di Felice Muolo
(Ha pubblicato cinque romanzi, tra cui Il ruolo dei gatti, Azimut, 2008)
Il paese vecchio sorgeva sul mare: un labirinto di case, chiese e strade lastricate prive di marciapiedi. Il paese nuovo si estendeva a scacchiera verso le colline, con strade asfaltate corredate di marciapiedi. Entrambi erano dipinti a calce.
Abitavo al primo isolato a sud, al confine tra le due parti. Sotto il pavimento di casa, c’era una cisterna in cui finiva l’acqua piovana. Qui mia madre gettava la palla di turno quando io, i miei fratelli e nostro cugino giocavamo in casa. Mio padre ogni tanto vi buttava un capitone affinché mangiasse piccoli vermi rossi che si formavano nell’acqua. D’estate, la cisterna era quasi sempre al secco e l’acqua si attingeva dalle fontane pubbliche trasportandola a braccia con anfore di rame zincato.
Tornando a casa all’imbrunire, i carri trainati da cavalli, muli e asini sostavano davanti casa, dove iniziava l’asfalto. I conducenti scendevano da cassetta e infilavano scarpe di gomma ai quadrupedi, affinché non scivolassero sulle strade del paese. Sotto alcuni carri era legato un cane, da tutti penzolava una lampada a petrolio. Spesso gli animali approfittavano della fermata per scaricarsi gli intestini. Alcuni di essi sfoderavano lunghi, turgidi sessi che stupivano me, i miei fratelli e nostro cugino seduti sul marciapiede a goderci lo spettacolo.
I miei nonni abitavano al secondo piano del mio stesso stabile. Il suo portoncino aveva il battente molto in alto. Quand’era chiuso, lo prendevo a pugni e a calci per farmi sentire in casa. Con una poderosa spallata si apriva anche. Non avevo ma visto una chiave girare nella sua toppa.
Di sera tardi, rientrato dall’osteria, nonno sedeva sui due gradini davanti ad esso. Fumava l’ultimo sigaro della giornata, prima di decidersi ad affrontare le scale. Io, i mie fratelli e nostro cugino spesso lo tiravamo per le braccia e lo spingevamo da dietro nella salita.
L’orto in cui lavorava mio padre era dietro lo stabile. Qui mia nonna allevava quattro cinque galline e un gallo. Ogni giorno, al tramonto del sole, per evitare che i ladri li rubassero, io, i miei fratelli e nostro cugino acciuffavamo gli animali assonnati, li ficcavamo in una cesta di vimini e li trasportavamo nel retro del portoncino. L’indomani mattina provvedeva mio padre a riportarli indietro. Batteva il gallo nella sveglia.
Ogni giorno, noi ragazzi rovistavamo nel cumulo della spazzatura del mulino della farina che sorgeva nel nostro quartiere. Scartando topi morti, cartacce e cicche, recuperavamo pezzi di spago che nostro nonno usava per la manutenzione della scala di corda che affittava agli imbianchini.
Il fiore all’occhiello del paese era la piazza. Non dove si vendeva il pesce, né quella della frutta ma l’altra, la più grande, dove si passeggiava. Uno stradone la sezionava in due parti rettangolari contornate de due file di alberi. Al centro di una c’era il monumento dei caduti, nella seconda una fontana.
Il cinema era qui di fronte. Io, i miei fratelli e nostro cugino la domenica ne aspettavamo l’apertura davanti all’ingresso. Era stato una stalla. Nonno sempre lo ripeteva. Mio padre precisava che lo era ancora. Lo frequentavano pescatori, calzolai, barbieri, falegnami, muratori, contadini, malandrini, spazzini e ragazzini. Donne e impiegati, nessuno. Durante la proiezione dei film, gli spettatori mangiavano e bevevano di tutto, lanciando rifiuti addosso a chi capitava. Parlavano ad alta voce, si azzuffavano, ruttavano, scoreggiavano, bestemmiavano, si prendevano a scoppole, fischiavano, applaudivano e dalle file dei sedili più in alto facevano partire rivoli di piscio.
Noi ragazzi vedevamo minimo tre volte il film ogni volta, sperando che spettatori in piedi, stufi di esserlo, ci comprassero i posti.
Commenti
3 risposte a “Il paese”
In uno struggente sottofondo di nostalgia, ritorna il passato quasi in un gioco lirico. Esplicito è il recupero della memoria, che rivede angoli del paese, affetti, rapidi e vividi passaggi. Momenti carichi di vissuto, che divengono tempo, amore e luce
proiettati nell’animo ricettivo.
Vien fatto di pensare che, forse, quella vita, pur dura, ma semplice e genuina, avesse un grande significato umano a raffigurare la parte vera dell’essere e ad agganciare una dimensione più serena
Gian Gabriele
Hai centrato il mio pensiero, G. G.. Grazie per l’acuto intervento.