LETTERATURA: Federico Platania: “Il primo sangue”, Fernandel, 2008
18 Novembre 2008
di Bartolomeo Di Monaco
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L’autore ha già al suo attivo, sempre con Fernandel, “Buon lavoro. Dodici storie a tempo indeterminato”, uscito nel 2006.
A distanza di 2 anni esce il suo primo romanzo, una prova, dunque, più impegnativa.
In realtà , il romanzo è intrinsecamente strutturato in quadri, in cui sono narrate varie storie che accadono ad Andrea, uno dei componenti di un gruppo di lavoratori occupati per pochi soldi in una mensa aziendale. Anch’essi, come tanti altri, non se la passano bene e vivono, alcuni di illusioni, come Fabio, che si è comprato una casa, un “buco”, e deve sudare le sette camicie per pagare la rata del mutuo, altri di delusione e di impotente rabbia, come Andrea. Andrea è un punto di congiunzione, l’osservatore che mostrando ciò che vede, mostra in realtà se stesso. La povertà che lo circonda e lo coinvolge diventa il motivo ispiratore e scatenante del romanzo. La povertà , oltre che affamare, incrudelisce gli animi, ci fa diventare lupi e assassini. Andrea in qualche modo ha paura della povertà , se la sente addosso, anche se la mamma lo rassicura: Noi non siamo poveri.
Un barbone che rovista nel cassonetto della spazzatura, una zingara che ruba a quest’ultimo qualcosa che ha trovato; mosche, zanzare, cavallette, vespe, che si propagano dappertutto, sono i simboli dello squallore, anche morale, che accompagna l’esistenza dei più. Andrea, Fabio, Alessio e gli altri compagni sono giovani; il mondo che riescono a vedere con i loro occhi non lascia spazio alla speranza. Dovranno stentare, fare sacrifici, se saranno fortunati: nulla di meglio li attende.
Già nel primo libro, Platania era stato attratto dalla condizione di imprigionamento in cui l’uomo si trova costretto, anche se ha un lavoro. Qui, si scende ancora di un gradino e la realtà appare degradata ad un livello forse di non ritorno: “Una volta una persona che aveva passato la notte in un fosso la sapevi distinguere con un solo sguardo da una che aveva dormito bene nel suo letto. Adesso invece non si capisce più.”
Il protagonista fruga dappertutto e cerca invano in ogni avvenimento, se pur minimo, di trovare una risposta positiva che lo aiuti a rispondere alle sue molte delusioni: Senzanome, il cane “nero come la notte” che gli abbaia contro quando si reca al lavoro; il viaggiatore in pullman che insulta gli zingari; l’altro passeggero che, vestito da ricco signore, si scopre che non ha le scarpe, sono proiezioni delle sue paure e dei suoi interrogativi su di un futuro che già appare poco rassicurante. La realtà si presenta così come un grande oceano in cui si sta per annegare; l’acqua è arrivata alla gola, e sentiamo di non farcela: “Come è che si diventa così? Come è che arriva il giorno che ti senti così triste e povero che non capisci come ci sei arrivato? È questo posto dove sono cresciuto che mi ha ridotto così. Se vivi nella merda chi sei davvero non conta niente, sei sporco di merda. Fine.”
L’uomo con la mimetica, uno dei tanti ritratti colti dalla penna dell’autore, ha in sé una follia tragica imbevuta di un desiderio impossibile: pulizia e ordine in una società malata. È la figura che esprime il risultato di un tentativo caparbio che si è andato a frantumare contro le forze oscure della decadenza e dell’orrore: “l’uomo con la mimetica, là fuori, da solo, a combattere contro il caos.”
La scrittura è sempre controllata, mai si fa travolgere dalla situazione drammatica nella quale è coinvolta. La strada  (“la mia strada”) e i due marciapiedi su cui, in tante occasioni, cammina il protagonista Andrea, passando a volte dall’uno all’altro marciapiede, per scansare un pericolo, diventano simboli di una direzione che non si riesce a trovare, di una indecisione dettata da allucinazioni e paure. Si disegnano proprio sui marciapiedi, infatti, situazioni e figure che sembrano sorgere più dalla mente dilatata e scossa di Andrea, piuttosto che dalla realtà .
I due che si picchiano, la coppia di novelli sposi attesi da un destino di debiti e di miseria, Francesco e la sua villa dove c’è il cane che abbaia, sono il piccolo mondo delirante che ha i connotati di un futuro che non riguarda solo il piccolo quartiere in cui Andrea vive, ma esprime già da ora l’universale che ha perduto la sua logica e la sua purezza originarie.
È un romanzo in cui i piani della realtà e della non realtà sembrano intersecarsi fino ad unirsi e confondersi. L’ansia di vivere, la paura, le delusioni, lo sconforto, il razzismo che si propaga sempre di più, hanno tanto mai pervaso la mente che quest’ultima si appresta a modellare una realtà in cui sono proprio l’ansia, la paura, le delusioni e lo sconforto a dettarne le nuove proporzioni e i nuovi confini.
Il libro possiede ed esala una tale carica di allucinazione e di stordimento. Tutto ciò che il protagonista vede è il frutto di una distorsione prodotta nella sua mente da una mancanza di futuro e anche da una scelta incompiuta tra vita e morte.
Rumeni, zingari, extracomunitari vi appaiono come fantasmi incombenti e temuti, che si vorrebbero scacciare quale emanazione di un male e di una corruzione dilaganti. L’autore sottolinea spesso, a tal riguardo, l’intolleranza che dilaga nella società : lo fa con sguardo fermo, e allo stesso tempo incredulo: essa probabilmente viene da lontano; chissà , forse risale alle stesse origini dell’uomo. Lo ha sempre accompagnato, anche nei momenti in cui non appariva, nascosta dal silenzio; i tempi nostri l’hanno rimossa dal nascondiglio, e portata alla luce con il suo colore torvo e pieno di minacce. Quasi a preparare una nuova notte dei cristalli: “Bisognerebbe metterli tutti insieme in una piazza e spruzzargli la benzina addosso. Poi si butta dentro un fiammifero acceso e buonanotte a tutti.”; “«I forni, le docce », dicono i pensionati col giornale sotto il braccio.”
Di contro troviamo Francesco, il figlio del padrone della villa del cane che abbaia. Il padre è un ricchissimo industriale. Francesco sembra uscito, con la sua noia, da “La dolce vita” di Fellini. È incredulo che Andrea possa vivere con novecento euro al mese: “E come cazzo fai?” Francesco è anche lui espressione di una follia che si è impossessata di tutti. La noia, il desiderio di appropriarsi della ricchezza di suo padre, alterano il suo equilibrio allo stesso modo della miseria patita dagli altri. Non se ne esce: tutti siamo dentro una prigione, nessuno è libero, e soprattutto nessuno è contento di se stesso. Difficile, dunque, non incamminarsi sulla strada ampia e seducente della follia. Accadrà anche a Andrea con il suo “primo sangue”, destinato ad avviare una serie infinita: “Il mondo è pieno di gente con i soldi che cerca qualcuno che gli faccia fuori i nemici.” Non ci può essere di peggio, e la nostra società , ci fa intendere l’autore, prima o poi ci condurrà a questo.
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Commento by Gian Gabriele Benedetti — 18 Novembre 2008 @ 21:13
Nella tua sapiente, lucida, efficace analisi, Bartolomeo, ci hai fatto capire il pessimismo che emerge da questo complesso romanzo. Certo la realtà attuale non è che aiuti ad offrire spazi a molte speranze. E la narrazione poggia proprio, a quanto pare, su una spietata verità di una condizione pessima di vita che coinvolge non solo i poveri, ma travolge anche chi ha maggiori possibilità economiche. La prospettiva, in tale umanità , non farebbe, dunque, prevedere mutazioni positive. Purtroppo! Ma (è mio convincimento) l’uomo ha potenzialità e risorse, attraverso le quali, può riscattarsi. Ci sarà possibilità di tempi e uomini migliori? Io, nel mio inguaribile ottimismo, ritengo di sì. Altrimenti…!
Gian Gabriele Benedetti
Commento by Bartolomeo Di Monaco — 18 Novembre 2008 @ 21:27
Lo spero anch’io, Gian Gabriele.
Una volta posi una domanda a Giorgio Saviane, premettendo che io ritenevo che col passare del tempo il male progredisse a detrimento del bene. Mi rispose che sbagliavo. Secondo lui era il bene che avanzava nella società .
Grazie, Gian Gabriele dell’attenzione che riservi ai miei scritti e a quelli degli altri collaboratori, ai quali dò già appuntamento per dicembre, vicino a Natale, quando la rivista pubblicherà un tuo bel racconto: I due zampognari, e poi il giorno di Natale, come è ormai consuetudine della rivista (per Pasqua e per Natale) una tua poesia.