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LETTERATURA: I MAESTRI: Cos’è “Italiano”?

9 Agosto 2008

di Camillo Pellizzi
[dal “Corriere della Sera”, lunedì 29 giugno 1970]  

E’ stato già detto: i due ultimi   superstiti sull’ultimo lembo di un’Italia devastata da eventi   tellurici   o bellici avranno di sicuro almeno un tema su cui bisticciare: cioè su cosa sia o non sia, lin ­guisticamente, «italiano ». Mo ­nelli ha scritto e preannun ­ciato, da queste colonne, co ­se preziose in materia: pre ­ziose per me in quanto sono d’accordo con lui, di massi ­ma. Mi rimangono alcuni dubbi grossi e fra un mo ­mento ne darò esempi: ma sempre mi piace in Monelli il fatto che egli non accetta supinamente gli usi correnti come se fossero solo un da ­to, come i livelli della temperatura di questa mattina a Roma o a Milano. Vista co ­sì, la lingua è una cosa mor ­ta, un cadavere; quindi, non più la lingua. Ma se tale non è, la lingua, allora Monelli che parla e scrive, io (si li ­cet) che parlo e scrivo, e chi altri parli o scriva, sia ­mo impegnati in un’azione che, per mille ramificazioni intermedie, tocca e coinvolge tutta l’umanità, ma a buon conto, prima e più degli altri, tutti coloro che parlano e in ­tendono, e insomma vivono, questa medesima lingua no ­stra.
Della lingua vivente non si può dunque parlare senza di ­re, almeno implicitamente, ciò che si ama o si deplora, ciò che si vorrebbe o no. L’in ­differenza in tali cose può es ­sere solo grossezza di gusto  e sterilità dell’animo; ogni volta che si parla e si scrive, si coinvolge nel nostro modo di parlare e scrivere tutta la cultura di cui fa parte il no ­stro stesso discorso: e deve pur esistere, anche in questo campo, un certo margine di legittima difesa!
Dunque, nessuna « neutra ­lità » di massima. Tuttavia, specialmente per ciò che ri ­guarda i barbarismi, è dove ­roso e non sempre facile ca ­pire ciò che si scarta e si condanna. Perché l’Inghilter ­ra di Elisabetta I e la Russia di Caterina II parlavano l’ita ­liano, a corte, fra i nobili, nelle case di intellettuali co ­me Tommaso Moro, nelle ta ­verne dove trincavano e fa ­cevano baruffa i Webster, gli Shakespeare     e compagnia?
Erano popoli umiliati e de ­cadenti? (A buon conto, cosa vuol dire con precisione « de ­cadente »?). E l’Italia del Cin ­que e del Seicento era forse quel colosso militare e politi ­co, che sarebbero oggi gli Stati Uniti d’America e di Russia? E’ vero soltanto che l’Italia aveva tirato un gros ­so respiro di sollievo dopo Lepanto: ed è rimasto nel subconscio greve del nostro popolo il pensiero che una nuova Lepanto, a difesa da uno stesso genere ed origine di pericolo, la si potrà sem ­pre riavere; il che non è af ­fatto certo…
Insomma, l’Europa « italia ­nizzava » perché dall’Italia aveva ricevuto alcuni elemen ­ti sostanziali della sua cultu ­ra; e continuò a farlo, sem ­pre più fievolmente, anche quando la sorgente si era estenuata fino ad esser quasi invisibile (ma non in ogni campo: non nella musica, per esempio).
 

*

Il rapporto fra le parole e le « cose » subisce le vicende più strane e imprevedibili, ma quasi sempre si può rintrac ­ciare in esso un comprensi ­bile filo. Il bove, in inglese, si chiama ox, parola germa ­nica. In cucina e sulla tavola diventò beef, dal francese boeuf, per via del prestigio della cucina francese. Ma for ­se perché gli inglesi avevano bestie di razza migliore, e perché avevano ritrovato cer ­te loro tradizioni antiche, i loro roast beef  e beef steak si imposero in Francia e nel mondo; in Italia divennero, toscaneggiando, « rosbiffe » (o il più comune « ròsbif », for ­ma bastarda), e la « bistec ­ca », indovinata come cibo e come parola. Tornava così al ­le sue origini squartato e ro ­solato, il pio bos dell’antica latinità.
Lingua e costume fanno un circolo: l’una condiziona o determina l’altro a vicen ­da; sono un tutto solo che noi analizziamo sotto aspetti diversi. Ma l’analisi non esclu ­de la scelta, il giudizio; e co ­me le associazioni a delin ­quere hanno ciascuna il suo linguaggio più o meno con ­venzionale e furbesco, quel ­l’associazione a non delinque ­re, che è o vorrebbe essere la società senza specificazio ­ni, deve avere un suo linguag ­gio comune e riconosciuto: e chi bara nel linguaggio, bara tout court.
L’uso di esotismi e di dia ­letti non significa necessaria ­mente barare. Ammiro, per esempio, il sapiente uso dei dialetti che fa Carlo Emilio Gadda: sono colpi di spato ­la che, a volte, concludono in una riga tutta una perso ­na o una situazione. E non mi fa scandalo, pensando alla tradizione, l’uso e abuso del ­l’inglese in mezzo alla Firen ­ze « bene » (qualcuno a Fi ­renze, com’era da prevedere, lo definisce « anglobècero »). L’importante è che l’evasione dalla lingua e dal costume nostro sia consapevole. Assicurato questo punto, ognuno è padrone di prendere le sue piccole o grandi responsabi ­lità. Come quel conte Bastogi fiorentino, di cui si favoleg ­gia che portò a Londra il servo perché imparasse sul luogo come vestono gl’inglesi. Però il servo uscì a dire: «Sarà, sòr conte, ma qui a Londra, che sia vestito all’inghilese non c’e che lei! ».
 

*

Non si pretende che il co ­stume, e massimamente il lin ­guaggio, non siano in conti ­nuo moto e mutamento per il fatto stesso del loro vivere; ma l’uomo civile deve sapere ciò che cambia, o ha cambiato. I tradizionalisti induriti sono assai fastidiosi; ma «gli altri », se ci fate at ­tenzione, sono sempre dei su ­perficiali e dei goffi.
Ci sono poi dei casi-limite sui quali mi piacerebbe sen ­tire il giudizio di Monelli. Per esempio, gli studi e gli accorgimenti che ci vennero dall’America più di trent’anni fa sotto l’appellativo di « hu ­man relations in industry ». Io ne scrissi traducendo: « rapporti umani nell’indu ­stria ». Padre Agostino Ge ­melli mi dette sulla voce per ­ché, diceva, la letteratura e la « prassi » avevano ormai « consacrato » la forma « re ­lazioni umane ». Fu per me imbarazzante spiegare a quel dotto religioso che « relazio ­ne », in italiano, si riferisce anche a rapporti non del tut ­to ortodossi fra persone di sesso opposto; oppure, con più diretto richiamo a referre, si dice « una relazione d’inchiesta », che è omologo di « referto clinico », ecc. Non ci fu santi…, anzi ci furono, e prevalse la tesi di Padre Gemelli: il modello transatlantico si dimostrò im ­battibile; in conclusione, « in ­traducibile », benché l’italia ­no « rapporti » corrisponda in modo perfetto, qui all’in ­glese relations.
Altre parole inglesi, invece, anche di pretto conio latino, non possiamo tradurle perché ci manca la parola corrispon ­dente o, peggio ancora, per ­ché ci manca l’idea corrispon ­dente. E’ del primo caso concern, sostantivo, indican ­te, non solo l’atteggiamento di qualcuno nei confronti di una certa cosa, ma anche quel determinato valore o significanza in sé e per sé. Noi ab ­biamo il verbo « concernere », ma i sostantivi «interesse », « preoccupazione », e simili, non centrano l’idea. Ora, in certi miei scritti, più illeggi ­bili del solito perché « scien ­tifici », io avevo bisogno di dire quella « cosa », e ho do ­vuto usare tra virgolette la parola inglese. Me la passerà Monelli?
Più grave, e anche diverso, è il caso di « social affection » e « disaffection ». « Affetto – o sentimento – sociale », « mancanza del medesimo », in Italia significano molto poco, oppure fanno confusa ­mente pensare al « radicalismo » politico e all’estrema sinistra. L’amor patrio, per esempio, in Italia è « di de ­stra », perché non è sentito e visto per quello che è, os ­sia come una forma partico ­lare di « affetto sociale ». Può esserci da noi molto affetto fra uomo e uomo, fra uomo e donna; ma fra uomo e so ­cietà, e fra società e uomo, manca l’idea perché manca la cosa. La buccia di banana può rimanere per una setti ­mana sul marciapiede (con ­correndovi le « istanze socia ­li » di talune categorie), in attesa del camminatore not ­turno, o distratto, o già clau ­dicante, che ci si spezzi il bacino. E osservate il passeg ­gero che entra in uno scompartimento in ferrovia: ag ­gressivo, sospettoso, e accolto da un generale e reciproco atteggiamento sospettoso e aggressivo. L’individuo italia ­no tende ad essere « nemico » della società, comunque essa si manifesti, e la società italiana, in mille sue forme, ten ­de ad esser nemica dell’indi ­viduo: la cosa è talmente incarnita e pacifica che nessu ­no si preoccupa nemmeno di nasconderla.  (Da uomo a uomo, poi, anche nel citato scompartimento, può ingag ­giarsi facilmente una conver ­sazione fittissima, addirittura confidenziale; ma l’individuo e la società « non si cono ­scono »).
Qualcuno dice: « sono cu ­riosità del costume ». Ma su « curiosità » cosiffatte si è costruita nei secoli l’Inghil ­terra, per esempio, con quel ­le sue libertà così semplici e così pietrose, tenaci. L’uo ­mo disaffected, laggiù, è guar ­dato con una vaga mesco ­lanza di preoccupazione e ri ­brezzo, come una specie di lebbroso morale. E non mi venite a dire che anche que ­sta è una trappola dello esta ­blishment, per nascondere so ­prusi ed eternare privilegi ecc. Il giovane establishment, nel 1914, era nelle Universi ­tà; partirono tutti fino ad uno, e ben pochi tornarono dai campi delle Argonne; e l’Inghilterra ha vissuto poi, per più di trent’anni, con gli scampoli superstiti di una clas ­se dirigente decimata. Trap ­pole, come si vede.

 

 

 


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Bart