LETTERATURA: Gordiano Lupi: “Una terribile eredità”, Perdisapop, 2009
17 Ottobre 2009
di Bartolomeo Di Monaco
[Per le altre sue letture scorrere qui. Il suo blog qui.]
Toscano, di Piombino, classe 1960, l’autore ha già al suo attivo alcuni libri: “Cuba magica- conversazione con un santéro”, 2003; “Un’isola a passo di son – viaggio nel mondo della musica cubana”, 2004; “Serial killer italiani”, 2005; “Orrori tropicali – storie di vudù, santería e palo mayombe”, 2006; “Almeno il pane Fidel – Cuba quotidiana”, 2006; “Coppie diaboliche”, 2007; “Avana Killing”, 2008, “Mi Cuba”, 2008. Si interessa anche di cinema, scrivendo alcuni saggi, poi raccolti nei volumi “Le dive nude”, 2006; “Sexy made in Italy”. È direttore editoriale della casa editrice, Il Foglio.
Devo anticipare che questo romanzo si divide in due parti: la prima è dedicata alla guerra in Angola; la seconda alle conseguenze che una guerra lascia nella psiche di un reduce. Un tema non nuovo, che ha interessato la letteratura e il cinema, soprattutto dopo la guerra in Vietnam (1955 – 1975). Per questi temi, un riferimento obbligato è, in ogni caso, “L’Arpa birmana” del regista Kon Ichikawa, del 1956.
La prima parte è indubbiamente la più suggestiva, anche dal punto di vista stilistico, fresca, ariosa, con un richiamo alla migliore letteratura di guerra americana.
Ma andiamo con ordine.
In Angola c’è una guerra civile (“Fare politica in Angola voleva dire imbracciare il fucile e sparare.”), cominciata già nell’anno del ritiro del Portogallo dalla sua colonia, il 1975. Da Cuba partono dei soldati volontari, tra cui Alberto, il protagonista (“Tutti volontari perché se dicevi di no ti sbattevano in una sudicia prigione a oriente dell’Avana e dopo chi ti vedeva più”), per difendere una parte, appoggiata dall’URSS, che sta lottando contro l’altra, sostenuta dall’agguerrito esercito sudafricano. I sovietici hanno richiesto a Fidel Castro di dare una mano, con l’invio di proprie truppe.
Namibe è la città di destinazione, dove già prima della guerra la miseria la fa da padrona, in una terra che viene definita “disperata”.
L’autore si muove qui con una scrittura che ha il suo riferimento in Hemingway e in specie nelle sue corrispondenze di guerra; una scrittura diretta, asciutta, che scalfisce come uno scalpello: “Agoana è una delle puttane più richieste di Namibe. Una negra formosa di appena quindici anni. Crescono in fretta le ragazzine africane, diventano subito donne. Lei batte la zona del parco centrale, tra alberi di banane e palme, in fondo alla strada polverosa di quella città cadente.”
Questa prima parte è una cruda testimonianza su di una guerra che c’è stata davvero, conclusasi soltanto nel 2002: “Ho visto genitori divorare i propri figli. Mi hanno raccontato di gente che si cibava di ragazzi uccisi dalle bombe.”; “Le donne incinte dopo il parto abbandonano i loro figli nei contenitori della spazzatura. Mi hanno detto che c’è chi se li porta via ancora vivi e li mette a cuocere sulla brace ardente.”; “A Namibe ci sono vecchi e bambini privi di mani e di gambe. C’è gente orrendamente mutilata che si muove a fatica su carrettini di legno.”
È il ritratto e insieme la condanna di ogni guerra, ed in particolare di quelle che si combattono tra popoli già piegati dalla miseria e dalla sofferenza.
Il protagonista mette ogni tanto a confronto la povertà di quei luoghi con la sua Cuba, trasfigurata dalla lontananza: “Un ricordo che adesso sembra un sogno. Maiale girato sullo spiedo, birra, patate, riso con fagioli e rum. Quella era vita.”
Lupi scrive bene, affascina; le atrocità della guerra sono circondate da una primitività che contrasta con la degenerazione della cosiddetta civiltà moderna. Nonostante la miseria e la sofferenza sentiamo che quelle popolazioni siamo un po’ anche noi. E nostre sono le colpe per un’invadenza che le trasforma e infine le distrugge: “Donne a seno nudo, dai lunghi capelli posticci che pendono dal capo sin dietro le spalle, portano a casa brocche d’acqua tenendole in equilibrio sulla testa. Intorno non c’è neppure un uomo, solo pochi anziani se ne stanno seduti fuori dalle capanne, i giovani sono a caccia nella foresta, magari di scimmie, oppure a pesca di tonni vicino al porto di Namibe.” In mezzo a loro si muovono già i germi contagiosi della guerra, che li ha colpiti “pure in un villaggio ai confini del deserto.”
La donna rappresenta la vita anche nella tragedia. Il protagonista ne sente “l’odore”; della donna non può fare a meno. Essa alleva i figli e sazia l’uomo. Sta immersa nella guerra come una sparsa e miracolosa cellula vivificante, rigeneratrice. I soldati, pensando a lei, sognano il ritorno a casa. Ce l’hanno con “el caballo”, ossia con Fidel Castro, che li ha mandati a combattere una guerra che non interessa loro: “Per me siamo soltanto in mezzo a dei pazzi che si fanno la guerra”. Pablo Aguirre sarà fucilato per aver parlato male di lui. I suoi compagni per vendicarlo fucileranno la spia. Dopo un’imboscata, rimasti isolati, si troveranno costretti, per sopravvivere, a mangiare la carne dei compagni caduti.
Non ci sono ideologie che possano giustificare una guerra, che rende gli uomini irriconoscibili: “Josè termina il lavoro, scorticando i corpi e togliendo con cura la pelle, poi passa a salare la carne sezionata e infine la ripone negli zaini.”
Questi ricordi diventeranno l’ossessione della sua vita. Tornato a casa, dopo cinque anni di guerra e di deserto, con la moglie Clara morta nel dare alla luce Klaíºs, che ora ha cinque anni, Alberto deve fare i conti ogni giorno con essi, nonostante le fatiche e i “problemi quotidiani”, e soprattutto deve fare i conti con quell’episodio di cannibalismo di cui è stato protagonista insieme ai compagni Augustín e José: “Era come una pellicola terribile che ripeteva ogni notte le stesse sequenze.”
Ne sarà travolto. La seconda parte, dalla tendenza orrifica (“Decido di macellare la prima vittima in una stanzetta del cortile”; “Era troppo tempo che desideravo un pasto simile.”), è tutta dedicata a questo smarrimento che la guerra ha reso profondo e terribile, trasformando un uomo in una bestia, schiavo della depravazione e dei sensi. In questa seconda parte, il richiamo va ad un altro tipo di letteratura, quella di Thomas Harris, con il suo serial killer Hannibal Lecter, protagonista di un ciclo di film diventati famosi. C’è anche una descrizione nel libro che richiama in qualche modo la figura di Tom Robinson, il grosso uomo di colore dalle spalle possenti del capolavoro di Lee Harper, “Il buio oltre la siepe”, uscito nel 1960, che avrà una altrettanto celebre trasposizione cinematografica nel 1962 ad opera del regista Robert Mulligan. Questa: “Il tizio che hanno arrestato è un negro di Marianao. Un gigante tutto muscoli con due mani che sembrano badili e la testa pelata. Un vero mostro dalla forza incredibile. Quando lo hanno catturato stava aggredendo un ragazzino in un parco.”
Alberto è ora il “cannibale di Casablanca” e va a cercare le sue prede in sella ad una vecchia Guzzi, dono di Fidel Castro a suo padre.
Ogni volta lo “assale un rimorso indicibile”. Si rende conto che: “La turpe avventura nel deserto ha impresso un marchio di fuoco alla mia vita e adesso so che non sarò più lo stesso.” Non avrà scampo.
La “turpe avventura” accaduta durante la guerra, indotta dalla necessità di sopravvivere, si è rivelata, dunque, un microbo contagioso e degenere, introiettatosi nell’animo umano, trasferendo la follia della guerra nell’uomo. Il romanzo si trasforma così, nella sua parte orrifica, in un terribile atto di accusa.
Da una follia non può che nascere un’altra follia. Il protagonista è perfino convinto di non essere pazzo: “Ho solo portato via dal deserto africano una maledizione infernale.” In realtà, egli è diventato vittima di “una terribile eredità”, del “triste regalo d’una maledetta Angola.” D’una maledetta guerra.
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Commento by Carlo Capone — 17 Ottobre 2009 @ 12:22
Ottima lettura, Bart, trascinante. Sarà che ho parlato di guerra, e delle trasformazioni che induce, nel post precedente. Per fortuna nella quasi totalità dei casi chi torna dalla guerra rinsavisce, come rinato da quel limbo malefico in cui la ragione ha obbedito a un padrone diverso. Certo, ci sono casi in cui quel padrone resta tale. Mi riferisco ai reduci del Vietnam, del Golfo e dell’Irak (di essi sappiamo perchè l’America è una grande democrazia e ne parla). Molti di essi, tornati a casa, sono impazziti oppure, e il caso è al vaglio di eminenti psichiatri, hanno ammazzato la moglie o si sono uccisi. A riguardo mi viene in mente quel capolavoro di Salinger che apre la raccolta ‘Nove racconti’, intitolato ‘Una giornata ideale per la pesca dei pescibanana’.
A proposito, a quando una lettura di Salinger?
PS Ma il blog che fine ha fatto?
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Commento by Bartolomeo Di Monaco — 17 Ottobre 2009 @ 13:51
Carlo, il blog è stato spostato sotto la testata, dove trovi:
Libri su Lucca – Blog – Rivista Parliamone.
Sul blog in questi giorni ci sono discussioni interessanti.
Forse sarà meglio che faccia un avviso circa gli spostamenti intervenuti.
Per il momento mi sto dedicando agli scrittori di casa nostra. Può essere che più in là riprenda anche le letture degli stranieri. Uscì in estate il volume che ne raccoglie alcune per i tipi dell’editore Marco Valerio di Torino.
Commento by Gian Gabriele Benedetti — 17 Ottobre 2009 @ 23:34
Quello recensito da te, Bartolomeo, con la consueta capacità analitica e la tua riconosciuta carica umana, è sicuramente un libro di notevole impatto emozionale, di grande interesse e di non comune forza narrativa.
Di sicuro la guerra è una rovina, perché oltre alla distruzione fisica, crea una distruzione morale spesso devastante.
L’Africa, ad esempio, ha sofferto e soffre più di altri continenti momenti drammatici di guerre civili e non, spesso anche per colpa di grandi potenze ambiziose e sfruttatrici, che lasciano quasi volutamente in uno stato di arretratezza molti popoli di quel continente, senza adoprarsi a fornire loro quegli strumenti (che non siano armi) atti a risollevare le loro condizioni disastrose. Sembra quasi che la pace, da tutti invocata a parole, nei fatti non si voglia proprio, per i più disparati motivi utilitaristici.
Concordo pienamente con quanto scriveva Ortega y Gasset: “La guerra non è un istinto ma un’invenzione”.
Gian Gabriele