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LETTERATURA: TEATRO: CINEMA: I MAESTRI: Luchino Visconti: Scoprì l’uso psicologico della luce

10 Maggio 2008

di Elio Pagliarani
[da “Paese Sera”, giovedì 18 marzo 1976]

L’attività teatrale di Vi ­sconti era assai ridotta ormai da pareccchi anni: negli ultimi quindici anni le sue regìe di qualche rilievo  non sono più di tre: l’Arialda di Testori, II giardino dei ciliegi di Cechov e Il ritorno a casa di Pinter, allestito dopo che aveva superato il primo attacco del suo male, e furono piuttosto di ­scusse; ma di ben altro peso e importanza è stata la sua attività negli anni quaranta e cinquanta, quando si affermò immediatamente come re ­gista di primo piano, anzi co ­me l’autentico fondatore e creatore della scuola italiana di regìa.
Visconti cominciò il suo la ­voro di regista teatrale subito dopo la Liberazione, nel ’45, (ma, per la cronaca, vi sono due suoi precedenti allestimen ­ti, nel ’36, di Carità mondana di G. Antona Traversi e de Il  dolce aloe di Mallory, per la compagnia Pagnani-Cimara-Calò, finanziata dal padre di Visconti) con ben sette spet ­tacoli: I parenti terribili di Cocteau, La Quinta Colonna di Hemingway, La macchina da scrivere ancora di Cocteau, Antigone di Anouilh, A porte chiuse di Sartre, Adamo di Achard, La via del tabacco da Caldwell. Si tratta di testi, oggi lo vediamo bene (ma qualcuno se ne accorgeva an ­che allora), di un teatro borghese con alcune punte anche piuttosto spicce, ma allora importava a Visconti fare, da una parte, opera di informa ­zione e divulgazione di quanto una certa cultura europea e occidentale aveva elaborato negli anni in cui eravamo tenuti chiusi nel ghetto dal fascismo; e dall’altra quei te ­sti anche se per lo più mediocri, portavano temi, contenuti allora fortemente provo ­catorii: come il tema del ses ­so la riserva dei piedi neri, (soprattutto quando devia dalla norma: incesto, omoses ­sualità etc) e quello della vio ­lenza, violenza derivata da oppressione politica e, dietro ogni schermo, violenza origi ­nata dall’oppressione sociale: e su questo ultimo punto, anzi, la lucidità di Visconti era perentoria, anche se il suo autentico impegno e in ­teresse per il proletariato e, più, per il sottoproletariato, può essere anche detto «vi ­ziato » di estetismo (come non è inevitabile, e come non è nel Verga, per esempio). Ma già, in ogni caso, con quei sette spettacoli Visconti aveva impostato le basi della sua rivoluzione registica: 40-50 gior ­ni di prove per ogni spetta ­colo (contro i 10-12 della tra ­dizione), il tramonto del sug ­geritore (l’attore deve impa ­dronirsi talmente della parte, e attenervisi strettamente, che non può che impararla perfet ­tamente a memoria e non vi sono più margini per improvvisazioni) la cura dei partico ­lari nel loro insieme e la cura degli effetti teatrali ottenuti con mezzi tecnici (per i quali sarà a Visconti di grande aiu ­to la sua natura e cultura cinematografica), in particolare le luci (è stato giustamente scritto che «ha portato un uso nuovo della luce in teatro, un uso psicologico dell’illuminazione che agisce sui nervi dello spettatore »): si ricordi il significativo cinematografi ­co gioco luci-ombre nella gran ­de scena finale di Uno sguardo dal ponte: un vero capolavoro di regìa teatrale. E resta inoltre fondamentale il lavoro svolto da Visconti sugli atto ­ri, un lavoro che può ben essere paragonato, fatta la proporzione fra i diversi contesti, a quello di Stanislavskij, dal quale del resto deriva.

Di grande importanza nella opera di Visconti è poi l’uso del dialetto (in teatro, nel ci ­tato Uno sguardo dal ponte), un uso piuttosto prezioso e chiuso, (a differenza di quello delle compagnie dialettali tra ­dizionali che, nel pratico in ­tento di farsi capire in diver ­se piazze e luoghi, tendono a mescolare dialetti e koinè na ­zionale) ma che può essere anche oggi suscettibile di svi ­luppi, e con significati tutt’altro che preziosi. E mi par giusto terminare questo trop ­po breve e sommario giudizio con l’accenno di carica di fu ­turo attribuito all’uso del dia ­letto per un’opera struttural ­mente così labile come è la regìa di teatro (di cui appun ­to non può restare che la te ­stimonianza e il significato culturale) e per un regista che ha avuto così fondamentale importanza soprattutto nel no ­stro passato prossimo dell’im ­mediato dopoguerra. Un ulti ­mo cenno di informazione sui suoi spettacoli più importanti come Zoo di vetro (1946) e Un tram che si chiama deside ­rio (1949) di Tennessee Wil ­liams, uno dei suoi autori preferiti, assieme al Miller di Morte di un commesso viag ­giatore (1951), Il crogiuolo (1955) e Uno sguardo dal ponte (1958). Di classici, ricordiamo gli scespiriani Rosalinda o Come vi piace (1948) e Troilo e Cressida (1949); la Locandiera (1952) e L’impresario delle Smirne (1958) di Goldoni; di Cechov, Le tre sorelle (1952), Lo zio Vania (1955) e Il giar ­dino dei ciliegi 1965: la mag ­gior parte dei quali ultimi spettacoli furono rappresenta ­ti dalla «sua » famosa compagnia Morelli-Stoppa, di vol ­ta in volta opportunamente integrata.


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