LETTERATURA: I MAESTRI: La Libia dal cammello all’oro nero /55 Ottobre 2011 di Paolo Monelli DAL NOSTRO INVIATO SPECIALE Tripoli, aprile. Nel 1968 hanno visitato la Libia 134.000 turisti in cifra tonda. Esclusi i visitatori dei paesi arabi, 68.000, per lo più egiziani tunisini ed algerini, dei restanti 66.000 la parte maggiore è rappresentata da gli italiani, 15.000; seguono 11 mila inglesi, 8000 cittadini de gli Stati Uniti, poco più di 4000 francesi e altrettanti te deschi; etc. Gli italiani do vrebbero essere più numerosi. Per noila Libiaè a due pas si; ci si va in volo da Roma in un’ora e quaranta minuti; lo sanno i libici, che quando ne hanno abbastanza di gua dagnare quattrini facili e vo gliono distrarsi prendono « l’autobus per l’Italia », come dicono: prendono l’aereo e vanno in Sicilia, a Roma, a Firenze, cinquantamila ogni anno. Chi consideri che la Libiaè in grandissima parte deserta (non più dell’uno per cento della sua superficie è adatto alla coltivazione), incorporan do entro le sue frontiere una buona porzione del più vasto deserto del mondo, il Sahara, non crederebbe che sia così ricca d’aspetti e di luoghi fat ti per attirare i turisti. D’ac cordo con l’impegno dei suoi governanti a costruire in fret ta uno stato moderno e pro gredito, con un programma gremito di città universitarie, di scuole, di stadi, di ospedali, di alberghi, di porti, di campi d’aviazione, di industrie, la popolazione è ancora molto attaccata alla tradizione e al l’antico costume, devota ad una religione accentratrice ed esigente; per cui si offre allo straniero diversa e pittoresca, tuttora fedele alle vesti, alle consuetudini, a regole di vita sue proprie da secoli. (Il baracano non è che la toga dei romani; un rudimentale bot tone, fatto con un malloppo di stoffa, che serve a chiuder lo sulla spalla, è chiamato nel l’idioma di Tripoli « togamìa », che è il latino toga mea). La Libiaha grandiosi paesaggi, mossi, fra il monte e la pianura, oasi bellissime e silenziose con tombe di san toni e moschee secolari (si ri trova la Puglianella moschea di Augila, ove vivono i discen denti dei nasamoni ricordati da Erodoto, formata da una ventina di trulli); città e bor ghi antichi spesso serrati da mura o dominati da un ca dente castello. E antichità greche e romane che conten dono il vanto a quelle che si ammirano in Italia ed in Gre cia: Sabratha più antica di Roma, città fenicia fino dal X secolo a.C.: Leptis Magna, metropoli dell’imperatore Set timio Severo; Cirene, fondata il VII a.C. da coloni greci ap prodati dall’isola di Thera (Santorino), sorta intorno ad una fonte perenne sacra ad Apollo (ancora sgorga l’acqua limpidissima e fredda da cu pe grotte ove nidificano co lombe); Susa, l’antica Apollo nia, mezzo affondata nel ma re per un cataclisma; Tocra, l’antica Arsinoe; Tolemaide, fondata dai Tolomei re d’Egit to, di cui fu vescovo il filoso fo Sinesio che scrisse l’« Elo gio della calvizie » (Phalàkras Enkí³mion) e soprattutto per questo gode di fama imperi tura; Ghirza sulle rovine di una città romana di cui è ignota la storia e il nome, ma ne sono rimasti monumentali mausolei; etc. Sabratha, Leptis Magna, Cirene, Tolemaide erano poco più che grandi campi di rovi ne senza ordine né storia, fin ché con l’occupazione italiana, anno 1911, ne cominciò l’e splorazione metodica, la ricer ca dell’antica pianta urbana; e s’iniziarono scavi sistemati ci che hanno ridato loro for ma e vita, ricomponendo con i vezzi originali delle antiche strutture colonne, archi, edi fici, rovinati dal tempo e dal le intemperie, abbattuti dai terremoti e dalle macchine da guerra. Oggi Leptis Magna, di cui l’arco quadrifronte intitolato ai Severi è pressoché tutto ricomposto, mi è apparsa in tutta la sua grandiosità, per quanto una parte notevole sia ancora sommersa dalle dune, col selciato intatto delle stra de, con gli archi di Tiberio e di Traiano, con due fòri, con il mercato, il teatro, la basilica nuova, le terme; dal gradino più alto del teatro, accanto ad una eterna spet tatrice, l’intatta statua, di Crispina moglie di Commodo seduta in trono con un fan ciullo in braccio, dominavo fino alla lontana marina una infinita selva di colonne, tre, quattro centinaia, chi potreb be contarle? E tante altre ancora avrebbero potuto es sere rimesse in piedi, non ci fossero stati predoni d’ogni genere. Trecento ne dissot terrò dalla sabbia insieme a un bel mucchio di marmi M. Claude Lemaire, console di Francia a Tripoli dal 1696, e le trafugò a Parigi, e le più furono vendute come ma teriale da costruzione. Altre quarantotto colonne di Lep tis sono prezioso ornamento della moschea cinquecentesca di Tagiura; più di trenta ne spedì a Londra il capitano inglese H. V. Smith i primi anni dell’Ottocento, che og gi abbelliscono il castello di Windsor. Cose di questo ge nere sono sempre avvenute con i ruderi dell’antichità nei secoli oscuri; ed anche in quelli non tanto oscuri. A Malta i primi decenni di que sto secolo gli inglesi se li sono bevuti. Piantarono nel mezzo dell’isola presso certe dissotterrate ville romane una fabbrica d’acqua di so da, resa effervescente con i marmi triturati; e se la be vevano col whisky. Reso il debito onore ai ci meli greci e romani, racco mando ai nostri futuri turi sti di non fermarsi alla co sta, lungo la quale è quasi compiuta un’autostrada a quattro corsie condotta in buona parte sul tracciato del la via Balbia. Buone strade, alcune che sono le stesse aperte dai nostri soldati, qua e là rifatte ed allargate, ed altre nuove, costruite o in corso dì costruzione, portano agevolmente nell’interno. La strada degli alpini, che ha la data 1911-1912, conduce sull’altopiano tripolino alla graziosa città di Gariàn, bre ve capitale d’una regione redenta dai nostri coloni, che paragonai in altri tempi alla bianca Assisi di quell’Umbria libica. Abitazione trogloditiche Nel vicino villaggio di Tigrinna, di cui ho già det to, i turisti potranno ancora vedere le abitazioni troglodi tiche, che famiglie non han no ancora abbandonato per trasferirsi nelle casette nuo ve del piano Idriss. Sono fos se quadrate che sprofondano per dieci o dodici metri, sca vate in un terreno facile, per cui sono costate poco e sono fresche d’estate. Vi si acce de scendendo per una lunga oscura galleria che si apre nel campo vicino. Non ci so no difese intorno, se questi buoni musulmani violando il precetto del profeta usassero ubriacarsi la sera, correreb bero il rischio tornando a ca sa di precipitar giù ed ac copparsi (talvolta è succes so). Dall’acqua piovana ba sta a difenderle l’orlo legger mente rialzato della buca e una canaletta intorno, quel la che cade direttamente dentro è raccolta al fondo da una cisterna. Le stanze sono grotte scavate nei fian chi del pozzo; le più curate hanno architravi e stipiti al le porte e alle finestre. Tali ricoveri rispondono al desi derio di questi arabi di non avere vicini, soprattutto di non vedere e non essere ve duti dagli estranei. Ma co me scoperanno via le immon dizie, queste massaie troglo ditiche? Una strada un po’ acciden tata porta nel cuore del Fezzàn, alla terza capitale del regno, la città di Sebha, che ha tolto il vanto alla vicina Murzùch dallo splendido pas sato, quando era passaggio obbligato delle carovane che traversavano il Sahara dal l’Egitto all’Algeria, dal Ciad al Mediterraneo. Oggi Mur zùch è una silenziosa città chiusa ancora in gran parte nelle vecchie mura, con tor rioni pingui e poderosi; ed ha un vivace mercato con dotto esclusivamente dalle donne, solide ragazze e vec chie grinzose di razza nera, le une e le altre vestite di morbide fute coloratissime. Da Sebha una strada che si sta asfaltando e giungerà fino all’oasi di Gat rende faci le ciò che pochi anni fa era ancora un’impresa e richiede va lunghe giornate di cam mello, risalire la fiorente val le del uadi el Agial, grata sorpresa dopo la traversata d’una steppa arida e vuota; un seguito di oasi cintate, ric che di pozzi e di giardini; sor gono a centinaia di migliaia le palme da un sabbione lu cido e brillante. E’ il più anti co luogo del Sahara ove sia no giunti gli uomini, come di mostrano decine di migliaia di tombe preistoriche che si tro vano da el Abiad fin’oltre l’oasi di Germa, che è la ro mana Garama, e le pitture e le incisioni rupestri sulle roc ce che serrano la valle. Germa oggi si presenta come una medievale città ber bera, rossa di mura fra ciuffi di palme; fu città capitale dei garamanti che si ritiene siano giunti nel Fezzàn duemila an ni avanti Cristo; razziatori, predoni di carovane, giunge vano improvvisi sui loro cam melli da corsa fino alle coste mediterranee, in gualdane ra pide e fruttifere. Ne parla Erodoto, nel libro quarto delle sue Storie: « Spargono sulle sabbie salate un po’ di terra e vi seminano. Hanno una specie di buoi che pascolano a ritroso; così debbono fare perché hanno le corna molto ricurve in avanti, e se pasco lassero avanzando, le corna si pianterebbero nel terreno. Questi garamanti fanno la guerra agli etiopi trogloditi, che sono velocissimi nel cor so, con carri trainati da quat tro cavalli ». (Uno di tali car ri è effigiato in una pittura rupestre del uadi Zigza). Misteriosa capitale Non solo per l’amenità del luogo consiglio ai turisti ita liani questa escursione, ma per rendere omaggio ai nostri antichi, a quei legionari che arrivarono nel Fezzàn il19 a.C. al comando del console Cornelio Balbo traversando in armi, e con gli impedimen ti al seguito, la desolata ham- mana pietrosa da Sabratha a Gadàmes, quasi seicento chi lometri, e per altrettanto spa zio il deserto di sabbia fino a Germa. Domati finalmente dopo quarant’anni di guerriglia i garamanti accettarono il do minio di Roma; ma si ribel larono di nuovo la seconda metà del primo secolo, corsero minacciosi fino a Leptis, fin ché il 69 d.C. Valerio Festo comandante della terza legio ne libica li respinse inseguen doli fino a Garama. Anche il deserto vero e pro prio è ormai facilmente ac cessibile; e chi disponga del tempo sufficiente potrà rag giungere el Giof e le oasi vici ne che hanno il nome collet tivo di Cufra, culla del senussismo; e sulla frontiera algerina l’oasi di Gat, miste riosa capitale di nomadi tuaregh che Ardito Desio parago na ad un borgo medievale cin to da alte ostili muraglie. Ma anche il turista frettoloso de ve visitare Gadàmes, a cui si arriva in due ore di volo; ma io consiglio l’automobile. A queste mete remote bisogna arrivare lentamente. Si par te da Nalut (aspra fortezza barbara sull’orlo vertiginoso di una gola rocciosa), per una solida pista traverso il deserto irto di ciottoli anneriti dal sole; un lungo monotono an dare verso mutevoli orizzonti di gare (basse elevazioni tra pezoidali), trovando ogni sei sette ore il refrigerio di una piccola oasi ospitale. Gadàmes si annuncia di lontano con una gara che è una regolarissima liscia piramide; la chiamano « il cuore di Gadàmes », e ha la sua leggenda. Un Cacasenno locale smarritosi nella Hammada vi salì in cima per vedere dove fosse l’oasi, e dal sommo la vide, e scese per dirigervisi. Ma giunto al basso non vide più l’oasi; e risalì sulla vetta per ritrovarla. E ridiscese. E risalì. Finché morì di fame Biancore accecante Dopo una vigilia di due o tre tappe, che si è andati in solitudine enorme, abbacinati dalla petraia, sotto l’ardore bianco del cielo, la freschezza e la pace dell’oasi sono un dono inatteso. Si cammina in una sabbia morbida, in un si lenzio pulito, fra muretti bianchi nel colonnato delle palme. Ed ecco la città. Alta, chiusa, segreta. Serrata entro una muraglia bruna, ove si apre una porta bianca, angu sta. Oltre il muro si leva un groviglio compatto di pareti e di torrioni di un biancore ac cecante. Non si vede una finestra, non un’apertura. Si pen sa di essere giunti ad una reggia marmorea; ma non è marmo, è fango intonacato. Appena varcata la porta si penetra in una galleria angu sta ed oscura. Perché tutte le case sono fuse in una sola massa sotto cui vanno cieche le strade come cunicoli di talpe; e al sommo delle case vi sono terrazze quadrate cor se in giro da una balaustra merlata. Le terrazze comunicano le une con le altre con dislivelli di pochi gradini. Tutta la città è coperta così da un labirinto aereo, ove dominano, sole, le donne. Gli uomini non vi hanno accesso se non i mesi della canicola, per rinfrescarsi al vento ve spertino del deserto; e le don ne possono scendere nella strada solo un giorno l’anno. Dopo un lungo errare per le buie gallerie si sbocca in una piazzetta cinta da altissime mura. In un angolo della piaz zetta c’è una nicchia, ed un vecchio vi sta accoccolato ac canto. Qui la fonte che dà vita all’oasi; da qui l’acqua è diretta a questo o a quel ca naletto, a questo o a quell’orto per chiuse che il vecchio am ministra, secondo antiche e minuziose regole di tempo e di turni. Letto 1596 volte. Nessun commentoNo comments yet. RSS feed for comments on this post. Sorry, the comment form is closed at this time. | ![]() | ||||||||||