LETTERATURA: Alcune riflessioni su “Di viole e di liquirizia” di Nico Orengo (2005)17 Settembre 2008 di Francesco Improta Libro originale e affascinante e per la sapiente costruzione narrativa e per la ricercatezza della scrittura. Non mancano echi e reminiscenze di Fenoglio e di Pavese, ma le Langhe di cui parla Oren go sono completamente diverse, così come diver so è questo romanzo rispetto alla sua precedente pro duzione. Si rilevano infatti un’attenzione ai par ticolari e alle sfumature, una ricchezza cromatica, una stra ordinaria leggerezza e soprattutto una capacità di visualizzare odori e sapori che ne fanno un’opera unica, godibilissima e im perdibile. Sembra che Orengo abbia trasformato, con un procedimento simile e opposto al tempo stesso a quello dei registi della Nouvelle Vague, la penna in macchina da presa e si sia avvicinato ai racconti morali di E. Rohmer, penso in particolare a Racconto d’autunno. Romanzo, co munque, che deve riposare (nel senso che deve essere riletto a di stanza di qualche giorno dalla prima lettura), come un buon vino d’annata, per poter sprigionare tutto il suo bouquet e il suo sapore. Un sommelier francese, Daniel, per lavoro, soggiorna per alcuni giorni ad Alba e tra una lezione e l’altra del suo corso di degustazione sui grandi vini di Francia, presso una locale enoteca, visita luoghi, attraversa paesaggi, ma soprattutto incontra uomini e donne, che illustrano pienamente quella grande terra che è la Langa, “il cuore vinoso del Piemonte” – come dice giustamente Mario Soldati – mettendo a nudo quel carattere scontroso, introverso ma schietto, della gente di questa terra, che tanta influenza avrà sulla vita del protagonista. Premesso che “Di viole e di liquirizia ” ha la brillantezza e la leggerezza di una perla rara, vorrei fare due osservazioni. La prima riguarda il tono di fondo che, a mio avviso, è prevalentemente malinconico, nostalgico. Nico infatti descrive un mondo che si dilegua o che è già scom parso: le Langhe di Fenoglio, Pavese e Arpino, le Langhe della malora, dei falò, della guerra partigiana. La storia è ambientata ai giorni nostri, parla, quindi, del presente ma lo sguardo di Nico è rivolto costan temente al passato. E questo tono diventa addirittura crepuscolare quando Eta Beta, nel viaggio in auto mobile da Alba a Nizza, racconta di un suo amore, un amore di memoria gozzaniana, l’amore non per ciò che è stato ma per ciò che avrebbe potuto essere. L’amore, potremmo dire, delle rose non colte. La seconda osservazione è più tecnica e riguarda il modo di scrivere di Nico, decisamente cinema tografico, sembra che egli abbia usato la penna come una macchina da presa. Penso al modo in cui Amalia entra in scena, con un movimento a scoprire della macchina da presa, dal particolare al totale; non a caso Nico descrive prima le mani che depongono sul tavolo, dove è seduto Daniel, un bicchiere e poi l’inquadratura si allarga e Amalia appare in tutto il suo fascino e la sua avvenenza. Anche durante il ritorno da Nizza ad Alba Nico, soffermandosi esclusivamente sulla seconda macchina, in cui hanno trovato posto Eta Beta, Maria e il fratello di Amalia, descrive non ciò che realmente di cono o fanno Daniel e la figlia, che viaggiano su un’al tra vettura, ma ciò che appare agli occhi di chi li segue. Senza dimenticare, a testi monianza dell’interesse e dell’amore di Nico per il cinema, il riferimento al logo della Para mount che viene spontaneo a Maria quando vede la cima del Monviso o il paragone a cui ricorre l’autore per dire che gli era saltato l’olfatto: “… e nelle narici gli piombò uno strappo nero, come quando sullo schermo del cinema si sfilaccia la pellicola“. Quest’ultima cita zione conferma quanto affermato precedentemente sul tono di fondo del romanzo che risulta in preva lenza nostalgico e crepuscolare; Nico guarda con affetto struggente e un pizzico di rimpianto al mondo della sua adolescenza, quello delle scoperte e delle avventure, quando andare a cinema era ancora un viaggio avven turoso, quando, appunto, le pellicole spesso saltavano o bruciavano. Altrettanto datate sono le canzoni di Dean Martin e le giostre di paese. Un’ultima osservazione: Daniel, il protagonista del libro, raccoglie e tiene con sé un piccolo cane bianco e nero, che chiamerà Flop, abbandonato dal suo pa drone probabil mente perché non si era rivelato molto abile nel trovare i tartufi. C’è tra Daniel e Flop molto più di un feeling a prima vista se è vero che lo stesso Daniel entra in scena a quattro zampe: “Camminava carponi, guardando in terra, come avesse perso qualcosa… l’uomo aveva spalle forti e la testa grossa e rossiccia, le mani larghe e un naso pronunciato.” Ed è quest’ultimo elemento che accentua ancora di più l’intesa tra Daniel e Flop, per entrambi, infatti, il naso è lo strumento di lavoro, il mezzo con cui entrambi si guadagnano da vivere anche se, come abbiamo detto, nel caso di Flop i risultati sono stati alquanto delu denti, tanto è vero che è stato abbandonato.
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