PITTURA: I MAESTRI: Dürer: L’irraggiungibile semplicità della bellezza27 Novembre 2011 di Giorgio Zampa Fu quattro o cinque anni fa: un pomeriggio di primavera, piovoso, a Weimar, nello Schloss, alla fine della visita, in una stanza a pianterreno con le pareti coperte di disegni del Cinquecento tedesco. Incapace di accogliere altre impressioni dopo una giornata fati Âcosa, mi avviavo verso l’uscita, quando in un angolo un’immagine mi colpì, mi arrestai. Un uomo nudo, in piedi, a figura intera: magro, le carni vizze, il petto incavato, senza vergogna né fierezza, un’indagine spie-tata, un giudizio irrevocabile: la decadenza, il vuoto, la fine. Un cartellino lo dava come autoritratto di Dürer, nelle monografie in seguito consultate non l’ho trovato riprodotto. Non so se l’attribuzione fosse fon Âdata: ma l’emozione che la figura mi procurò è an Âcora viva, nella sua qualità sottile è la stessa che ispira l’Autoritratto come Uomo di dolore del 1522, di im Âpostazione più drammatica, sebbene, mi pare, di mi-nor vigore. La melancholia generosissima Düreri, come Me-lantone la chiamava negli ultimi anni, doveva aumen Âtare di giorno in giorno: ” La menzogna è nella nostra intelligenza, l’oscurità è così fermamente radicata nel Âla nostra mente, che anche la nostra affannosa ricerca fallirà ”. È il periodo dei trattati, delle riflessioni sulla Bellezza. Forse è possibile convertire le forme in for Âmule, tradurre il senso di una linea, la qualità di un rapporto in una cifra: “ma cosa sia la Bellezza As Âsoluta, io non lo so. Nessuno lo sa, tranne Dio”. La riga e il compasso per penetrare l’arcano che neppure i viaggi in Italia gli avevano rivelato. Non dipinge quasi più: qualche ritratto inevitabile, il borgomastro, l’avventuroso genero di Pirckheimer, la Madonna del Âla pera. “L’arte ha ragione d’essere, se è indirizzata a onorare il Signore”. Si esprime, a poco più di cin-quant’anni, come un vegliardo: “Quando ero gio Âvane, aspiravo alla novità e alla varietà ; ora, nella vecchiaia, ho cominciato a vedere naturae nativam faciem e sono giunto a comprendere che questa sem Âplicità è il fine ultimo dell’arte”. Le bombe polverizzarono il Dürerhaus, tutto il centro di Norimberga. Visitai la città quando il lavoro di ricostruzione era da poco avviato. La casa era di nuovo in piedi, con la specola costruita da Bernhard Walther, un allievo del Regiomontano. I vetri lesati col piombo, travi, colonne, pannelli, balaustre di ro Âvere, seggiolone a X, tavoli massicci, peltri e rami sul focolare, l’atmosfera macabra e inerte dei mausolei inventati dalle aziende del turismo. Più efficace, sen Âza confronto, una fotografia fatta intorno al 1910. che potrebbe trovarsi in un volume di viaggi di Carlo Placci. Mura altissime con camminamenti coperti, le case di tre piani costruite a ridosso sembrano capan Âne. La magione del pittore quasi barcolla sotto il ca Ârico dell’immensa mansarda: un dosso lastricato a selci sale fino alla garitta dei dazieri, accanto al Tiergärtnertor, a metà discesa una macchina scoperta, di Âciamo una Benz, in primo piano un carro lungo, dalle sponde basse, pieno di ceste, la lavandaia si appresta a una consegna. Il cavallo grande, bianco, immobile tra le stanghe, il collo chino. La designazione della città a luogo di culto del germanesimo, a tempio dell’arte nazional-popolare era lontana, ma non troppo: già erano nati gli uomini che avrebbero redatto le leggi di Norimberga. Quelle pie Âtre, quegli embrici vivevano le loro ultime stagioni incontaminate; l’ombra di Dürer poteva ancora tra Âscorrervi leggera. Il periodo estremo. Era tornato dal viaggio nelle Fiandre segnato: il male si era manifestato in Zelan Âda, quando era andato a vedere la balena arenata. Gli attacchi che lo prostravano, le spese per il medico e le medicine, sappiamo tutto. Se dobbiamo credere all’amico Pirckheimer, l’azione di Agnese, la moglie. perché il marito producesse, guadagnasse denaro in Âvece di trascorrere giornate sui libri, di discutere con letterati o scienziati, condusse il pittore a morte pre Âcoce. Non sarà stato così: ma l’unione senza ami-re, il tempo l’aveva avvelenata. Figli non erano venuti, la donna sempre più estranea alla vera vita del compagno. Gli ultimi inverni, le notti; i contatti sem Âpre più rari con il mondo. “Se Dio mi aiuta a vedere il dottore Martin Lutero”, scrive nel 1520 a Giorgio Spalatino, cappellano e bibliotecario di Federico il Saggio, “eseguirò diligentemente il suo ritratto e lo inciderò come durevole testimonianza del cristiano che mi ha aiutato ad uscire da grandi ansietà ”. In otto anni, non riuscì a vederlo. Visitai per la prima volta la Alte Pinakothek di Monaco quasi ragazzo. La sede era quella, provviso Âria, dell’Haus der Kunst, il fabbricone nazista della Prinzregenten-Strasse. C’era la sala immensa dei Rubens, di una qualità , nell’insieme, che non ho più tro Âvato. Il gruppo dei Rembrandt; i Cranach, Altdorfer. Ma quando uscii, fu come se avessi visto soltanto il Sant’Erasmo e san Maurizio di Grünewald, e i Quat Âtro Apostoli di Dürer. Non sapevo nulla della storia di questi ultimi, non avevo sentito parlare di stile pu Âritano, di messaggio religioso: ignoravo l’importanza della conversione al luteranesimo. Il rosso del manto di Giovanni; il grigio metallico della cappa di Pao Âlo, il suo occhio nella morsa dell’orbita, mobilissimo, specchiante, insondabile, che con il suo fulgore scopre ed accende le iridi del santo: della pittura tedesca ve Âduta fino allora, le quattro figure, e le due di Grünewald, furono quelle che si convertirono in ‘idea’, mi dettero il senso di una direzione. Non so più, infine, come fossi arrivato a compe Ârare, ancora prima, da un libraio fiorentino, l’Adamo ed Eva incisi da Marcantonio. Un esemplare sciupato, ritagliato malamente. Non avevo manie di collezioni Âsta, il soggetto non mi attraeva, conoscevo solo con Âfusamente i rapporti tra Dürer e Raimondi. Feci in Âcorniciare la stampa a Vienna, una bacchetta di le Âgno di pero, per qualche tempo la ebbi sott’occhio ogni momento, alzando il capo dal tavolo: ma non familiarizzai mai. Anche i quadri esposti agli Uffizi mi lasciavano freddo. Né l’Adorazione dei Magi né il Ritratto del padre, né la Vergine col bambino mi avevano procurato emozione particolare. Di immediato, dovuto a contatto diretto, non ri Âcordo altro. Il circuito non funzionò a Vienna, Ma Âdrid, Parigi, Berlino, ovunque mi accadde di incon Âtrare altre opere di Dürer: alle emozioni non si co Âmanda. Il resto, il più, filtrò per via indiretta, inci Âdentalmente, attraverso letture disparate: depositò adagio, stratificò. Un punto di riferimento obbligato, un modulo che non si logora, un concetto tanto facile da richia Âmare quanto refrattario a una definizione: dal calen Âdario artistico che, se non l’Aquilegia o il Mazzetto di viole, offre la Grande zolla, il Granchio, il Leprot Âto, al Doctor Faustus di Thomas Mann, ove i genitori di Adrian Leverkühn sono ricalcati sul ritratto di Melantone e su quello muliebre dal fondo azzurro, ora a Berlino: la presenza di Dürer nella vita della Ger Âmania, si dice, è paragonabile solo a quella di Goethe o di Bach. Quando Wölfflin, nel 1920, registrava un mutamento decisivo, il vantaggio che Grünewald, se Âguito da Altdorfer, dal giovane Cranach, da Baldung Grien, aveva preso sul vecchio, tenace isolato che per tre secoli si era identificato con l’arte teutonica, constatava che nessuno possedeva più di lui carattere popolare. Fu in buona parte suo merito se Norimberga rimase, sino al momento della distruzione durante l’ultima guerra, il simbolo della Germania operosa, attaccata alle tradizioni, municipale e universale. La città dei congegni, dei meccanismi fondati su calcoli, degli apparecchi di precisione. Inventano gli orologi da tasca, chiamati, per un pezzo, in Europa, le “uova di Norimberga”; eseguono armi senza pari per resistenza, leggerezza e vaghezza di ornato; serra Âture, stadere, regoli; lavorano metalli preziosi in con Âcorrenza con le botteghe italiane. Eccellono in stru Âmenti nautici e astrologici; disegnano e stampano carte marine, portolani, vedute di città , mappe. Aper Âti al mondo, curiosi, compiono viaggi che li portano in Lituania e in Portogallo, si imbarcano sui primi vascelli che affrontano l’Atlantico, mandano i giovani ad educarsi nelle città con cui hanno i rapporti più stretti, Venezia, Padova, Anversa, Basilea. Il padre di Albrecht, orafo di professione, arriva a Norimberga nel 1455, dopo un lungo soggiorno nei Paesi Bassi. È un ungherese di origine campagnola, che acquista diritto di cittadinanza dodici anni dopo. L’ambiente, nonostante il matrimonio con una figlio Âla del padrone del suo laboratorio, non dové mai as Âsimilarlo per intero: nella cronaca familiare allude a difficoltà insuperate, ad amarezze che gli resero la vita difficile, sino alla fine avvenuta nell’indigenza o quasi. Forse alcune particolarità del figlio: lo sgo Âmento all’idea di una vecchiaia in povertà , quel suo badare al soldo, ingenuo e non di meno reale, l’acca Ânimento con cui, alla morte di Massimiliano, chiese a Carlo V la conferma di una pensione modesta, sono da ricondurre al senso di precarietà , di insicurezza conosciuto nella casa paterna. Ma, a differenza del padre, Albrecht ebbe un rapporto normale con quella città di Feinmechaniker e di decoratori, di armaioli e di stampatori. L’ambiente poté tanto su di lui, da dare un carattere alla sua vocazione figurativa, con gli esiti che sappiamo per la storia della grafica; pre Âfigurò i suoi viaggi e soggiorni all’estero (in Svizzera, a Venezia, nei Paesi Bassi); stimolò il suo desiderio di decoro, di agiatezza borghese, conferendogli una men Âtalità curiosamente mercantile, facendolo diventare editore di se stesso e inducendolo a spedire la moglie alla fiera di Francoforte, per vendere stampe; lo in Âtrodusse nella cerchia di Massimiliano e di Marghe Ârita, contribuì ad orientare il suo spirito in direzione della Riforma (la città si dichiarò ufficialmente, nel 1525, per Luterò). Venezia e Anversa gli proposero di fermarsi, offrendo altissimi onorari, e lui sempre rifiu Âtò, protestando il suo attaccamento alla città natale. Dürer si sviluppò nella Norimberga del periodo d’oro, e Norimberga crebbe dentro di lui, in lui si raccolse e concentrò, come in uno specchio concavo. Non par Âlo solo degli oggetti sparsi in pitture, incisioni, stam Âpe, che danno tanto da fare ai decifratori di sim Âboli, agli interpreti di allegorie, veri campionari del Âl’utensileria locale; né degli ambienti riprodotti, spe Âcie interni, probabilmente tolti dal vero (Ludwig Tieck, nel Franz Sternbald, romanzo di atmosfera e di idee romantico-düreriane, identifica lo studio di san Girolamo dell’incisione famosa con quello dell’arti Âsta). Lasciamo da parte anche i personaggi rappre Âsentati, buona parte dei quali, e non mi riferisco solo ai ritratti, dovevano appartenere alla cerchia del pit Âtore; e certi toni metallici, accostamenti di colore, come un pezzo si disse, “troppo veri”, da riportare al lungo tirocinio di artigiano, all’esempio del padre orafo. La violenza, non tanto quella espressa dalle arma Âture grevi, macchinose, impossibili dei cavalieri ter Âreni, celesti, infernali, più essenziali, quasi, dei per Âsonaggi calati nel loro interno (mentre il rapporto è rovesciato dagli artisti italiani che trattano lo stesso motivo); quanto quella interiore, demonica, emanata, per esempio, dal Memento mori del 1505, dall’Orfeo battuto a morte dalle donne trace, dai giustizieri apo Âcalittici, dai nudi costruiti con blocchi di muscoli co Âme manichini anatomici, dalla virilità dei personaggi ritratti, sanguigni, massicci, collerici, nei quali il rap Âporto corpo-spirito ripete quello corazza-corpo: orga Ânismi minacciosi, da difesa e da offesa, che attraverso le fessure degli occhi lasciano filtrare sospetto o corruccio. È lo spirito di una comunità consapevole della potenza raggiunta e compressa nell’angustia delle sue mura, satura di spirito realistico e animata da un fer Âvore religioso, da un’intransigenza morale che la apri Ârono subito alla Riforma. Più ancora di Augusta, sorella e rivale, centro di commercianti, che derivava le proprie ricchezze dai traffici con il Sud, da quella banca mondiale che era la casa di Jakob Fugger, Norimberga era una città ‘fisica’, un’unica officina ove contava non solo la qua Âlità , ma anche la quantità del prodotto. L’allievo gio Âvanissimo di Michael Wolgemut, per quanto dotato. avrebbe avuto forse un destino diverso, se non fosse stato legato sino dalla prima infanzia con la persona di maggiore rilievo intellettuale del luogo, Willibald Pirckheimer. David Friedrich Strauss, nella monogra Âfia su Hutten, celebra il patrizio, la cui fama andava oltre i confini del suo Paese. Educato nello studio di Padova, umanista se non tra i più fecondi, certo tra i più apprezzati della Germania di quel tempo, per acutezza, ampiezza di letture, finezza di interprete: diplomatico, uomo di armi e di governo, amministra Âtore di patrimoni considerevoli, stimato da Erasmo e da Luterò, venerato da Hutten, amico di Melantone. Pirckheimer fu l’uomo che ebbe probabilmente mag Âgiore influenza sulla vita di Dürer. Senza di lui il rap Âporto con l’Italia, con quello che l’umanesimo italiano poteva rappresentare allora per un artista tedesco, non avrebbe avuto per il pittore l’importanza che sap Âpiamo o addirittura non si sarebbe posto: per tradi Âzione familiare e regionale, il giovane si sarebbe orien Âtato a Nord. Non fu, forse, una coincidenza se il primo viaggio a Venezia del 1494-95 avvenne durante il soggiorno di Pirckheimer a Padova. Mentre una permanenza anche lunga nella Serenissima era indispensabile a chiunque, nelle città -chiave di là dal Brennero, volesse esercitare la mercatura, sia perché il commercio con l’Oriente si concentrava sulla laguna, sia perché gli italiani erano i soli, in quel tempo, a sapere praticare la contabilità commerciale secondo la tecnica moder Âna: l’esigenza era assai meno avvertita da chi eserci Âtava l’arte. Dovevano trascorrere più di due secoli prima che il viaggio in Italia venisse sentito come essenziale per una educazione completa, decisivo per una formazione estetica. Le discrepanze tra mondo settentrionale e latino erano troppo profonde e nu Âmerose, il divario tra ‘barbarie’ e civiltà avvertito co Âme incolmabile. Non sappiamo quasi nulla sul pri Âmo soggiorno veneziano di Dürer. Ma sul secondo viaggio, durato dal 1505 al 1507, siamo informati in modo quasi prodigioso da un gruppo di lettere indi Ârizzate a Pirckheimer: documenti di importanza e bellezza eccezionali, cui non è facile trovare equiva Âlenti: redatti in una lingua che cercava allora la pro Âpria forma, eppure di un’intensità , di una precisione di segno che invano si cercherebbero in fasi più avanzate. Pirckheimer è il depositario di ogni segreto, l’ami Âco cui è lecito parlare di tutto, superiore per censo e per educazione, eppure sul suo stesso piano. Fu Willibald a introdurre il figlio di un povero artigiano nel Âla dimensione intellettuale, oltre che estetica, del no Âstro Rinascimento. Non sarebbero bastate le due classi di latino nella scuola di San Lorenzo per avviare spe Âculazioni che tengono conto di ardui trattati italiani e francesi, di tesi filosofiche, di classici difficilmente ac Âcessibili, di opere destinate a iniziati, tra la mistica, l’alchimia e le scienze occulte. Solo un intellettuale in Âquieto, sofisticato e spregiudicato come Pirckheimer poteva suggerire al pittore figurazioni ancora oggi non chiarite, filigranate da una cultura rara, da snob; at Âtraverso l’amico letterato dové avvenire la conversione in uno scrittore, in un teorico d’arte, del pittore istin Âtivo, pronto a ‘contraffare’ chiunque sul suo quadernetto, esperto in ogni tecnica: tradotte in latino e nel Âle principali lingue europee, le opere scientifiche di Dürer furono, per un paio di secoli, famose quanto i suoi quadri Anche Pirckheimer era Norimberga, in accezione aristocratica. Una presenza massiccia, eccentrica, in mezzo a un ordine, a un’industriosità da alveare, a una vita legata alle abitudini. Come non considerare emblematico il lascito delle tavole degli Apostoli che il pittore, due anni prima della fine, fece al suo mu Ânicipio. L’espressione più compiuta, austera, vigoro Âsa della sua arte, il suo testamento, non solo per i cartigli che applicò alle basi delle figure, facendovi scrivere passi della luterana “Bibbia di settembre”, doveva restare per sempre alla sua comunità . A di Âstanza di un secolo, Norimberga non possedeva più nessun lavoro del maestro: quale capo della Lega cat Âtolica nella Guerra dei Trent’anni, Massimiliano I di Baviera, collezionista fanatico di Dürer, impose alla città la cessione delle opere desiderate, promettendo di risparmiarle requisizioni, passaggi di truppe, sac Âcheggi. Nella patria che non aveva mai rinnegato, l'”Uomo di dolore” doveva rimanere un’ombra. Letto 4662 volte.  Nessun commentoNo comments yet. RSS feed for comments on this post. Sorry, the comment form is closed at this time. | ![]() | ||||||||||