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LETTERATURA: I MAESTRI: Prezzolini – Salvemini #24/29

22 Febbraio 2010

[da: Il tempo della Voce”, Longanesi & C. – Vallecchi, 1960]

18 settembre 1911

Carissimo,

avrai visto l’articolo del Torre sul Corriere, in cui cerca di togliere valore agli articoli della Voce, in cui è riassunta l’inchiesta sionista; e gli articoli del Bissolati e del Bonomi ispirati alle idee da me espresse, seb ­bene non abbiano ancora bene chiariti i loro punti di vista, perché non sono andati ancora a fondo.

Come vedi, l’opera nostra non è inutile.

La Voce deve essere il serbatoio delle idee per molti, che da sé non avrebbero idee e non hanno tempo o competenza per farsele.
Fra qualche mese cominceremo a dare le idee per la riforma elettorale. Ora è la volta di Tripoli.
Bisogna ogni settimana insistere su Tripoli.

Se ci sono amici della Voce, i quali credono che questa non sia coltura devono abbonarsi alla Farfalla o alle Cronache Letterarie.

Spero che nel numero del prossimo giovedì pubblicherai l’articolo sul Piazza. E nel numero dell’altro giovedì dovrebbe esserci la strigliatura del Torre. Io intanto vado rimuginando un altro articolo, intitolato: «La questione di Tripoli e il Partito Socialista ».

Nell’articolo sul Torre dovresti trovar modo di mettere in luce tutte le altre corbellerie giornalistiche di questi giorni. Bada specialmente al Corriere d’Italia. Il centro del movimento è al Banco di Roma. Bisogna non lasciare inosservata nessuna delle mosse del Corriere d’Italia.

Se non puoi fare articoli organici, pubblica pure delle osservazioni isolate sulle corbellerie giornalistiche.
Sarebbe necessaria una carta della Tripolitania, e una dell’Africa settentrionale e centrale intera fino al Golfo di Guinea.

Sotto questa carta si potrebbero riprodurre tutte le corbellerie geografiche del Torre, mostrando che le parole del Torre, con le carte alla mano, non hanno senso. Sarò il 24 a Firenze.

G.   Salvemini

DI MANO DI GAETANO SALVEMINI

Caro Amendola,

leggi questa lettera prima di darla a Prezzolini.

G.   Salvemini

DI MANO DI GIOVANNI AMENDOLA

Caro Pr.,

ti rimetto una lettera di Salvemini a te diretta. Ti spiegherò su quello che gli avevo scritto. Potresti passare da me dopo colazione?

tuo G. Am.

Roma, 28 settembre 1911

Caro Prezzolini,

l’Amendola mi scrive:

« Parecchi amici, taluni autorevoli ed anche utili, della Voce non concordano in tutto col suo atteggiamento nella questione tripolina, ovvero si lagnano che si faccia troppa politica spicciola… »

E propone che ci sbrighiamo in breve delle corbellerie nazionaliste, salvo a pubblicare in seguito un numero unico.

Questo, che mi scrive l’Amendola, corrisponde a quanto tu mi scrivesti alcune settimane or sono: che, cioè, molti amici vorrebbero più coltura e meno politica.

Ora mi pare bene che noi chiariamo bene la nostra posizione.

Se gli amici autorevoli e utili, che non dividono le nostre idee, vogliono mandare alla Voce mille articoli seri e onesti per la conquista tripolina, seri e onesti almeno quanto quello dell’Ambrosini, che non era davvero gran che, nulla di male. Essi contribuirebbero ad illuminare i lettori sul grande problema nazionale presente. La Voce è fatta per chi vuole discutere sul serio, a qualunque ordine di idee appartenga.

Ma se questi amici, essendo favorevoli all’impresa tripolina, pretendono che la Voce non se ne occupi per non fare politica spicciola; oppure se trovano che non è « coltura » occuparsi di Tripoli, ed è coltura occuparsi di Picasso; e se quest’indirizzo deve prevalere nella Voce, io ti dichiaro nettamente che fino da questo momento mi distacco nettamente da voi.

Per me è più grande il delitto commesso spingendoci in Tripolitania, che non sia quello di far passare per patriota italiano Burlamachi o sporcare mezzo metro quadrato di tela futurista. Per me la coltura vera oggi consiste nel parlare di Tripoli. Tutto il resto oggi non è coltura, è letteratura. La stessa questione meridionale oggi è letteratura.

Io concepisco l’opera di un giornale di coltura reale e non letteraria in un modo solo: via via che si presenta un problema nazionale, discuterlo a fondo, a lungo, per creare la coltura nazionale.

Noi non possiamo in quest’opera di coltura fermarci dove vogliamo. Non possiamo scrivere due o tre articoli su Tripoli, e poi non parlarne più, salvo a pubblicare in seguito un numero unico inattuale. Noi dobbiamo continuamente dare una direzione agli spiriti, che leggono la Voce perciò. Non possiamo lanciare di tanto in tanto un articolo per fare della coltura, e poi non occuparcene più. Questo è sport e noi dobbiamo fare dell’apostolato continuo e sistematico.

Io non credo ancora alla guerra. Le azioni del Banco di Roma sono salite appena da 106 a 106,3/4. Se la guerra scoppierà, dobbiamo dichiarare che il paese deve ormai lasciare al Governo e al nazionalismo ogni libertà d’azione, affinché risultino ben chiare le responsabilità. Bisogna lasciar fare e tacere. Una sola cosa esigiamo: che si dica la verità. Per un solo motivo parleremo: per impedire che la stampa continui a mistificare il paese. Per combattere queste mistificazioni dobbiamo occupare magari tutti i numeri, se sarà necessario.

Chi preferisce occuparsi della divinità di Gesù Cristo, è padronissimo; ma noi non siamo con lui. Pubblicare oggi due articoli sul generale Covone e tacere nello stesso numero della Voce di ciò che più c’importa, è delitto.

Sembra a me che ci sia fra gli « amici della Voce » un duplice nucleo: gli uni si appassionano agli articoli, su Verbicaro e si divertono agli articoli su Picasso; gli altri si appassionano e si cazzottano magari per Picasso, e se ne infischiano di Verbicaro. In condizioni normali i due gruppi convivono pacificamente, perché c’è posto per tutti. Ma ora l’equilibrio è rotto. La faccenda tripolina, fra i grandi danni, avrà il vantaggio di avere dato a tutti il sentimento di ciò che sono. Nella Voce noi ormai non vediamo che uno strumento di battaglia attuale; non escludiamo la così detta coltura, ma vogliamo che compia oggi e finché durano le condizioni attuali una funzione sussidiaria; gli altri si impennano a questo straripamento di politica attiva (essi la chiamano spicciola) e invocano un ritorno alla « coltura », a quella maledetta coltura irreale e inattuale, che è stata la rovina d’Italia.

È evidente che non è possibile andare più a lungo insieme. Occorre intenderci e, caso mai, dividerci.

Venendo al sodo, ti dirò molto più pragmatisticamente come vedo le cose. Io ti mando con questa stessa posta un articolo su la Terra promessa di Piazza; e poi spero di mandartene l’altro su Torre; e poi… non si sa.

Se tu credi di mettere da parte questi articoli, perché pieni di corbellerie, io non ho nulla da ridire. Se invece di pubblicare essi, pubblichi, fin che dura lo stato attuale, articoli per la conquista tripolina, poco male: quel che occorre è che il problema sia sentito e discusso come il problema unico vero di oggi. E in tutti e due i casi io continuerò a collaborare alla Voce.

Ma se, invece di pubblicare articoli su Tripoli, la Voce fa della « coltura » semplice, pubblicando articoli su qualche vecchio ignoto generale ambrosiniano, o magari sul suffragio universale o sulla questione meridionale, che oggi sono letteratura, io ti prego di considerarmi come uscito dal gruppo degli « amici della Voce ». Continueremo a rimanere amici personali. Ma non potremo più collaborare a un’opera comune. E ti pregherei, in questo caso, di non pubblicare nulla dei manoscritti miei che tu hai, e di rinviarmeli.

Ho pensato ventiquattr’ore prima di scrivere questa lettera. Oramai io non ho più nulla di comune col Partito Socialista; e non aspetto che un’occasione dignitosa per staccarmene ufficialmente. Pensavo di trovare nella Voce un gruppo di uomini, che mi facessero obbligo di continuare a lavorare fra gli altri, mostrandomi la possibilità e perciò il dovere di un lavoro associato, cioè del solo lavoro oggi utile. Se dovrò riconoscere che neanche gli uomini della Voce appartengono a quel tipo umano, a cui posso associarmi, o che fra essi noi siamo troppo pochi per poter agire con speranza di utilità pratica, io mi ritirerò a vita privata. Cercherò di essere utile al paese con la produzione scientifica. Finché ho speranza di essere più utile altrimenti, devo rimanere al mio posto, a qualunque patto, sacrificando le mie preferenze personali. Se la possibilità di un’azione politica e morale efficace mi vien meno, e io mi sento solo, allora nasce in me un nuovo dovere: non sperperare quel po’ di forza che ho in fatiche vane, rinchiudermi nella cerchia dei doveri individuali e cercare di compiere più intensamente l’opera scientifica da cui l’attività politica continuamente mi distrae.

Va da sé che se pubblichi altri miei articoli tripolini, sei padrone di mettere la mia firma o quella della Voce.

Ti prego di non pubblicare niente altro, finché non sia chiarita la posizione.
Prego Amendola di mandarmi l’articolo del Torre.

Qui si dice che Bollati, segretario generale del Ministro degli Esteri, conoscitore profondo della questione balcanica, era avverso all’impresa; ma di San Giuliano e di Scalea han preso la mano.
Qui son tutti tripolini. Io non vado all’Aragno per non far cattivo sangue, e non sentire troppe corbellerie.

Ti abbraccio

Tuo aff.mo

G. Salvemini

Corso Vittorio Emanuele, 315

Vedrai nell’articolo che dimostro matematicamente che il Piazza ha falsificato la relazione Medina.

 

Molfetta, 6 ottobre 1911

Mio caro Prezzolini,

se mi allontano dalla Voce, è evidente che devo spiegare il mio allontanamento. E allora non potrò spiegare perché mi divido da voi, se nello stesso tempo non spiego che non ho nulla da fare neanche col Partito socialista.

Ad aspettare, non si perde nulla. Ci perdo tutt’al più qualcosa io, che frattanto posso essere sospettato di complicità col Turati. Ma è roba che passerà. Ne ho viste di peggio.

A me pare che né tu né l’Amendola vi rendiate conto chiaro della gravità del dissidio. Ci sono due questioni: quella del nostro atteggiamento sulla questione tripolina, e quella dell’indirizzo generale della Voce.

Certamente sulla questione tripolina noi (dico noi : cioè tu, io, Amendola, quelli fra noi che trovano quest’argomento più importante dei meriti del generale Govone) dobbiamo dichiarare che il paese deve oramai lasciar libertà assoluta al Governo, quali che siano le nostre opinioni sulle origini e sulla utilità e sui pericoli dell’impresa. In questo senso, l’ultimo articolo dell’Amendola è magnifico.

Ma non basta. Qui dove il dissidio comincia.

Voi vorreste fermarvi qui, considerando recriminazioni, o storia, ogni documentazione delle bugie e delle falsificazioni che ci han condotto a Tripoli. Io affermo che dobbiamo occuparcene in ogni numero, per sfrondare le illusioni, per dare ai nostri lettori il senso della realtà vera, pur continuando a dire che quale che sia questa realtà, al punto a cui sono le cose, l’Italia deve agire vigorosamente e seriamente per uscire con dignità e profitto dall’attuale situazione militare e diplomatica.

A Roma io ho parlato con molte persone, intelligenti e indipendenti. Tutti sono per Tripoli, perché tutti credono che Tripoli sia l’Eldorado. Noi possiamo dimostrare che ciò non è vero. Possiamo dimostrare che il carteggio Rohlfs-Crispi-Camperio è falso. Possiamo dimostrare che le grandezze del Piazza sono una falsificazione della relazione Medina. Possiamo dimostrare che gli articoli del Torre sono una falsificazione di un opuscolo di Goffredo Jaia. Questa non è storia. Questo è domani. Poiché le falsificazioni continuano (interviste Pantaleoni, …) e continueranno. Con esse ci hanno spinto a cominciare. Con esse pretenderanno continuare. Mentre occorre, se ce la caviamo bene dall’intrigo diplomatico e balcanico, ridurre al minimo i danni locali dell’impresa, fermandoci ai punti più adatti della costa, non inoltrandoci se non dopo avere sul serio studiato il paese, rifiutando ogni prestito o spesa che dissangui l’Italia per arricchire la Tripolitania, i tripolini lavoreranno per spingerci all’interno. Il successo primo li inorgoglirà. E continueranno a mentire ricchezze che non esistono.

E viceversa noi dobbiamo parlare e dire la verità: 1) affinché in caso di insuccesso appaiano bene le responsabilità; 2) affinché in caso di successo militare e diplomatico il paese stabilisca a ragion veduta il suo programma d’azione laggiù. Bisogna parlare subito, mentre si combatte, per preparare gli animi. Le idee non s’improvvisano dalla sera alla mattina. Se la falsificazione del carteggio Crispi l’avessimo scoperta e dimostrata venti giorni or sono, oggi non ci sentiremmo continuamente citare nelle discussioni private l’autorità del Rohlfs. Se diciamo « finché si guerreggia, dobbiamo tacere », non parleremo mai; perché si guerreggerà per un pezzo. Dopo i turchi verranno i senussi e gli arabi, contro i quali andremo a dar di cozzo, se lasceremo che i giornalisti continuino senza controllo a far vedere che il paese è favolosamente ricco e che pericoli non ce ne sono. Ci s’è messo, ora, anche Boncinelli! L’impresa ha potuto iniziarsi, perché tutti hanno taciuto. Non si fermerà, al momento opportuno, se tutti continueremo a tacere sol perché « il dado è tratto ».

Bada: io non dico che la Voce debba prendere posizione. Dico: lasciate che prenda posizione io, sotto la mia responsabilità. E se alcuno fra voi crede che io abbia torto, mi combatta sulla Voce. Discuteremo: studieremo. Quel che non posso inghiottire, è che io debba tacere: cioè debba rendermi complice silenzioso delle falsificazioni altrui.

Se vi fosse un altro gruppo, a cui potessi unirmi, io parlerei su un altro giornale, sotto la mia responsabilità personale. Ma non esiste giornale che io ne reputi degno, che io ci scriva su. La Voce era il solo giornale, in cui mi sentissi a mio agio. Ma oggi una parte degli amici della Voce trova che io devo tacere su ciò che credo più urgente dire: essi trovano più opportuno occuparsi dei cipressi di San Guido che di Tripoli. Io taccio, ma taccio del tutto. E con questo arrivo al problema più generale.

La crisi tripolina non è che il momento saliente della crisi generale della Voce. Sì, tu hai ragione: i gruppi della Voce non sono due, sono dieci, sono venti; siamo tutti persone in margine dei gruppi. Ma questa vigilia d’armi non può essere eterna. Sentiamo tutti, dopo tre anni di schermaglie, il bisogno di conchiudere, di passare a un’azione, di essere un gruppo. Questa è una crisi. Occorrerà che a un certo punto alcuni di noi si dividano dagli altri. Anzilotti dice: poniamo due, tre idee, ed agiamo. Molti diciamo così. Altri pensano che si debba continuare come nei tre anni passati; non vogliono classificarsi; trovano che la politica non merita le loro cure; vogliono ricercare solo una morale letteraria e filosofica: un articolo critico del Marzocco, fatto a base di soffietti e d’adulazioni, li invita di più che la elezione di Gioia del Colle. La cattedra di Guglielmo Ferrero ha per essi più importanza che la conquista della Tripolitania. Tu e Amendola cercate di conciliarci.

Ma la conciliazione è impossibile oramai. Lo stato d’animo di questi tre anni passati è superato. La Voce non può essere più quella che è stata prima, appunto perché finora è stata quella che è stata. Occorre dividerci. Io oramai non concepisco più la Voce che come un giornale settimanale di problemi politici, una specie di Critica Sociale di venti anni or sono, in cui la critica letteraria e fìlosofica faccia da contorno, da ornamento, da puntello ad un’azione politica determinata. Gli altri la considerano come una continuazione del Leonardo.

Bisogna deciderci. Cioè tu, che sei il direttore della Voce devi decidere. È evidente che se ti decidi per noi, la Voce perderà degli abbonati e degli amici sostenitori; sarà nostro obbligo sostituire gli assenti. E viceversa, se piegherai verso l’altro gruppo.

Fui ieri e ieri l’altro da Giustino Fortunato. Volevo consigliarmi con lui. Egli approva il mio modo di vedere. Ma trova che la cosa si può conciliare, raddoppiando il formato della Voce, in modo che ci sia posto per tutti. In questo senso scrive il Croce. Rimase assai turbato a sentire che vuoi abbandonare la direzione della Voce. Pensa che si potrebbe provvedere a sostituirti con due direttori: Amendola per la parte letteraria filosofìca, io per la politica: mezzo giornale per uno. Ma ho l’impressione che il Fortunato non si renda conto del centro delle cose. Io, per conto mio, non avrei difficoltà ad accettare qualunque generale Covone e qualunque Cipresso di San Guido, purché ci sia tutto il Tripoli che è necessario. Il guaio è che mi pare che il Tripoli debba essere soppresso, secondo una parte degli « amici della Voce »: e qui è il punto.

Sì; la Voce deve essere organo di coltura e studio. Ma in che senso? Io penso che, via via che si presenta un problema nazionale, tutti quelli fra noi, che ne sentono la voglia e la capacità, debbono studiarlo sul serio, e pubblicare i resultati degli studi. Non saremo d’accordo? discuteremo. Ma tacere, mai, mai, mai. E più attuali saranno i problemi, meglio sarà. Noi dob ­biamo fare la politica spicciola a base di coltura e di studio. Invece, una parte degli amici vuole escludere la politica spicciola. Ecco il punto.

E tu devi decidere. E finché non decidi, io sento il dovere di astenermi.

Dal partito socialista sono oramai irrevocabilmente diviso. Lo avrei detto sulla Voce se avessi potuto scrivervi tutto ciò che voglio. Se io ho da dire due cose, e voi mi permettete di dirne una sola, è evidente che quella sola diventa una bugia.

Anche Bellonci sul Giornale d’Italia scrive contro il protezionismo delle cooperative. Ma se volesse scrivere contro il protezionismo degli zuccherieri, il Giornale d’Italia glielo impedirebbe. Ergo gli articoli contro le cooperative sono una bugia.

Io sento che mentirei se mi limitassi a scrivere solo contro il partito socialista. Non potendo dir tutto, non dirò niente.

Tu dici: devi fare un piccolo sacrifizio. Dio mio! vorrei farlo anche grande. Ma ci sono sacrifici, grandi o piccoli, che non sono leciti. E io non posso sacrificare il nucleo centrale della mia individualità.

Io ti assicuro che staccarmi dalla Voce sarà per me un dolore infinito. La Voce è un po’ anche cosa mia. Ma col mio dovere non posso transigere. E il mio dovere oggi è : o parlare sempre, in ogni numero, di Tripoli, finché non abbia vuotato il sacco, o non parlare di nulla.

Non credo che farò nulla per conto mio, se mi staccherò dalla Voce. Mi sentirei vinto. Il mio distacco dalla Voce sarebbe la rovina di quel mondo che cominciava a nascere in me, mentre cadeva l’altro. Mi sentirò davvero solo: e quando si è soli, si preferisce tacere. Mi raccoglierò in me stesso, studierò per un paio d’anni; rielaborerò la mia coltura: poi si vedrà.

Per la Libreria, se credi, posso far sempre parte del Consiglio d’Amministrazione. Ma opuscoli non ne faccio. Non faccio più nulla. Mi chiudo in casa, e rinunzio alla vita pubblica. Andrò a Roma per il processo d’Albano. E poi mi farò frate o… quasi.

Sono stanco e non ho più voglia di nulla. Quando credevo che tre anni di lavoro sulla Voce stessero per produrre i loro frutti, vedo che forse avevo lavorato nell’arena. Sono bastati pochi articoli falsificati di giornali quotidiani per disorientarvi. E vi devo dare l’impressione di un testardo e di un mulo.

Bisogna aver pazienza. Il mondo è fatto così. E io sarei stolto se pretendessi mutarlo, essendo solo. Per fortuna ho ancora lo studio, che stende le braccia. Forse qui non troverò né i disastri che ho trovato nella vita familiare, né i disinganni che ho trovato nella politica.

Va da sé che le spese per gli articoli  composti e non stampati vanno a mio carico. Ti abbraccio,

tuo

G. Salvemini

Questa lettera vale anche per Amendola.


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Bart