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La scampanata, il romanzo di Bartolomeo Di Monaco trasformato in testo teatrale, qui per chi volesse rappresentarlo.

LEGGENDE: La Pieve di Arliano e l’Agnello

21 Maggio 2010

di Bartolomeo Di Monaco
[Per le altre sue letture scorrere qui. Il suo blog qui.]    

San Frediano era nato in Irlanda, nell’Ulster, figlio di un re pagano. Sceso pellegrino a Roma, come facevano tanti altri irlandesi del suo tempo, sulla strada del ritorno in patria fondò un monastero a Moville. Presto, però, fu preso da una forte nostalgia per l’Italia, e così vi tornò, stabilendosi a Lucca, dove, alla morte del vescovo Geminiano, fu nominato suo successore, cattedra che tenne per vent’otto anni, fino alla morte che avvenne il 18 marzo del 588. Correva il VI secolo, ed i Lucchesi ebbero modo di ammirare le virtù di questo Santo che, tra le molte imprese che gli furono attribuite, annovera quella straordinaria di aver domato il fiume Serchio, il quale, con le sue inondazioni, terrorizzava la campagna lucchese. Frediano, con un rastrello, facendo un semplice segno per terra, ne deviò il corso, arrecando finalmente un po’ di pace ai suoi concittadini. Il miracolo è affrescato nella grande Basilica che porta il suo nome, nella cappella di Sant’Agostino, una delle cappelle centrali poste sulla sinistra di chi entri dalla porta principale. L’opera fu eseguita da Amico Aspertini, pittore bolognese vissuto dal 1475 ca. al 1552, di cui parla anche Giorgio Vasari.

Sempre sullo stesso lato, quasi di fianco all’altare maggiore, si può notare un enorme lastrone di pietra che dalla cava di San Giuliano nessuno riusciva ad asportare per condurlo alla Basilica, che in quegli anni si chiamava ancora chiesa di San Vincenzo. Va sul posto il vescovo Frediano e ordina agli operai di smuovere la pietra, che se ne vien via come fosse di burro. Caricata su di un carro guidato da due giovenche non domate, è trasportata nella chiesa di San Vincenzo, dove Frediano la consacrerà per l’altare maggiore. Più tardi, a seguito di lavori di ristrutturazione e di ampliamento, il grosso monolite verrà collocato dove oggi lo si può ancora ammirare.

A questo prodigioso vescovo è attribuita anche un’attività infaticabile in campo strettamente religioso.
Ventotto pievi gli sono attribuite, tante quanti sono gli anni del suo episcopato, e tra esse quella di Arliano, che si dice fu la prima ad essere restaurata. Gli storici dell’arte, in realtà, sia pure in mezzo a forti dubbi poiché mancano fonti documentarie certe, datano l’attuale struttura tra l’VIII e il IX secolo (si veda: “Rivista di archeologia, storia, costume”, n. 3-4, luglio–dicembre 1991), un po’ più tardi, dunque, ma non troppo da non garantirle il lusinghiero primato di essere la chiesa più antica della diocesi.

E veramente merita uscire dalla città, percorrere la via Sarzanese, e in prossimità di Maggiano, proprio ai piedi del Monte Quiesa, svoltare a sinistra, per essere sorpresi dalla visione di questo antichissimo edificio, che mozza il respiro non soltanto per la sua bellezza, ma anche per i molti secoli trascorsi, i quali, come tanti giganti buoni, vi aleggiano intorno per proteggerla e additarla alla fede e alla ammirazione dei Lucchesi.

Visitare la Pieve, quindi, non è cosa difficile; non so se sia possibile, invece, avere il privilegio di posare i propri occhi su di un singolare documento, che gli arlianesi conservano gelosamente nell’Archivio Arcivescovile di Lucca, Fondo diplomatico, e che si compiacciono di svelare solo nel caso che si riesca a convincerli di amare questa loro e nostra terra intrisa di storia e di leggende.

Si tratta di una pelle di agnello sulla quale un vescovo di nome Gherardo nel IX secolo impresse (ma sapremo meglio fra breve ciò che accadde) la sua sentenza su di una disputa tra la Pieve di Arliano e quella di San Macario in Monte. La storia, la si può leggere sulla Rivista già citata. In sintesi, si trattava di una questione di decime e di offerte che i paesi di Formentale, Viniole (Vignola), e altri, tributavano alla Pieve di Arliano e che la Pieve di San Macario, sorta più tardi, reclamava per sé. In forza delle testimonianze rese di fronte al tribunale ecclesiastico, il vescovo risolse la controversia a favore della più antica Pieve di Arliano. Ma quello che il racconto non riferisce è perché quella sentenza fu scritta su di una pelle di agnello.

Andò così.
Ascoltati gli argomenti a sostegno dell’una e dell’altra tesi, portati dall’arciprete Andrea per la Pieve di Arliano e dal prete Aidiprando per la Pieve di San Macario,   il vescovo Gherardo venne assediato da molti dubbi. Secondo le testimonianze era vero che la Pieve di Arliano riscuoteva da lungo tempo le offerte e le decime di Formentale, Vignola e altri, ma non vi era dubbio che, da quando era sorta la Pieve di San Macario, essi erano più vicini a questa che all’altra, sebbene si trattasse di una differenza non così rilevante. Dunque, si doveva andare contro la tradizione e ordinare un mutamento?

Fu così che una di quelle notti fece un sogno. Un agnello lo invitava a sacrificarlo a Dio, e grazie a questo sacrificio egli avrebbe avuto la risposta che cercava. Il vescovo Gherardo, dopo molte incertezze, capì che non poteva sottrarsi e così di sua mano uccise l’agnello, e subito dopo si inginocchiò invocando il perdono e l’aiuto di Dio. Fu in quell’istante che sul pavimento comparve una scritta che si andava formando col sangue dell’agnello, ed in essa il vescovo poté leggere la sentenza gradita a Dio.

L’indomani, alzandosi di buon’ora, com’era solito fare, uscendo di casa, trovò con sua meraviglia, di fronte alla porta, un agnello in tutto somigliante a quello sognato. La bestiola lo guardava con tanta ostinazione e tenerezza che il vescovo capì che ciò che gli veniva richiesto era di ripetere lo stesso sacrificio del sogno. Non si decideva a compierlo, tuttavia, impietosito dalla dolcezza, dalla mansuetudine e dalla bellezza dell’animale, che continuava a guardarlo, con quegli strani occhi fissi nei suoi. Avvertì, così, che quello sguardo si convertiva in parole e che Dio stesso gli imponeva di immolarlo allo stesso modo che già aveva fatto nel sogno.

La leggenda racconta che una volta ucciso l’agnello, sulla sua pelle comparve di nuovo la scritta con la quale il vescovo Gherardo decideva la disputa in favore dell’arciprete Andrea.


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6 Comments

  1. Commento by Carlo Capone — 21 Maggio 2010 @ 14:09

    Una leggenda affascinante, Bart.  Trovo poi dei punti di contatto tra il sacrificio di Isacco, arrestato  da Dio che pure l’aveva imposto ad Abramo  a sigillo  di obbedienza e fedeltà,   e il sacrificio dell’agnello di  Gherardo.

     

    Già domandai a Moneta, che non mi fornì risposta, che lingua volgare si parlasse in Lucchesia nei secoli intorno al IX. Egli citava le lettere al Sultano  della figlia di Lotario, figlio di Carlo e con i due fratelli, Carlo e Carlomanno, erede di Carlo Magno.   Ritenevo perciò che la donna  parlasse e scrivesse in un proto germanico.

    In questa  storia della Pieve di Arliano le date pressapoco coincidono e allora non tanto mi interesserò alla parlata dei Lucchesi  (ma i nomi Aidiprando e Gherardo si commentano da soli)  quanto allo stile architettonico della Pieve di Arliano che tu citi nel racconto.

    Se è sorta nell’ottavo secolo dovremmo trovarci in epoca longobarda, e perciò mi chiedo quale ne sia lo stile.  Manufatti di quell’epoca non ce ne sono molti, al massimo ce n’è qualcuno a Brescia, Varese e  Benevento, tra l’altro di chiara influenza bizantina.  Posso chiederti allora a quale corrente architettonica essa vada ascritta?

     

    Saluti

  2. Commento by Bartolomeo Di Monaco — 21 Maggio 2010 @ 21:04

    Ti ho scannerizzato la prima pagina del libro “Arliano: undici passi tra i secoli” scritto da Mons. Mansueto Bianchi che fu pievano di quella chiesa, ed oggi è vescovo di Pistoia. Ci dovresti trovare qualche risposta. All’epoca c’erano i Longobardi.

    Qui puoi vedere un’immagine della Pieve.

    ___________

    INTERVENTI MURARI NELLA PIEVE

    Che la pieve di Arliano sia l’edificio sacro più antico della diocesi di Lucca non è solo una scoperta dei moderni storici dell’arte, ma una convin ­zione radicata negli abitanti del luogo fin dall’antichità. Questa convinzione popolare la troviamo documentata per la prima volta alla fine del secolo XVII per mano del pievano Antonio Bernardini il quale afferma che fra le ventotto pievi edificate dal vescovo Frediano, “la prima fu la pieve di S. Giovanni Battista di Arliano”.1 La stessa notizia viene riferita anche nelle ri ­sposte alle Visite Pastorali, da molti pievani del sec. XVIII.2

    L’attribuzione dell’attuale struttura muraria ai tempi di S. Frediano (sec. VI) sembra eccessiva. Il giudizio quasi unanime degli storici dell’arte della prima metà del nostro secolo (Venturi, Toesca, Salmi ecc.) è che essa risalga al regno di Liutprando, cioè alla prima metà del secolo VIII.3 Oggi si è più propensi a ritardarne la datazione al secolo IX-X4 se non addirittura al secolo XI.5 Secondo il nostro modesto parere ci sembra di dover escludere il secolo XI, e assegnarla ai secoli VIII-IX.

    Uno studio accurato del monumento, corredato di fotografie e grafici, fu compiuto da Eugenio Luporini nel 1953 che ne assegna la costruzione ai primi decenni del secolo X. L’attenzione dello studioso si appunta particolar ­mente sugli elementi decorativi della facciata affermando che “ci troviamo di fronte ad uno dei più rari ed elaborati modelli protoromanici di prospetti chiesastici'” di importanza tale che “gran parte delle fronti romaniche [delle chiese] della Toscana del nord (di Lucca, Pisa, Pistoia e Firenze e dei loro territori) si possono ricondurre a questo antico modello”.6 Nella seconda parte del citato studio, l’autore passa ad esaminare gli interventi particolari sulle strutture murarie esterne con uno studio minuzioso e puntuale sulle cui conclusioni non ci trova pienamente consenzienti.

    1 Archivio Parrocchiale di Arliano (d’ora in poi A.P.A.), “1670. Martilogio della Pieve di Arliano e sua opera” quart’ultimo foglio.

    2 Archivio Arcivescovile di Lucca (d’ora in poi A.A.L.), Visite pastorali, voi. 59, f. 540v.; voi. 195, f. 97…

    3 A. Venturi, Storia dell’Arte Italiana, Milano, 1902, Voi. II, pp. 164-165; P. Toesca, Storia dell’Arte Italiana, Milano, 1927, pp. 130, 132; M. Salmi, L’architettura romanica in Toscana, Milano-Roma, s.d., p. 6 e p. 32 n. 8.

    4 R. Luporini, Nuovi studi sull’architettura medievale lucchese: la pieve di Arliano, Firenze, 1953.

    5 F. Redi, Edilizia medievale in Toscana, Firenze, 1989, pp. 41-42.

    6 E. Luporini, cit. pp. 18-19.

    â— 5

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    Per quanto riguarda il dialetto, nello stesso libro si parla di una specie di volgare derivato dal latino. In latino sono scritti i documenti notarili e di archivio.

    Sull’importanza di Lucca nel periodo Longobardo, puoi vedere qui.

  3. Commento by Carlo Capone — 22 Maggio 2010 @ 01:14

    Grazie Bart! ho colmato in parte una delle mie tante lacune in proposito.

    Dunque la cttà è capitale di un Ducato longobardo, cosa che traspariva dai saggi di Moneta. In effetti i Franchi andarono a sovrapporsi ai costumi, forse alla lingua ma soprattutto agli  insediamenti dei  predecessori  longobardi.  Ho sempre cercato di capire se vi fossero differenze sia tra le loro culture che gli idiomi e oggi credo di ritenere  che non differissero  poi  tanto. Quanto all’influenza sul parlato indigeno mi dai conferma che fu limitata, in effetti dominanti e autoctoni non si mischiarono per niente. O meglio ci fu un lento processo di osmosi dagli  usi e le parlate dei secondi in direzione degli invasori. Una scissione in principio causata   dal ruolo nel sociale assolto dai due ceppi: di taglio alto e guerresco, improntato ai dettami cavallereschi in auge nell’alto medioevo, riguardante l’elemento franco longobardo; volto ai lavori   umili ma essenziali,  di prevalente matrice artigiana, alla cura dei testi latini,  al basso e medio clericato, al disbrigo di   pratiche borghesi agli albori, quello   indigeno. In un clima sociale e civile di sostanziale separatezza trovo comprensibile e aderente alla realtà storica che i lucchesi parlassero un volgare derivato dal latino. Senza   dimenticare che di   contaminatio  linguistiche di provenienza  germanica dovettero essercene parecchie.

     

    Quanto al modello architettonico della  Pieve di Arliano,  leggendo le conclusioni di Luporini e guardando le foto,  emergono    aspetti di rilievo: intanto la volumetria compatta e massiccia, per niente affine ai pochi reperti chiesastici di epoca carolingia, che offrono strutture esili,   a unica navata,  con muri esterni privi di elementi decorativi. In seconda battuta,   e con riferimento alle conclusioni di Luporini,  balza subito all’ occhio un po’ attento lo stile  proto romanico della facciata, che nel corso dei due secoli a venire conoscerà  piena consacrazione con le elaborate strutture facciali delle  Basiliche toscane più famose ( a me vengono in mente quelle di Pisa e di Lucca), anch’esse distinte da una grande navata centrale e più alta delle due laterali, di  slancio  minore.  Quanto alle decorazioni la  Pieve di Arliano mostra, se  distinguo bene, un gioco di archetti in basso rilievo sulla mattonata di uno dei fianchi,   un deciso abbozzo di quei decori che troverà compimento  nei fregi in alto rilievo  delle grandi Basiliche  dell’XI e XII secolo.

    Insomma si ha idea che chi la concepì aveva chiaro in mente il ruolo di supremazia che quella Pieve avrebbe svolto. L’arte  eretta a emblema  di un potere culturale e  spirituale

     

    Saluti e ancora grazie

     

    Carlo

  4. Commento by Bartolomeo Di Monaco — 22 Maggio 2010 @ 08:56

    Mostri di avere, Carlo, una sapienza invidiabile. Complimenti.

  5. Commento by Carlo Capone — 22 Maggio 2010 @ 12:48

    Grazie a te, Bart.

    L’arte, come la filologia e lo studio dei cambiamenti linguistici, in effetti è una delle mie diverse  ossessioni.   Un po’ mi ha aiutato un gruppo di amici borgomaneresi, quando fui invitato a fondare il locale  Gruppo storico artistico e archeologico. Con essi ho trascorso anni memorabili, perlustrando le campagne di Borgo, Briga, Gozzano, Cressa e così via. Spuntava di tutto: coccetti di epoca   romana, tegole di ogni tempo, fibbie, assi di  rozze barelle da  trasporto dei morti di peste in fossa comune, chiodi ritorti, a volte vasi biconici di epoca etrusco- celtica.

    Poi c’è il capitolo chiese, anzi chiesette. Qui l’impronta  carolingia è  più visibile che da voi,  ne ho incontrate  almeno un paio.  Sono   manufatti di piccole dimensioni, a navata unica,  con i muri in ciottolo di fiume,  tenuti su con costole di mattoni, e dagli interni  aventi come unica   apertura un finestrino sull’abside dietro l’altare (quasi sempre di epoca successiva, da queste parti  ho idea che nel IX secolo la mensa sacra fosse fatta di assi e mattoni grezzi  ).

    A Cressa ho scavato per un pozzo medievale davanti a un complesso dell’XI secolo,  comprendente la pieve, di stile  fra il carolingio  e il  proto romanico , il  campanile e l’ ‘ospitale’   (tutti ahimè in evidente rovina. Alle spalle del complesso c’è una fattoria nel cui ampio cortile  un assolato pomeriggio di giugno mi azzardai a entrare per chiedere dell’acqua e fui accolto da un paio di cani ostili. Fortuna che comparve il padrone se no io, che soffro di cinofobia, avrei urlato).

    La presenza dell’ospitale si spiega con il vicino e presunto tracciato della  via francisca, che voi in Toscana conoscete bene. In pratica i pellegrini o i viandanti  valicavano il Sempione proseguendo  lungo il Ticino e poi per la strada che portava, presumo, a Novara.  Ai piedi dei valichi alpini  ecco dunque l’ospitale, retto da chierici  forse  legati all’Ordine dei  Templari, detti  appunto    Ospitalieri. L’ostello fungeva da stazione per il cambio cavalli e soprattutto  da rifugio notturno e di cura.  Da qui   l’origine dell’etimo ospitale in seguito mutato in ‘ospedale’.

  6. Commento by Bartolomeo Di Monaco — 22 Maggio 2010 @ 13:33

    Esperienza  suggestiva, Carlo. Te la invidio.

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