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LETTERATURA: I MAESTRI: La Libia dal cammello all’oro nero /5

5 Ottobre 2011

di Paolo Monelli
[dal “Corriere della Sera”, giovedì 15 aprile 1969]

DAL NOSTRO INVIATO SPECIALE

Tripoli, aprile.

Nel 1968 hanno visitato la Libia 134.000 turisti in cifra tonda. Esclusi i visitatori dei paesi arabi, 68.000, per lo più egiziani tunisini ed algerini, dei restanti 66.000 la parte maggiore è rappresentata da ­gli italiani, 15.000; seguono 11 mila inglesi, 8000 cittadini de ­gli Stati Uniti, poco più di 4000 francesi e altrettanti te ­deschi; etc. Gli italiani do ­vrebbero essere più numerosi. Per noila Libiaè a due pas ­si; ci si va in volo da Roma in un’ora e quaranta minuti; lo sanno i libici, che quando ne hanno abbastanza di gua ­dagnare quattrini facili e vo ­gliono distrarsi prendono « l’autobus per l’Italia », come dicono: prendono l’aereo e vanno in Sicilia, a Roma, a Firenze, cinquantamila ogni anno.

Chi consideri che la Libiaè in grandissima parte deserta (non più dell’uno per cento della sua superficie è adatto alla coltivazione), incorporan ­do entro le sue frontiere una buona porzione del più vasto deserto del mondo, il Sahara, non crederebbe che sia così ricca d’aspetti e di luoghi fat ­ti per attirare i turisti. D’ac ­cordo con l’impegno dei suoi governanti a costruire in fret ­ta uno stato moderno e pro ­gredito, con un programma gremito di città universitarie, di scuole, di stadi, di ospedali, di alberghi, di porti, di campi d’aviazione, di industrie, la popolazione è ancora molto attaccata alla tradizione e al ­l’antico costume, devota ad una religione accentratrice ed esigente; per cui si offre allo straniero diversa e pittoresca, tuttora fedele alle vesti, alle consuetudini, a regole di vita sue proprie da secoli. (Il baracano non è che la toga dei romani; un rudimentale bot ­tone, fatto con un malloppo di stoffa, che serve a chiuder ­lo sulla spalla, è chiamato nel ­l’idioma di Tripoli « togamìa », che è il latino toga mea).

La Libiaha grandiosi paesaggi, mossi, fra il monte e la pianura, oasi bellissime e silenziose con tombe di san ­toni e moschee secolari (si ri ­trova la Puglianella moschea di Augila, ove vivono i discen ­denti dei nasamoni ricordati da Erodoto, formata da una ventina di trulli); città e bor ­ghi antichi spesso serrati da mura o dominati da un ca ­dente castello. E antichità greche e romane che conten ­dono il vanto a quelle che si ammirano in Italia ed in Gre ­cia: Sabratha più antica di Roma, città fenicia fino dal X secolo a.C.: Leptis Magna, metropoli dell’imperatore Set ­timio Severo; Cirene, fondata il VII a.C. da coloni greci ap ­prodati dall’isola di Thera (Santorino), sorta intorno ad una fonte perenne sacra ad Apollo (ancora sgorga l’acqua limpidissima e fredda da cu ­pe grotte ove nidificano co ­lombe); Susa, l’antica Apollo ­nia, mezzo affondata nel ma ­re per un cataclisma; Tocra, l’antica Arsinoe; Tolemaide, fondata dai Tolomei re d’Egit ­to, di cui fu vescovo il filoso ­fo Sinesio che scrisse l’« Elo ­gio della calvizie » (Phalàkras Enkí³mion) e soprattutto per questo gode di fama imperi ­tura; Ghirza sulle rovine di una città romana di cui è ignota la storia e il nome, ma ne sono rimasti monumentali mausolei; etc.

Sabratha, Leptis Magna, Cirene, Tolemaide erano poco più che grandi campi di rovi ­ne senza ordine né storia, fin ­ché con l’occupazione italiana, anno 1911, ne cominciò l’e ­splorazione metodica, la ricer ­ca dell’antica pianta urbana; e s’iniziarono scavi sistemati ­ci che hanno ridato loro for ­ma e vita, ricomponendo con i vezzi originali delle antiche strutture colonne, archi, edi ­fici, rovinati dal tempo e dal ­le intemperie, abbattuti dai terremoti e dalle macchine da guerra.

Oggi Leptis Magna, di cui l’arco quadrifronte intitolato ai Severi è pressoché tutto ricomposto, mi è apparsa in tutta la sua grandiosità, per quanto una parte notevole sia ancora sommersa dalle dune, col selciato intatto delle stra ­de, con gli archi di Tiberio e di Traiano, con due fòri, con il mercato, il teatro, la basilica nuova, le terme; dal gradino più alto del teatro, accanto ad una eterna spet ­tatrice, l’intatta statua, di Crispina moglie di Commodo seduta in trono con un fan ­ciullo in braccio, dominavo fino alla lontana marina una infinita selva di colonne, tre, quattro centinaia, chi potreb ­be contarle? E tante altre ancora avrebbero potuto es ­sere rimesse in piedi, non ci fossero stati predoni d’ogni genere. Trecento ne dissot ­terrò dalla sabbia insieme a un bel mucchio di marmi M. Claude Lemaire, console di Francia a Tripoli dal 1696, e le trafugò a Parigi, e le più furono vendute come ma ­teriale da costruzione. Altre quarantotto colonne di Lep ­tis sono prezioso ornamento della moschea cinquecentesca di Tagiura; più di trenta ne spedì a Londra il capitano inglese H. V. Smith i primi anni dell’Ottocento, che og ­gi abbelliscono il castello di Windsor. Cose di questo ge ­nere sono sempre avvenute con i ruderi dell’antichità nei secoli oscuri; ed anche in quelli non tanto oscuri. A Malta i primi decenni di que ­sto secolo gli inglesi se li sono bevuti. Piantarono nel mezzo dell’isola presso certe dissotterrate ville romane una fabbrica d’acqua di so ­da, resa effervescente con i marmi triturati; e se la be ­vevano col whisky.

Reso il debito onore ai ci ­meli greci e romani, racco ­mando ai nostri futuri turi ­sti di non fermarsi alla co ­sta, lungo la quale è quasi compiuta un’autostrada a quattro corsie condotta in buona parte sul tracciato del ­la via Balbia. Buone strade, alcune che sono le stesse aperte dai nostri soldati, qua e là rifatte ed allargate, ed altre nuove, costruite o in corso dì costruzione, portano agevolmente nell’interno. La strada degli alpini, che ha la data 1911-1912, conduce sull’altopiano tripolino alla graziosa città di Gariàn, bre ­ve capitale d’una regione redenta dai nostri coloni, che paragonai in altri tempi alla bianca Assisi di quell’Umbria libica.

Abitazione trogloditiche

Nel vicino villaggio di Tigrinna, di cui ho già det ­to, i turisti potranno ancora vedere le abitazioni troglodi ­tiche, che famiglie non han ­no ancora abbandonato per trasferirsi nelle casette nuo ­ve del piano Idriss. Sono fos ­se quadrate che sprofondano per dieci o dodici metri, sca ­vate in un terreno facile, per cui sono costate poco e sono fresche d’estate. Vi si acce ­de scendendo per una lunga oscura galleria che si apre nel campo vicino. Non ci so ­no difese intorno, se questi buoni musulmani violando il precetto del profeta usassero ubriacarsi la sera, correreb ­bero il rischio tornando a ca ­sa di precipitar giù ed ac ­copparsi (talvolta è succes ­so). Dall’acqua piovana ba ­sta a difenderle l’orlo legger ­mente rialzato della buca e una canaletta intorno, quel ­la che cade direttamente dentro è raccolta al fondo da una cisterna. Le stanze sono grotte scavate nei fian ­chi del pozzo; le più curate hanno architravi e stipiti al ­le porte e alle finestre. Tali ricoveri rispondono al desi ­derio di questi arabi di non avere vicini, soprattutto di non vedere e non essere ve ­duti dagli estranei. Ma co ­me scoperanno via le immon ­dizie, queste massaie troglo ­ditiche?

Una strada un po’ acciden ­tata porta nel cuore del Fezzàn, alla terza capitale del regno, la città di Sebha, che ha tolto il vanto alla vicina Murzùch dallo splendido pas ­sato, quando era passaggio obbligato delle carovane che traversavano il Sahara dal ­l’Egitto all’Algeria, dal Ciad al Mediterraneo. Oggi Mur ­zùch è una silenziosa città chiusa ancora in gran parte nelle vecchie mura, con tor ­rioni pingui e poderosi; ed ha un vivace mercato con ­dotto esclusivamente dalle donne, solide ragazze e vec ­chie grinzose di razza nera, le une e le altre vestite di morbide fute coloratissime.

Da Sebha una strada che si sta asfaltando e giungerà fino all’oasi di Gat rende faci ­le ciò che pochi anni fa era ancora un’impresa e richiede ­va lunghe giornate di cam ­mello, risalire la fiorente val ­le del uadi el Agial, grata sorpresa dopo la traversata d’una steppa arida e vuota; un seguito di oasi cintate, ric ­che di pozzi e di giardini; sor ­gono a centinaia di migliaia le palme da un sabbione lu ­cido e brillante. E’ il più anti ­co luogo del Sahara ove sia ­no giunti gli uomini, come di ­mostrano decine di migliaia di tombe preistoriche che si tro ­vano da el Abiad fin’oltre l’oasi di Germa, che è la ro ­mana Garama, e le pitture e le incisioni rupestri sulle roc ­ce che serrano la valle.

Germa oggi si presenta come una medievale città ber ­bera, rossa di mura fra ciuffi di palme; fu città capitale dei garamanti che si ritiene siano giunti nel Fezzàn duemila an ­ni avanti Cristo; razziatori, predoni di carovane, giunge ­vano improvvisi sui loro cam ­melli da corsa fino alle coste mediterranee, in gualdane ra ­pide e fruttifere. Ne parla Erodoto, nel libro quarto delle sue Storie: « Spargono sulle sabbie salate un po’ di terra e vi seminano. Hanno una specie di buoi che pascolano a ritroso; così debbono fare perché hanno le corna molto ricurve in avanti, e se pasco ­lassero avanzando, le corna si pianterebbero nel terreno. Questi garamanti fanno la guerra agli etiopi trogloditi, che sono velocissimi nel cor ­so, con carri trainati da quat ­tro cavalli ». (Uno di tali car ­ri è effigiato in una pittura rupestre del uadi Zigza).

Misteriosa capitale

Non solo per l’amenità del luogo consiglio ai turisti ita ­liani questa escursione, ma per rendere omaggio ai nostri antichi, a quei legionari che arrivarono nel Fezzàn il19 a.C. al comando del console Cornelio Balbo traversando in armi, e con gli impedimen ­ti al seguito, la desolata ham- mana pietrosa da Sabratha a Gadàmes, quasi seicento chi ­lometri, e per altrettanto spa ­zio il deserto di sabbia fino a Germa.

Domati finalmente dopo quarant’anni di guerriglia i garamanti accettarono il do ­minio di Roma; ma si ribel ­larono di nuovo la seconda metà del primo secolo, corsero minacciosi fino a Leptis, fin ­ché il 69 d.C. Valerio Festo comandante della terza legio ­ne libica li respinse inseguen ­doli fino a Garama.

Anche il deserto vero e pro ­prio è ormai facilmente ac ­cessibile; e chi disponga del tempo sufficiente potrà rag ­giungere el Giof e le oasi vici ­ne che hanno il nome collet ­tivo di Cufra, culla del senussismo; e sulla frontiera algerina l’oasi di Gat, miste ­riosa capitale di nomadi tuaregh che Ardito Desio parago ­na ad un borgo medievale cin ­to da alte ostili muraglie. Ma anche il turista frettoloso de ­ve visitare Gadàmes, a cui si arriva in due ore di volo; ma io consiglio l’automobile. A queste mete remote bisogna arrivare lentamente. Si par ­te da Nalut (aspra fortezza barbara sull’orlo vertiginoso di una gola rocciosa), per una solida pista traverso il deserto irto di ciottoli anneriti dal sole; un lungo monotono an ­dare verso mutevoli orizzonti di gare (basse elevazioni tra ­pezoidali), trovando ogni sei sette ore il refrigerio di una piccola oasi ospitale.

Gadàmes si annuncia di lontano con una gara che è una regolarissima liscia piramide; la chiamano « il cuore di Gadàmes », e ha la sua leggenda. Un Cacasenno locale smarritosi nella Hammada vi salì in cima per vedere dove fosse l’oasi, e dal sommo la vide, e scese per dirigervisi. Ma giunto al basso non vide più l’oasi; e risalì sulla vetta per ritrovarla. E ridiscese. E risalì. Finché morì di fame

Biancore accecante

Dopo una vigilia di due o tre tappe, che si è andati in solitudine enorme, abbacinati dalla petraia, sotto l’ardore bianco del cielo, la freschezza e la pace dell’oasi sono un dono inatteso. Si cammina in una sabbia morbida, in un si ­lenzio pulito, fra muretti bianchi nel colonnato delle palme. Ed ecco la città. Alta, chiusa, segreta. Serrata entro una muraglia bruna, ove si apre una porta bianca, angu ­sta. Oltre il muro si leva un groviglio compatto di pareti e di torrioni di un biancore ac ­cecante. Non si vede una finestra, non un’apertura. Si pen ­sa di essere giunti ad una reggia marmorea; ma non è marmo, è fango intonacato. Appena varcata la porta si penetra in una galleria angu ­sta ed oscura. Perché tutte le case sono fuse in una sola massa sotto cui vanno cieche le strade come cunicoli di talpe; e al sommo delle case vi sono terrazze quadrate cor ­se in giro da una balaustra merlata. Le terrazze comunicano le une con le altre con dislivelli di pochi gradini. Tutta la città è coperta così da un labirinto aereo, ove dominano, sole, le donne. Gli uomini non vi hanno accesso se non i mesi della canicola, per rinfrescarsi al vento ve ­spertino del deserto; e le don ­ne possono scendere nella strada solo un giorno l’anno. Dopo un lungo errare per le buie gallerie si sbocca in una piazzetta cinta da altissime mura. In un angolo della piaz ­zetta c’è una nicchia, ed un vecchio vi sta accoccolato ac ­canto. Qui la fonte che dà vita all’oasi; da qui l’acqua è diretta a questo o a quel ca ­naletto, a questo o a quell’orto per chiuse che il vecchio am ­ministra, secondo antiche e minuziose regole di tempo e di turni.


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