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LETTERATURA: Angelo Cannavacciuolo: “Il soffio delle fate”, 2001

10 Giugno 2008

di Francesco Improta

Prima di parlare del romanzo  “Il soffio delle fate“, edito da Baldini&Castoldi, mi sembra doveroso accennare sia pure brevemente ai trascorsi dell’autore. Angelo Cannavacciuolo dopo aver vissuto le angosce e i problemi metropolitani, attraverso lo sguardo attento e penetrante di Salvatore Piscicelli, che con lui ha girato “Le occasioni di Rosa” e “Blues Metropolitano“, dopo aver prestato la sua   faccia di bravo ragazzo alle commedie balneari dei fratelli Vanzina e dopo aver   battuto, egli stesso, la strada della regia cinematografica e televisiva, alla fine degli anni novanta Angelo Cannavacciuolo è approdato alla narrativa con un romanzo di grande  fascino e di notevole spessore “I guardiani delle nuvole” che Luciano Odorisio  ha portato sul grande schermo. Si tratta di una storia epica ed intimista al tempo stesso che alterna, in maniera assai suggestiva, scene corali  en plein air e sofferti ripiegamenti interiori, che ha l’afflato, il respiro della saga familiare e lo slancio dei sogni più teneri e arditi. Con “Il soffio delle fate“, invece, suo secondo romanzo, l’autore si sposta dall’entroterra napoletano dell’immediato dopoguerra alla Bosnia dei primi anni Novanta, dove, dopo anni di pacifica anche se difficile convivenza tra etnie e religioni diverse, si combatte una guerra atroce ed assurda. “Il soffio delle fate” ha un incipit di grande impatto e suggestione: in uno scenario  desolato, fra macerie materiali e morali, dove “chi è sfuggito alla morte succhia la vita con la cannuccia per assaporarla lentamente” –   come si legge testualmente nel romanzo – il comandante Jovan racconta al suo luogotenente un sogno, apparentemente enigmatico ma carico di presagi e di significati. Il sogno, in cui mi è sembrato di scorgere qualche reminiscenza cinematografica (penso alla produzione filmica di E. Kusturika ed in particolare a “Gatto nero e gatto bianco“), ritornerà alla fine del libro (evidente, quindi, la struttura circolare del romanzo) e sarà decisivo, una volta compreso in tutte le sue valenze e sfumature, a sciogliere non solo il plot narrativo ma anche e soprattutto l’intricato viluppo di sentimenti che unisce e divide al contempo i tre fratelli, protagonisti del romanzo.
Il soffio delle fate“, infatti, pur avendo come sfondo la guerra in Bosnia e pur essendo un atto di denuncia, d’accusa contro la guerra tout-court (“…non esistono i crimini di guerra, il crimine è la guerra“) è soprattutto un libro sui rapporti familiari, sui legami indissolubili che uniscono i componenti di una stessa famiglia e, nel caso specifico,  tre fratelli (Becir, Jovan e Tom), il cui senso di appartenenza e le cui scelte di campo, motivate da ragioni diverse ma tutte ugualmente importanti (rifiuto da parte del padre, attaccamento morboso alla madre, senso di colpa, rivalità e gelosia), portano a schierarsi l’uno contro l’altro, fino a quando non   si farà sentire, in tutta la sua forza terribile e dirompente, il richiamo del sangue, che per  loro, come per molti meridionali, è superiore a qualsiasi logica e a qualunque passione.
La nebbia, cui rimanda il titolo particolarmente evocativo, ha una duplice funzione e se da un lato avvolge e protegge la città martoriata, consentendo ai suoi abitanti di tirare il fiato e di spostarsi   con una certa tranquillità, senza essere colpiti dai cecchini appostati sulle alture circostanti, dall’altro apre scenari fantastici, facendo breccia nella memoria e rievocando un’infanzia serena e spensierata, quella infanzia ormai violata o negata, come ci viene confermato dalla  bambina che gioca nel cortile, la cui mano, tesa a salutare, viene troncata di netto da una granata o da Magda, un’altra ragazzina, che appena undicenne è costretta a prostituirsi.   In questo scenario di violenza, di distruzione e di morte, tra Becir e Minja,  entrambi componenti della Filarmonica di Serajevo, nasce una storia d’amore delicata e disperata al contempo. È un amore senza domani, di quelli che nascono in situazioni particolarmente drammatiche o di assoluta emergenza, forse per esorcizzare le paure e che finiscono col ribadire la coesistenza di Eros e Tanatos, un amore, comunque, che vive, si nutre e si macera esclusivamente dell’appagante desiderio di appartenersi, senza null’altro chiedere o sperare. Bellissimo e struggente anche il pellegrinaggio di Tom, il più giovane dei fratelli, che allontanatosi con la madre dalla Bosnia in tenera età e tornatovi come giornalista per un reportage, scopre il suo passato attraverso un percorso, battuto dal sangue, dalle lacrime e dalla sofferenza, dove i ricordi sono brandelli o addirittura schegge lancinanti.
In questo mondo, attraversato dalla rabbia e dalla follia, dilaniato dalle granate e dai colpi di mortaio, si organizzano su commissione e dietro compenso in danaro, massacri di civili inermi ed innocenti, ad uso e consumo di quelle televisioni che fanno della violenza e della “spettacolarizzazione” del dolore la loro precipua attività. A livello strutturale ogni capitolo, in cui è suddivisa la narrazione, ha un suo titolo ed ogni titolo  rimanda ad un personaggio, una riflessione, un ricordo o una drammatica necessità. La scrittura, pre ­valentemente espressionistica, a seconda delle situazioni e delle circostanze, o si snoda in ampie volute o si distende con rigore e precisione, o si raggomitola su se stessa, ma sempre in maniera efficace, giocando   non solo con i colori   ma anche e soprattutto con i suoni. Del resto c’è in Cannavacciuolo una particolare sensibilità ed inclinazione per la musica, da lui definita “cibo e nutrimento dell’anima“, e dei quattordici titoli dei capitoli, infatti, tre rimandano direttamente o indirettamente alla musica: dalla canzone di Armstrong “Wonderful World” che apre la narrazione e che suona come un tragico ossimoro alla luce del massacro perpetrato nel cimitero, al concerto posto al centro del romanzo, quasi a volerne sottolineare l’importanza e la centralità. La musica, nella sua accezione più ampia e comprensiva, in tutte le sue forme e i suoi generi, ci sono, infatti, riferimenti non solo alla musica classica Wagner, Verdi, Saint Saens ma anche alla musica  gitana, sincopata e tambureggiante, di Goran Bregovic, è, per esplicita ammis ­sione di Cannavacciuolo, che così la ha definita in un’intervista, una sorta di passaporto per l’ineffabile, per non pagare dazio alla frontiera del non dicibile. Non meraviglia, quindi, che nel romanzo l’autore esalti la vicenda della Filarmonica di Sarajevo che, nonostante sia depauperata di molti orchestrali, caduti sotto il tiro dei cecchini, non diversamente dall’orchestrina del Titanic, ma in un contesto decisamente più drammatico, continua a suonare e a dare concerti mentre il mondo sprofonda sempre più.  Manca, per un eccesso di scrittura, di passione civile e di indignazione morale, quella essenzialità ver ­ghiana e addirittura omerica che contrassegnava l’avvincente epopea dei caprai di Acerra in “I guardiani delle nuvole“, si rilevano, però, un dolore più profondo e partecipato, una pietà   contenuta ma efficace che scende come un balsamo sulle ferite causate dall’imbecillità e dalla follia degli uomini ed una lingua certamente più sofferta e risentita. Libro da leggere assolutamente perché cattura, commuove e risveglia sentimenti e valori sopiti o   dimenticati.

 

 


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1 commento

  1. Pingback by Fontan Blog » LETTERATURA: Angelo Cannavacciuolo: “Il soffio delle fate”, 2001 - Il blog degli studenti. — 11 Giugno 2008 @ 02:31

    […] maryrose: […]

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Bart