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La scampanata, il romanzo di Bartolomeo Di Monaco trasformato in testo teatrale, qui per chi volesse rappresentarlo.

LETTERATURA: I MAESTRI: Quando l’arte invecchia

22 Febbraio 2008

 di Alberto Arbasino
[da: “Corriere della Sera”, domenica 21 aprile 1968]

La generazione di Adorno non   prende volentieri in considerazione  un qualsiasi tempo lungo avvenire perché parte costantemente da un presuppo ­sto di « se tanto mi dà tanto ». Cioè, i fenomeni osservati in Germania nel ’30 e riosservati (aggravati) in America nel ’40 sembrano destinati a espan ­dersi, ripetendosi: ingigantiti, ma conservando immutate le proprie caratteristiche.
Attualmente però la situa ­zione appare diversa: e non solo perché il consumo sia più rapido. Certamente il suc ­cesso si decide e si brucia, oggi, molto più brutalmente che ai tempi di Robert Musil o di Edgard Varèse. Si potrebbe ad ­dirittura misurarlo sulla velocità in cui un romanzo viene concepito, prodotto, confezionato, e lanciato, passato fra i paper-backs, eliminato dal catalogo. Basta anche « prendere i tem ­pi » fra una Biennale e un’al ­tra …Ora, però, è vero che Rauschenberg e Stockhausen opera ­no febbrilmente, nella pittura e nella musica, come Godard nel cinema e Servan-Schreiber nel giornalismo… Ma non è ancora tutto: i Marinetti o gli Apollinaire ci sono sempre stati, coi manifesti folgoranti delle loro rivoluzioni « istantanee ». Così come ci sono sempre stati gli al ­legri profeti alla McLuhan, che buttano là uno slogan a prima vista suggestivo, e poi stanno a vedere cosa succede (ma fini ­scono per « durare » pochi anni, anche loro…) Oltre alla rapidi ­tà del consumo, ciò che pare profondamente diverso, rispetto agli anni delle avanguardie « storiche », è il rapporto fra artista e pubblico. E non sem ­pre ogni colpa va attribuita al pubblico. Sovente un artista può rimproverare, soprattutto, se stesso.
Infatti, un romanziere che « lancia » un suo libro cori esa ­gerata invadenza, non può non prevedere che dopo sei mesi di presentazioni e recensioni e di ­battiti pubblicitari, nessuno vor ­rà più sentir parlare di quel li ­bro. Così, uno scultore che si ritenga talmente fotogenico da farsi ritrarre da tutti i rotocal ­chi, in tutte le pose, su tutti gli sfondi – dallo squallore allo splendore – può facilmente im ­maginare che dopo non molte settimane, inevitabilmente, pas ­serà di moda, lui e la sua scul ­tura. Come i dischi di Sanremo.
Una caratteristica decisiva del nostro tempo sembra infatti il rapido invecchiamento. Non solo della musica come voleva Adorno, ma di tutte le arti e spesso per colpa degli stessi ar ­tisti, della loro volubile seriosità. Come altri esempi: la pit ­tura e il teatro. Da qualche an ­no risolvono di tenere due at ­teggiamenti opposti, nei con ­fronti della Realtà. O l’affron ­tano direttamente, per metterla sotto processo: come il buon giornalismo. Oppure le voltano totalmente le spalle, come ha sempre fatto la musica, per de ­dicarsi alla creazione di « for ­me » prive d’ogni rapporto con la vita quotidiana: «valide » (o non valide) solo per le proprie autonome qualità stilistiche. An ­che la narrativa e il cinema si dibattono fra le stesse alterna ­tive: un’arte di contestazione, magari di dissacrazione; oppure un’arte « pura », disimpegnata, volentieri affidata alla Forma, al Gioco, al Caso. E si capisco ­no molte angosce alle radici di questo dilemma: quale tenden ­za, di volta in volta, risulterà più à la page, e quale più « su ­perata »? L’Impegno sistemati ­co, politicheggiante? O l’Hap ­pening più « ludico » e aleatorio?

La situazione, tuttavia, pare ben cambiata dai tempi in cui Marcel Duchamp esponeva un apparecchio idraulico a una mo ­stra d’arte, col preciso intento di provocare il pubblico. Una differenza fra l’arte Dada e l’ar ­te Pop sembra proprio questa: se oggi Warhol o Lichtenstein presentassero il medesimo apparecchio, nessun pubblico si sentirebbe provocato. Ne discu ­terebbe, anzi, con interesse, la purezza di linea, che potrebbe rammentare a taluni la grafica del Trenta, ad altri l’esperienza della Bauhaus o dello « Stijl » olandese.
In compenso, molti artisti, specialmente registi, esercitano un’arte dichiaratamente « di contestazione ». Cioè, con un cri ­terio « provocatorio » esplicito, identico a quello di Duchamp e Tzara. Senza entrare qui nel merito della portata reale di molte « contestazioni » superfi ­ciali o presunte, è curioso nota ­re come generalmente i registi « di contestazione » siano su ­scettibilissimi – non solo alla minima contestazione – ma addirittura alla più lieve critica, nei confronti della loro opera. Questo significa forse che Marinetti o Breton erano più aggres ­sivi o meno vanesi? No davvero! Semmai, sono molto più perma ­losi gli attuali. Ma ogni rappor ­to fra provocazione e pubblico si capovolge radicalmente, quan ­do il pubblico provocato applaude, e l’artista provocatore si offende.
Anche nel caso dell’arte più aperta al Gioco e al Caso ogni intervento giocoso o casuale del pubblico rischia d’attirarsi rea ­zioni assai sconcertanti. Chi ha mai disturbato un happening con buon esito? Chi ha mai provato a « dire la sua » durante la esecuzione di un brano compo ­sto di rumori sovrapposti alter ­nati a zone di silenzio? Si viene molto rimproverati: come chi scartocciava le caramelle alla Società del Quartetto.
Forse, proprio i rapporti fra pubblico e musica hanno attra ­versato le metamorfosi più cospicue. Mezzo secolo fa, Schoenberg veniva ritenuto il primo fra i rivoluzionari; e reagiva da parte sua abbandonando i luo ­ghi canonici dell’esecuzione mu ­sicale. Iniziava così la pratica di eseguire la musica d’avanguar ­dia fuori dalle sale di concerto, e in forme deliberatamente «pri ­vate ». Bastano, però, pochi de ­cenni, perché le composizioni di Schoenberg suonino – alle orecchie più innocenti – tradi ­zionali come Brahms, melodiose come Mahler, art nouveau come Richard Strauss; magari, strug ­genti come Kurt Weill. Boulez e Stockhausen rientrano intanto nelle Accademie e nei Conserva ­tori, alla testa dei loro eserciti, ma quale pubblico vi trovano? Auditori molto mescolati, davvero: critici stizzosi che nega ­no ogni apprezzamento del se ­rialismo tonale a chiunque non abbia studiato per anni la tecnica del contrappunto (per poi ripudiarla). Ma anche miti gio ­vanissimi che si sono formati sui Beatles e non su Webern; sanno appena che la differenza fra suono e rumore è questione soltanto di « percepire una struttura oppure no » … eppure ap ­prezzano Berio o Bussotti so ­prattutto per la loro « orecchiabilità », come se si trattasse di Verdi o Wagner, autori sempre ascoltati senza lo spartito sulle ginocchia.


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Bart