed esercita un forte potere di attrazione nelle sue molteplici valenze simboliche (origine, vita, nutrimento ed anche distruzione, regressione, sogno, inconscio ed infine purificazione, esorcismo e rinascita) senza contare che il mare per chi è vissuto in una città costiera non tarda a divenire una categoria dello spirito. C’è nel film il desiderio di rifluire al mare, il mare smemorante – di cui ci parlano Montale e Biamonti – dalla nostra racchiusa e perciò drammatica condizione umana e questo si nota fin dalla prima immagine della costiera amalfitana ripresa dall’elicottero e soprattutto nella discesa notturna dei due protagonisti alla spiaggia attraverso un’angusta scalinata, nascosta tra le abitazioni. C’è un’atmosfera di misterioso divenire, di attesa vitale, di disposizione al sacro e la natura solidale sembra restituire i due personaggi ad una sospesa purezza d’infanzia. Quella discesa è veramente un ritorno ad una stagione di innocenza e ad un paesaggio familiare ed amico: i gesti si compongono semplici ed armoniosi, come ubbidendo ad un ritorno prestabilito, si pensi alle pietre che i due protagonisti lasciano scivolare sulla superficie dell’acqua, rinverdendo giochi ed aspettative infantili e rinnovando un patto di solidarietà e di fratellanza. Di grande ricercatezza linguistica (parlo sempre di linguaggio cinematografico) sono alcuni attacchi sul movimento (mi riferisco alla porta chiusa da Cristina cui fa seguito, senza soluzione di continuità, quella aperta da Giorgio) o per analogia (il passaggio dalle fotografie di Cristina, che Giorgio esamina attentamente – evidente la citazione di “Blow- up”- alle diapositive di Galvano).
Un film in conclusione sulla fisicità in cui la macchina da presa scivola sugli oggetti, accarezza i corpi, modella i lineamenti nei primi piani, scolpisce sguardi ed espressioni fino a quel bellissimo corpo a corpo del colloquio conclusivo in cui Giorgio e Francesco su un ring, delimitato dalla macchina da presa che danza a loro intorno con movimenti lenti e sinuosi, sembrano rinnovare i giochi infantili, le rincorse e le zuffe nei prati.
Che un film di questo spessore, interpretato magnificamente da Ennio Fantastichini, Emilio Bonucci ed alcuni tra i maggiori attori napoletani (Mariano Rigillo, Isa Danieli, Imma Piro, ed altri straordinari caratteristi come Antonio Ferrante, Vincenzo Peluso, Giovanni Esposito e la giovanissima Roberta De Simone, vera rivelazione del film) sia stato visto da poche persone (manca persino la versione Homevideo) è a dir poco assurdo; sarebbe opportuno, quindi, che la casa di distribuzione, la Columbia, confortata dai numerosi riconoscimenti che il film ha ottenuto a livello interna ­zionale, lo rimettesse in circolazione.

                                                                                                                                         
Per Tutto Il Tempo Che Ci Resta

Regia
Vincenzo Terracciano

Cast
Ennio Fantastichini, Emilio Bonucci, Isa Danieli, Imma Piro,
Mariano Rigillo, Massimo Andrei, Marco Beretta, Clara Bindi

Sceneggiatura
Laura Sabatino, Vincenzo Terracciano, Luca Vendruscolo

Data di uscita
1998

Genere
Drammatico



Letto 3316 volte.


1 commento

  1. Pingback by Blog Cinema » CINEMA: “Per tutto il tempo che ci resta “ di Vincenzo Terracciano — 2 Maggio 2008 @ 07:14

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