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LETTERATURA: FAVOLE: “Massaro Verità” di Laura Gonzenbach #2/2

22 Ottobre 2009

di Nino Campagna
[seconda e ultima parte]

[Nino Campagna, presidente dell’Acit di Pescia (Associazione Culturale Italo-Tedesca) (acitpescia@alice.it), che conosco da vari anni, è un infaticabile messaggero della cultura, in particolare di quella tedesca, di cui si può dire sappia tutto. Affascinato da quella letteratura va in giro a parlarne davanti a studenti e professori, incantando tutti con il suo eloquio da oratore tanto preparato quanto appassionato. Non si finirebbe mai di ascoltarlo. Della cultura tedesca conosce non solo la letteratura, ma la musica e in modo tutto speciale – al contrario di quanto accade in Italia – la fiaba, che nella Germania gode di grande considerazione, quasi a livello di vero e proprio culto. Per la sua attività ultra quarantennale è stato insignito della croce al merito culturale concessagli dal Presidente della Repubblica Federale di Germania Horst Köhler. Essendo la sua opera protesa alla diffusione della cultura tedesca, la rivista è lieta della sua collaborazione, che ci farà conoscere molti aspetti interessanti di quella Nazione, e per questo lo ringrazia.]

Parte II

Nella fiaba del Pitrè i ministri invidiosi sono due. Il fatto che “Corna d’oru”, l’animale prediletto del Re, venga da questi affidato “a un omu ch’avia tantu ‘n credito” e al quale aveva affidato il nome di “Zu viritati”, pirchì lu Re nun cci avia pututu mai truvari ‘nta la sò vucca ‘na menzogna”, li turba. La sicurezza del loro Sovrano, che, esaltando la lealtà di “Zu   Viritati”, arriva ad affermare “chi s’avirria fattu livari la testa p’ ‘un diri ‘na farfantaria”, viene considerata quasi un affronto personale, visto che il Re s’è guardato bene dallo scegliere il suo uomo fidato tra i cortigiani. E con il termine “furfanteria” il Re allude chiaramente a un’indole, che porta a ricorrere in modo sistematico e quotidiano all’inganno, tipica di tanti collaboratori di nobile estrazione, che considerano la corte una fucina per le loro trame. Egli, sostenendo che i “suo” Zu Viritati si sarebbe   fatto tagliare la testa per non dire una bugia, esprime al contempo anche un giudizio di merito, ritenuto eccessivo e insopportabile da due suoi “nobili” ministri. Essi quindi, intimamente offesi per non essere destinatari di tanta considerazione e convinti di poter fornire al Re elementi inconfutabili per ricredersi, propongono la scommessa, “ch’ ‘un passa tempu chi chissu chi chiamati Zu Viritati v’havi a vèniri a ‘mpapucchiari ‘na menzogna” (non passa tempo che costui che chiamate Zu Viritati verrà ad improvvisare una menzogna). La formulazione contiene nella sua stringatezza inequivocabili accenti di spocchia nei confronti del prediletto del Re, prima definito “lu vostru omu”, quasi per volerne prendere le distanze, e subito dopo annegato nell’avvilente anonimità di “chissu chi chiamati Zu Viritati”. Sarà compito loro far ricredere il Re e portare presto – estremamente felice l’espressione dialettale “’un scappa tempu”- prove inconfutabili sulla “normalità” di Zu Viritati, anch’egli come quasi tutti i comuni mortali spesso vittima della tentazione di dire bugie. I due ministri costringeranno   in tempi brevissimi quell’uomo, di cui il Re va tanto fiero, a “’mpapucchiari ‘na menzogna”. In proposito non avrebbero potuto trovare espressione più umiliante; nel verbo “’mpapucchiari”, che non trova riscontro nella lingua italiana, c’è la confusione tipica di chi, non trovando argomentazioni serie   credibili, riesce solo a imbastire, quasi farfugliando, una qualsiasi menzogna; .menzogna, si badi bene, che non ha nulla a che fare con la “furfanteria”, ma che è   pur sempre deprecabile e in grado di scalfire l’immagine e soprattutto la fama di Zu Viritati. Il Re accetta la sfida, che in questa fiaba ha una posta più credibile. I Ministri infatti mettono a disposizione “un feu l’unu”, feudi di cui i nobili in quella Sicilia di latifondisti disponevano largamente. Questa scena, resa suggestiva da espressioni gergali particolarmente colorite, è ridotta all’essenziale nella favola del “Massaru Verità” della Gonzenbah, dove l’invidia del Ministro, per non avere accesso al cuore del suo Sovrano, lo porta a proporre la fatidica scommessa, che ha come posta la testa del perdente… Entro sabato quindi, giornata di regola in cui il Massaro veniva a corte per la sua relazione, che si concretizzava nella recita delle sue ormai tradizionali “strofe”, si sarebbe conclusa questa sfida mortale. Comprensibile la preoccupazione del ministro, la cui sicurezza, col passare dei giorni, diventa sempre più labile e precaria. Il legittimo timore insito in ogni scommessa comincia a diventare vera e propria paura. La posta in gioco è altissima e non consente né errori, né esitazioni. Deve escogitare prima possibile un mezzo per costringere alla menzogna il Massaro, ma questo non è né facile, né scontato. L’insicurezza e l’indecisione del ministro si trasformano presto in ansia e quindi in angoscia; massi enormemente pesanti che opprimono il suo cuore. Il tempo trascorre inesorabile e rafforza la sensazione di trovarsi in un vicolo oltremodo pericoloso oltreché cieco. Il nervosismo iniziale cede il posto al panico ed il primo soffrirne è l’aspetto del ministro. Il   suo volto tradisce uno stato d’animo a dir poco tetro, evidenziando una preoccupazione perfettamente leggibile. Ecco a questo punto entrare in scena la moglie, una affettuosa compagna, che, come molte donne del Sud, vive in funzione del marito. La povera donna, che magari col matrimonio ha risolto il suo problema esistenziale, passando però dalla schiavitù del padre a quella del marito, intuisce subito che c’è qualcosa che non va e cerca di scoprirlo. Chiede con ogni possibile precauzione e con la massima sudditanza (al marito si rivolge col “Voi”)  il motivo di quell’innegabile turbamento: “Cosa Vi turba, per essere  di umore così cattivo?” Sa che tra i suoi doveri di moglie c’è anche quello di affrontare le prove più ardue senza chiedere nulla in compenso e   cerca di trovare il modo per un suo discreto, ma decisivo intervento. Non si lascia neppure scoraggiare dal rifiuto altezzoso del marito, che le si rivolge dandole del “tu”, – “Lasciami stare in pace” – un “tu” per nulla confidenziale, e, per l’occasione accompagnato da un tono di stizza,- “devo venirlo a raccontare proprio a te” – che si contrappone come uno schiaffo all’affettuoso, a quel ‘Voi’ con cui ella si era rivolta al marito-padrone. Quella moglie, proprio in questo rifiuto del marito, che nella durezza del tono tradisce forse più disperazione che disprezzo, trova la forza di insistere e, con la perseveranza tipica di chi sa di dover pagare un prezzo anche se non ne conosce l’entità, riesce a carpire la sospirata confessione. Qui entra in azione la moglie-madre, protettiva e rassicurante al contempo. Cerca per prima cosa di minimizzare il motivo di turbamento del suo uomo – “ non si tratta di nient’altro che questo?”- e subito dopo fornisce una impagabile boccata d‘ossigeno all’esterrefatto coniuge, aggiungendo un convinto: “Ci penserò io a sistemare tutto”. Questa scena, in cui proprio la donna sottovalutata e derisa finisce col prendere in mano la situazione non è solo tipicamente siciliana, ma la ritroviamo pari pari anche nell’Italia del nord. Nella già citata fiaba di Travaglino, “Isotta”, la moglie di Lucaferro – dato che qui la “scommessa” avviene tra due fratelli, Emiliano, padrone di Travaglino, e Lucaferro, entrambi eredi di “un uomo ricco e potente, il cui nome era Pieromaria de ‘Albani “ -, assume lo stesso atteggiamento ed è vittima della stessa reazione. La donna “bergamasca” vedendo “il marito sì malinconioso stare e non sapendo la cagione” gliene chiede il motivo. Il rapporto di coppia è identico. Anche qui c’è una chiara sudditanza della moglie, che si rivolge al marito col “Voi” – “ O marito mio, che avete voi, che così mesto e malinconioso vi veggio?”- e viene zittita in malo modo – “Taci per tua fe’, e non mi dar maggior noia di quello che io ho”.
Si può quindi concludere che anche in questi casi, geograficamente così distanti, le due donne, per nulla stimate anzi vilipese dai rispettivi mariti, reagiscono alla stessa maniera. Ambedue convinte dei loro mezzi, sanno di possedere virtù seduttive   cui difficilmente si può resistere e pensano già di dover ricorrere proprio a queste loro innate doti per tirar fuori dai guai i loro compagni. Tuttavia abbiamo di fronte donne completamente diverse. Infatti mentre Isotta, “vestitasi molto lascivamente e licatasi il viso”, va letteralmente a caccia della sua preda, convinta di “costringere” alla bugia Travaglino e di non lasciarsi scappare l’occasione per un incontro piacevole…, la nobildonna siciliana esalta il   suo ruolo di moglie fedele, anche se disposta a tutto. Una nobildonna che, non perseguendo secondi “fini”, non ha bisogno di ricorrere alla “lascivia” di Isotta. Il suo unico obbiettivo è di salvare il marito dall’esito di una scommessa, che potrebbe diventare drammatica e renderla prematuramente vedova. Sicura di poter “convincere” il Massaro a dire una bugia, punta tutto su una femminilità che tuttavia non ha   nulla di peccaminoso. La sua è una forma di seduzione tutta femminile. Ella, non spingendosi oltre all’ammiccamento, rimane fedele alla concezione tipicamente siciliana di “donna-madre-madonna”. Eccola quindi intenta a indossare l‘abito più bello, ad adornarsi con gioielli più preziosi e, quale ultimo tocco, a sistemarsi sulla fronte uno splendente diamante. Così abbigliata, monta in carrozza e si avvia verso la montagna, alla ricerca dell’ignaro Massaro. Non le costa molto tempo trovarlo e individuarlo. Chi si dedica a condurre al pascolo animali è solito fare gli stessi percorsi, su e giù per noti sentieri, che ormai conosce a memoria. Il Massaro conduce una vita solitaria, rari gli incontri e, quando si verificano, si tratta di gente del suo stesso ceto: pastori o contadini.   Adesso il silenzio dell’assolata campagna siciliana è turbato dall’inconfondibile rumore di una carrozza, dalla quale scende una “madonna”, che – guarda caso – cammina proprio verso di lui… Il Massaro resta “pietrificato” a questa vista, che gli sembra una visione. La bellezza della signora lo sconvolge, il diamante che brilla come una stella lo abbaglia. Prima di potersi rendere conto di ciò che accade viene colpito da un ulteriore particolare che lo turba ancora di più. La signora, quella nobildonna, cerca proprio lui, un povero Massaro; a lui si rivolge con un “Caro Massaro”, che sembra preludere ad una voluta cancellazione di ogni differenza di classe. Quella signora è venuta lì a cercarlo, a chiedergli qualcosa, e questa richiesta viene adesso formulata con la massima cortesia. La signora infatti fa seguire il “Caro Massaro” da un “Volete farmi un piacere?”,   una voluta presa   di distanza, che è un implicito riconoscimento della dignità del Massaro uomo. Il Massaro, cui dovevano essere ignoti i sottili piaceri dell’erotismo e, anche se sposato, è forse schiavo di quei rapporti abitudinari e di certo non esaltanti, molto simili a quelli che provocavano regolarmente nella moglie del Gattopardo quelle invocazioni teatralmente “disperate” – “Gesummaria!”, rivolte a qualcuno ce non l’avrebbe potuto né sentire né aiutare, prova di sicuro turbamento; un turbamento mai avvertito prima. Si trova di fronte in carne e ossa una signora bellissima che per di più lo chiama “caro”, gli si rivolge col “Voi” e gli chiede un “piacere”. Il   massaro non può che essere disposto a tutto; una disponibilità resa poi quasi doverosa dalla sottile perfidia della signora che si finge “in stato interessante”. Ma la richiesta è di quelle impossibili. La signora non richiede un bene o una prestazione del massaro, pretende il fegato arrosto del crasto e questo, proprio questo, il massaro non può veramente farlo. Il crasto non è suo, appartiene al re e lui non può disporne. Inutili le insistenze, le preghiere, le implorazioni. A questo punto la signora, e questo ci sembra il massimo della tentazione, oltre a mettere il Massaro davanti ad una grande responsabilità – “allora devo proprio morire, se tu non soddisfi la mia voglia”-, lo lusinga con un inaspettato quanto confidenziale “tu”, che questa volta non può essere confuso con l’usuale gergo tra nobile e plebeo, tra padrona e servo, perché subito dopo viene seguito da un inequivocabile “Caro Massaro, fallo per favore”. Anche a questa ulteriore prova il Massaro resiste. Egli fa finta di non sentire il ricatto, dà l’impressione di trascurare la supplica così allettante e boccia in modo deciso il suggerimento della signora – “Il re non saprà nulla di tutto questo, e tu gli puoi dire che il crasto è precipitato giù dalla montagna”- con un laconico quanto netto: “No, questo non lo posso dire”. Ma se resiste alla seduzione della donna, mortificando l’istinto e dominando la passione, nulla può alla sceneggiata della futura madre che, improvvisando uno svenimento, finge di morire. Davanti alla responsabilità estrema di due vite –  la bella signora e il nascituro – il cuore del Massaro, già messo a dura prova, cede. Il “siciliano” Massaro, avendo già resistito oltre ogni limite, getta quindi la spugna , e si vede costretto a uccidere il crasto, arrostire il fegato e soddisfare così la voglia della signora, che va via grata e felice. Questa scena, dai toni castamente delicati, col Massaro tentato e combattuto dall’istinto e poi vittima della sua innata bontà, è assolutamente assente nella fiaba del Pitrè. Qui, come abbiamo visto, addirittura non c’è traccia di donne, dato che “Zu Viritati” ha a che fare con due ministri vestiti da donna… Il travestimento deve essere stato tuttavia perfetto, dato che Zu Veritati non solo non si accorge di nulla, ma non ha in merito alcun sospetto. Anzi a quella visita inaspettata, resa più ingombrante dalla “billissima carrozza” da cui sono scese le due ospiti, Zu Veritati, definito “mischinu”, un aggettivo che tradisce un’intima partecipazione da parte del narratore per quanto sta per succedere a quel poveretto, diventa senza volerlo preda di una confusione infinita, espressa con una bella metafora: “si misi ‘nta un mari di confusioni”.   Sorpresa e imbarazzo si impadroniscono subito del povero uomo, che non sa come reagire. Cerca di essere più gentile possibile e di rendere la sua povera casa accogliente – intraducibile l’espressione “leva vanchi e metti firrizzi” (letteralmente toglie banchi e mette sgabelli), che, oltre a dare l’esatta fotografia di un’abitazione estremamente povera fornisce una pregnante testimonianza del convulso darsi da fare di chi in qualche modo la vuole rendere più gradevole. Nel frattempo la finta signora col pancione altrettanto finto accetta l’invito ad accomodarsi e, senza profferire parola, corona la sua messa in scena con un finto svenimento. A dare l’immagine è questa volta sufficiente la descrizione di un rumore – “puffuti ‘n terra”-   e una similitudine – “sbattiu comu ‘na tila”-. La situazione, diventata all’improvviso tragica, coinvolge in pieno “Zu Viritati” che non può fare a meno di esclamare: “Signora mia, tuttu chiddu che vuliti, macari la me’ vita”. Questa piena e assoluta disponibilità è la conferma della sua bontà d’animo. Quel povero contadino, allibito di fronte a quella scena, è disposto a qualunque cosa, anche al suo personale sacrificio. E’ facile a questo punto, per l’altra donna, strumentalizzare la situazione. Il ministro travestito da signora, sostenendo di conoscere la causa del suo malore, ne suggerisce il rimedio. Infatti si trattava di “un pititto” – espressione dialettale che è un po’ di più di capriccio, ed esprime voglia e desiderio messi insieme – “di la carni di Corna d’oru”, ed il rimedio a quell’improvviso malore era a portata di mano: bastava “sacrificare” il vitellino così caro al Re. “Lu Zu Viritati” non è tormentato dai dubbi e dai risentimenti con cui aveva dovuto combattere il Massaro della Gonzenbach; egli non ha esitazione e, “senza pinsari cchiù quantu lu Re stimava lu vitidduzzu, a manu a manu lu iju a scannari, e cci cuciu a lu stissu mumentu un pezzu di carni, e addiu Corna di oru!”. Difficile condannare a questo punto il “carnefice” di Corna d’oru. La vista di quella donna stesa a terra come una tela rende la decisione improrogabile e Zu Viritati non solo “scanna” l’animale, ma provvede anche a cuocere un pezzo di carne. La descrizione essenziale, estremamente scarna di quanto avviene fa pensare che si tratti di operazioni istintive e automatiche. Il protagonista della fiaba del Pitrè non ha letteralmente il tempo di pensare, né tantomeno di lasciarsi andare a quella marea di turbamenti, di oscillazioni che avevano contraddistinti la vicenda del Massaro Verità della Gonzenbach. In lui è assolutamente prioritaria la vita di quella signora in stato interessante. Ad essa sacrifica senza pensarci due volte “Corna d’oru” e ne ricava un’intima gioia – “era cuntintuni, ch’avia fattu vèniri la vita a dda povera signora”. Quei sottili elementi di seduzione, presenti nella fiaba della Gonzenbach, che mettono in crisi Massaro Verità, sono completamente assenti nella fiaba del Pitrè. Essi tuttavia erano ben presenti nella fiaba dello Straparola, raccolta e trascritta ben 300 anni prima. Se Travaglino – “uomo veramente fedele e leale”- ha in comune con i due siciliani l’assoluta fedeltà al padrone, e soprattutto la stessa struttura mentale – “né per quanto egli aveva cara la vita sua avrebbe detta una bugia”-, si distacca nettamente da essi per la reazione che ha con la signora. Il Vaccaio bergamasco, giovane e possente, non rimane insensibile al comportamento “lascivo” della signora, i cui approcci, a dire il vero, erano stati fin dall’inizio inequivocabilmente spinti -“alciatesi le maniche fino al cubito, scoperse le bianche, morbide e rotondette braccia che candida neve parevano… e sovente li dimostrava il poco rilevato petto, dove dimoravano due popoline che due pometti   parevano”. La signora lombarda non si limita alla “provocazione” visiva, ma va oltre: “… astutamente tanto approssimava il suo colorito viso a quello di Travaglino, che quasi l’uno con l’altro si toccava”. L’astuta Isotta, oltre a voler spingere il Vaccaro a dire una bugia perseguiva anche altri fini, sfiorando con i suoi metodi seduttivi il limite della sfrontatezza. Nessun paragone con quel sottile gioco di seduzione, casto fondamentalmente, cui aveva dato vita la moglie del Ministro con Massaro Verità. Di conseguenza, mentre il Massaro, vittima della sudditanza psicologica derivante dalla differenza di classe e aiutato anche dall’età… -“il vecchio Massaro”, l’aveva definito il Ministro -, subisce il fascino della meravigliosa creatura e uccide il crasto senza chiedere alcuna contropartita, Travaglino sacrifica sì “il toro dalle corna d’oro”, ma in cambio “vinto dal carnale amore e dalla lusinghe della impudica donna…consumò gli ultimi doni d’amore”. Nonostante quindi le sorprendenti affinità per quanto riguarda il comune turbamento di cui sono vittime i tre “fedeli” servitori, tutti e tre avvinti dalla bellezza della loro interlocutrice e di conseguenza impossibilitati a opporsi ad una richiesta, resa nel caso dei siciliani era  più pressante dalla gravidanza, vera o presunta, Travaglino è l’unico a “consumare”. Il Bergamasco, oltre ad avere dalla sua l’età, può contare sulla disponibilità di una signora impudica, che, “contenta sì per lo desiderio adempito, sì anche per lo piacere ricevuto”, riesce ad acchiappare nella circostanza i classici due piccioni con una fava. Una volta commesso “il reato”, che lasca pesanti rimorsi e provoca uno stato di confusione mentale anche se con l’attenuante della nobile causa, almeno per quanto riguarda i “Siciliani”, i personaggi delle fiabe riflettono su quanto avvenuto e sono tutti e tre assaliti dalla stessa angoscia: come portare la notizia dell’uccisione degli animali, rispettivamente il toro, il vitellino e il crasto, ai loro “padroni” e soprattutto come giustificarsi. Il percorso che li attende presenta caratteristiche comuni. I tre fedeli servitori, sempre più sconvolti man mano che prendono coscienza della gravità del “reato” commesso, non hanno un’idea chiara  su come si dovranno comportare. Individui incapaci di dire bugie e per questo apprezzati e amati   dai loro padroni, sono adesso di fronte all’angoscioso dilemma: venir meno in qualche modo alla loro reputazione, inventando la prima menzogna della loro vita, o esser fedeli a se stessi, affrontando magari il rischio di perdere la stima dei loro signori. Le reazioni a questo punto sono incredibilmente simili. I tre personaggi, tutti intenti a risolvere la questione, prendono via via in esame possibili soluzioni e non si limitano solo agli aspetti “teorici”. Costretti a inventare una motivazione credibile, la provano e riprovano, improvvisando scenografia e recita. Rami di albero, alberi stessi e bastone, diventano così immaginari oggetti di un dialogo, in cui, come in teatro, viene provato il copione, prima di “recitarlo” davanti al pubblico.
La vicenda di “Massaro Verità” segue così un andamento non molto dissimile da quello di “Zu Viritati”, e tutte e due hanno una sorprendente “affinità” con quella di “Travaglino”. Straparola tuttavia, intento a mettere a fuoco il “tormento” del povero vaccaio bergamasco, immagina il momento delle prove nel chiuso di una camera: “Stando adunque il misero Travaglino in sì fatto tormento d’animo, né sapendo che si fare o dire, al fine immaginosi di prendere uno ramo d’albero rimondo, e quello vestire di alcuni suoi poveri panni, e fingere che egli fusse il patrone, ed isperimentare come far dovesse quando sarebbe nel cospetto di Emiliano”. Nelle fiabe siciliane le prove vengono effettuate all’aperto, “in itinere”, e mirabilmente descritte. Sia Zu Viritati sia Massaro Verità, preda dello stesso stato d’animo, danno vita lungo il cammino a vere e   proprie “recite”, talmente espressive da essere facilmente immaginabili…
Per quanto riguarda Zu Viritati acquista un ruolo preminente la parlata popolare, un linguaggio così colorito da diventare un vero godimento per chi ha la “fortuna” di capirlo. La felicità di Zu Viritati, che Pitrè aveva fotografato definendolo “cuntintuni”, era durata solo un attimo. Poi interviene il narratore, cui basta poco, una sola espressione -“Ma ccà veni lu bellu!”-, per cambiare scenario. La svolta che si preannuncia è avvincente. “Zu   Viritati” alla ricerca di un’intuizione che lo aiuti a risolvere il faccia a faccia con il suo Re, consuma il suo dramma personale lungo la strada che lo porta alla reggia. Egli, mentre cammina, pensa a possibili “soluzioni”, attribuendo ad ogni albero che incontra il ruolo di interlocutore -“ ogn’arvulu chi scuntrava fincia ch’era lu Re e cci dicia”-. Diversamente da Travaglino e dal Massaro Verità, egli non ha bisogno di rivestire il suo immaginario interlocutore né di panni, né di mantelli. Ma le potenziali menzogne via via prese in considerazione – “ Lu purtai a pasculari, si sdirrubbau d’un pizzu di montagna, s’ammaccau tutti i cianchi, e muriu… Maistà, a Corna d’oru cci vinni un duluri, e muriu…”- vengono tutte puntualmente bocciate con l’identica motivazione: si trattava di una menzogna -“Mai! dicia ‘nta iddu; chistu nun cci lu dicu a lu Re; chi versu cc’è! Chista è menzogna!”-. Zu Viritati è perfettamente convinto di non poter superare quella barriera invalicabile: egli non sarebbe riuscito mai ad articolare una menzogna. La soluzione quindi viene alla fine ipotizzata, provata, e, purtroppo, anticipata… Ma al contrario di Massaro Verità, il personaggio di Pitrè non è per nulla sicuro della bontà della soluzione ipotizzata. Il suo sfogo, che è poi un modo di dire tipicamente siciliano -“Comu   arrinesci si cunta”- (come va a finire si racconta), tradisce il fatalismo tipico di gente pronta ad accettare qualsiasi evenienza. Zu Viritati è disposto anche al   sacrificio estremo, ma non a derogare alla sua “filosofia” di vita: “Si lu Re mi voli fari jiri a la morti, patroni; ma io cci haju dittu la viritati”.
La versione della Gonzenbach, anche se decisamente meno espressiva, trattandosi di una “traduzione”, merita di essere seguita da vicino perché si sviluppa in un lasso di tempo più ampio, con un’intera notte di mezzo che consente un crescendo di gustose invenzioni narrative. Il nostro “Massaro Verità”, passata la tempesta, ridestatosi da quello che non può che essere stato un sogno allettante e perfido nel contempo, si ritrova disorientato, confuso e – quel che è più grave – irrimediabilmente senza crasto. Non crede ai suoi occhi, ha difficoltà a rendersi conto dell’accaduto e soprattutto avverte un’indicibile pena al cuore. Cosa dirà domani, sabato, al suo Re? Sarà in grado proprio lui, assolutamente incapace di mentire, di seguire i suggerimenti della bellissima signora e di inventare per l’occasione una pietosa bugia, tacendo l’uccisione del crasto e motivandone magari la scomparsa con una disgrazia? Da   qui in poi la vicenda assume un ritmo incalzante. Il Massaro, ripresosi dallo scoramento, ha in mente solo l’incontro con il re e a questo momento finalizza tutti i suoi sforzi. Deve assolutamente trovare una soluzione. La relazione settimanale per il suo “padrone”, da lui sempre recitata a mo’ di filastrocca, deve entro domani subire, proprio nell’ultima parte, un ritocco essenziale. Si tratta di rifare di sana pianta l’ultima strofa, di trovare una risposta all’inevitabile domanda “Comu è lu crastu”, con cui il Re era solito chiudere l’udienza. Sono momenti febbrili. Il Massaro pensa, riflette, elabora e cerca immediatamente di tradurre in azione le varie possibilità. Sente che non è sufficiente l’improvvisazione e vuole che le “prove” si avvicinino quanto più   possibile alla recita dell’indomani. Il Massaro crea così i presupposti della scena di cui dovrà diventare interprete. Pianta in terra il suo bastone, gli mette addosso il suo mantello, indietreggia di alcuni passi, fa il consueto inchino, si toglie la coppola e incomincia a recitare la solita filastrocca, assumendo lui stesso, ora la parte del re, ora quella del massaro. Tutto sembra procedere bene, le domande e le risposte si articolano in modo disinvolto, ma è sull’ultima domanda “comu è lu crastu?”, che egli regolarmente si blocca, non riuscendo a tirar fuori uno straccio di risposta. Cerca di ricorrere ad alcune bugie – “mi è stato rubato”, “ è precipitato dalla montagna” – , aggrappandosi per un momento ai suggerimenti della perfida signora, ma è tutto inutile. Sembra che la risposta a quest’ultima domanda non ne voglia proprio sapere di venir fuori. La lingua rimane incollata al palato e la frase gli rimane in gola, fino quasi a strozzarlo. Prova, riprova, cambia i luoghi dove piantare il bastone, ma il risultato è sempre desolatamente lo stesso. Non trova sbocchi, la situazione è disperata e con questo stato d’animo torna a casa. Per l’intera notte non riesce a chiudere occhio, si gira e rigira nel letto senza un attimo di tregua. Poi all’improvviso, alle prime luci dell’alba, l’intuizione, l’ancora di salvezza. Il Massaro, dopo un’intera notte insonne, intravede finalmente una luce nel buio della sua disperazione. Proprio alle prime luci dell’alba gli balena una risposta possibile, anche se indistinta. Sì, potrebbe essere proprio quella la soluzione, la risposta adeguata al “Comu è lu crastu?”.
Ma, come nei migliori romanzi “gialli”, la soluzione da lui ipotizzata viene tenuta assolutamente segreta. Sente però di aver imboccato la strada giusta, “Così andrà bene” si ripete, e con questa convinzione si mette in cammino verso la reggia. Per strada si ripete continuamente la filastrocca, come sono soliti fare gli scolari attesi da una interrogazione molto temuta, e dà   ancora vita ad altre vere e proprie prove, piene di suggestione teatrale, davanti al solito bastone e al solito mantello. Le prove del colloquio in anteprima col re procedono questa volta spedite, la risposta trovata alla “dolente” domanda sul crasto gli piace sempre di più, ma al contrario di “Zu Viritati”, se la tiene per sé, lasciando tutti, lettori e ascoltatori, col fiato sospeso… Ed eccoci alla reggia, davanti a lui il Re e la corte riunita. Il Massaro non si accorge della particolare solennità del momento, visto che la scommessa che lo riguardava era stata fatta a sua insaputa. Adesso è davanti al suo Re, perfettamente convinto di dover espiare la sua   “colpa” per l’uccisione del crasto, ma altrettanto convinto di non poter dire una bugia. Si toglie come sempre la coppola, si inchina deferente, e comincia la sua relazione. Si tratta dell’ormai nota filastrocca, che fila liscia come sempre. All’attesa domanda “Comu è lu crastu”, il Massaru piglia fiato, cambia inflessione e si accinge a raccontare il fatto imprevisto e imprevedibile: “Riali Maestà! Ju ci dicu la verità”. Il Massaro, con questa premessa, tiene a sottolineare la sua immutata lealtà. Egli non ha mai detto bugie, perché ne è assolutamente incapace e neppure in questo caso lo farà. Quindi è bene che il re sappia, che tutti sappiano, che il Massaro non può che dire la verità. Dopo questa doverosa precisazione, ecco subito l’accenno all’eccezionalità del fatto accaduto, che il Massaro, contravvenendo alla sua proverbiale stringatezza, cerca di illustrare: “vinni na donna d’autu munti, janca e bedda, cu na stidda in frunti”. E’ venuta una signora di alto lignaggio, bianca e bella e per di più con un diamante in fronte, da lui considerato una stella. Una donna dalla bellezza abbagliante, per la quale tuttavia il nostro Massaro non sa trovare di meglio che gli stessi aggettivi usati per le femmine dei suoi animali: bianca e bella, prima bianca e poi bella, il che potrebbe fare supporre che è bella perché è bianca. Peccato a questo punto che la Gonzenbach, precisa e puntuale nel riportare in nota la strofa in dialetto siciliano, l’abbia tradotta nel testo in modo approssimativo, tralasciando soprattutto i due   aggettivi “janca e bedda “, che, a mio avviso, sono fondamentali per una comprensione più completa. Nel dialetto siciliano l’aggettivo bianco ha diversi significati. Come in   ante altre culture bianco è sinonimo di purezza, di innocenza. In Sicilia – e non solo in Sicilia – rimanda anche ad una classe sociale precisa, quella dei nobili e dei signori. Queste erano persone che avevano una carnagione bianchissima, anzi rosata, potendo permettersi il lusso di starsene in un ozio, non sempre quello “creativo” come quello così caro al poeta latino Orazio, magari al riparo di cappelli e cappellini. Ancora al di là da venire la “moda” dell’abbronzatura, questa gente era contraddistinta da un incarnato, che era al contempo il loro biglietto da visita. Il volgo, costituito prevalentemente da contadini e braccianti, costretti a faticare l’intera giornata e spesso sotto gli spietati raggi del sole, era di norma “nero”, colore tra l’altro sinonimo di brutto, sporco e malvagio. In proposito c’è addirittura una leggenda antichissima, cui la Chiesa ufficiale ha dato credito facendo costruire a Tindari, dove esisteva già fin dai tempi dei Romani un teatro che ha come scenario uno tra i più belli panorami di tutta la Sicilia con sullo sfondo perfettamente visibili le isole Eolie, una chiesetta dedicata alla “Madonna nera”. Questa chiesetta è diventata nel frattempo un vero santuario, meta di continui pellegrinaggi. Da questo santuario, salendo nel belvedere che guarda a precipizio sul il mare, si vede un largo arenile, detto mare morto, che racchiude piccoli laghetti d’acqua salsa, che d’inverno non esistono, letteralmente inghiottiti dal mare. Secondo la leggenda citata una donna siciliana dalla carnagione scura, appartenente quindi ad un ceto sociale di certo non privilegiato, venne un giorno al Santuario per rendere omaggio a quella “famosa” madonna e, vedendola da vicino, non poté fare a meno di esclamare la sua cocente delusione, che tradotta in italiano suona all’incirca così: “Sono venuta da una lunga via / per vedere una più nera di mia (di me)”. A quel punto le sparì il bambino che portava in braccio e la madre, sgomenta e disperata, intuisce che possa essere stato proprio la Madonna “nera” a fare precipitare il figlioletto nel prospiciente burrone, per punirla della sua improvvida osservazione. Pentita della frase oltraggiosa che aveva pronunciato, chiede perdono alla vergine e si precipita verso il mare sperando nel miracolo proprio da parte della Madonna oltraggiata, ma pur sempre misericordiosa.  Qui giunta ecco il miracolo: il mare si era ritirato e il bambino nonostante un volo di 200 metri era lì, sano e salvo, a giocar e con la sabbia. Da allora proprio in quella zona il mare restò emerso ed asciutto e viene tutt’ora chiamato “mare morto”.
Tornando quindi al racconto del Massaro Verità, che aveva definito la signora “bianca e bella e con una stella in fronte”, non sorprende il comportamento, che adesso a mente fredda tenta di descrivere. Anche in questo caso il Massaro non ha bisogno di dilungarsi troppo, gli bastano poche parole per esprimere – sempre in versi – il suo stato d’animo e per far capire che in fondo lui, povero Cristo di un Massacro, più che carnefice del crasto è stato vittima della signora, o meglio del turbamento che quella “visione” ha causato: “Tantu di sciamma a lu cori mi misi / Chi pri l’ammuri soi lu crastu uccisi.” (Tanto sconvolgimento nel cuore mi mise / Che per amore suo il crasto uccisi). Dopo tutto il massaro, anche se un po’ avanti con gli anni, almeno a livello di istinto, c’era ancora tutto e ci teneva a farlo sapere… Il nostro “vecchio” Massaro così, senza cercare poco credibili giustificazioni, spiattella davanti a tutti il vero “detonatore” dell’esplosione. Si è trattato di un “raptus” erotico, di uno sconvolgimento del cuore, dal massaro definito “sciamma”. A questo e solo a questo è da addebitare il cedimento di fronte alla signora e di conseguenza l’uccisione del crasto. E il re, che da buon “siciliano” conosceva le debolezze dei suoi sudditi, ha per l’occasione la massima comprensione e lo assolve pienamente. “Massaru Verità”, incapace anche in questa circostanza di dire una bugia, conferma la sua lealtà e viene per questo generosamente ricompensato. Stessa sorte tocca a Zu Viritati, siciliano pure lui, che   “fu cchiù di prima stimatu di lu Re, e di tutti li cavaleri di la Curti”.


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1 commento

  1. Commento by Gian Gabriele Benedetti — 22 Ottobre 2009 @ 17:38

    Ogni favola ha in sé un incantesimo liberatore. Forse nella nostra epoca, esasperatamente tecnologica e distratta, mancano la favole che sanno creare quello stato di magia nei fanciulli.
    Noi adulti non dimentichiamo i momenti felici trascorsi accanto al caminetto, o prima di addormentarci, mentre ci venivano raccontate fiabe. E riviviamo quei momenti, che ci hanno deliziato, fatto fantasticare ed anche crescere. Ora manca addirittura il tempo da dedicare ai più piccoli, per offrire loro quel mondo fantastico, tanto utile per la loro creatività, per l’evolversi più positivo della loro personalità.
    Ben vengano, dunque, favole come queste, così preziose e ben recensite dalla grande sensibilità e dalla notevole capacità di Nino Campagna
    Gian Gabriele Benedetti

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