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LETTERATURA: Il Paese di Lucy e dell’Arca dove la colonna Arimondi perse la vita

8 Gennaio 2009

di Nicola Dal Falco

Addis Abeba – Lucy riposa in una vetrina del Museo archeologico di King George Strett. Le ossa della femmina di Australopithecus Afarensis, umana prozia di 3.500.000 anni fa, morta lungo le rive del fiume Awash, sono adagiate su un tappeto di fine pietrisco.
Questa familiare “parure” di vertebre, costole e tibie è una delle prove del passaggio delle scimmie allo stato eretto, chiave dell’evoluzione umana. Un tesoro senza prezzo, strappato allo scrigno della Rift Valley, la gigantesca fenditura che corre dal golfo di Aden al Bostwana.
Non è l’unica certezza offerta dal piccolo museo, ma é certamente la più toccante. Osservare Lucy senza faccia e senza piedi dà qualche brivido: un metro e dieci per 27 chili di fragilità e determinazione. Il nome, preso in prestito dal repertorio di canzoni dei Beatles stempera la retorica, ma aggiunge, inevitabile, quel tratto di malinconia che presiede alle umane vicende, anche le più remote. Lucy è morta a trent’anni, il doppio della vita media di un ominide; sullo scheletro non ci sono tracce di denti o artigli: era semplicemente distesa per terra.
In un’altra stanza del museo, la statua di un’altra donna, scolpita in un sol blocco, ci riporta ad un tempo storico. Siamo nel V secolo a.C., nel Tigrai, la regione nord-orientale dell’Etiopia, a più stretto contatto con la Penisola arabica e l’Alto Egitto.
Seduta solennemente in trono, le membra massicce e gli occhi spalancati, la donna ricorda certe figure di Mari, in Mesopotamia. Sul basamento si legge: per lui, Dio garantisce un figlio a Yamanat . E di una regina che fu amata dal grande Salomone e del figlio che nacque dobbiamo accennare prima di ogni altra cosa.  

L’upupa di Salomone

Un’upupa volò fino al palazzo di Salomone parlando a lungo del regno di Saba, da dove partiva la via dell’incenso e della mirra. Il re d’Israele, grazie alla sua sconfinata sapienza, conosceva anche il linguaggio degli uccelli e fu incuriosito dal racconto.
Alla regina, invece, bastarono le voci dei mercanti, gli aneddoti che si ascoltavano nel serraglio quando giungevano le carovane da nord, per desiderare di incontrare quel sovrano che sapeva sciogliere ogni enigma.
La regina partì da Axum con un numeroso seguito e preziosi doni. Il suo regno abbracciava, allora, le due sponde del Mar Rosso: il nord dell’altopiano etiopico e l’Arabia meridionale. L’incontro, di cui parla la Bibbia, avvenne intorno al mille avanti Cristo.
Secondo il Corano e alcune fonti leggendarie, Salomone, pur di sedurre la straniera, mise in atto una serie di stratagemmi, grazie ai quali al regno axumita fu garantito un erede maschio.
Sempre in base ai si dice, il bambino, diventato re col nome di Menelik I, riuscì a rubare dal Tempio di Gerusalemme l’Arca dell’Alleanza, dove oltre alle tavole dei dieci comandamenti si conservava la verga di Aronne, trasformata sotto gli occhi del Faraone in serpente e un po’ di manna. Tutte e tre concreti esempi della potenza di Dio. Va da sé che chi possiede questi straordinari talismani ha in mano il mondo.  

L’Arca perduta

Ricorrendo nuovamente al condizionale, risulterebbe che l’Arca perduta sia tuttora ad Axum, nella chiesa di Santa Maria di Sion, un piccolo edificio, scrigno anch’esso, non lontano dall’area sacra dove i re del luogo venivano sepolti ai piedi di un grande obelisco. Cercare di convincere il prete di Santa Maria a dare un’occhiata è tempo sprecato; deve averlo già fatto il Mossad che di quel pezzo di archeologia e di storia universale continua probabilmente ad interessarsi.
Oltre ad essere la culla dei Salomonidi, l’Etiopia nascose a lungo le sorgenti del Nilo; due fatti straordinari a cui nel IV sec. d. C. se ne aggiunse un terzo. Fu il primo Paese ad abbracciare il cristianesimo grazie alla predicazione del siriano San Frumenzio. Con l’avvento dell’Islam, il regno di Axum rimase a lungo isolato, conservando tuttavia la fede.
Durante il Medio evo, in Europa, si diffuse la convinzione che alle spalle degli arabi fiorisse uno stato governato saggiamente dal Prete Gianni. Uno stato cristiano, di inesauribili risorse, in grado di attaccare da est, dividendo su due fronti le forze mussulmane. Partirono anche delle ambascerie e una lettera autografa dell’illuminato sovrano giunse   a Roma, in San Pietro. La speranza di un Paese ricco quanto giusto sopravvisse nel tempo e le sue coordinate si spostarono seguendo gli spazi ancora bianchi delle carte geografiche.
 

***

Il lago Tana – Lungo le sponde del lago sopravvivono grandi alberi isolati, spiccano nel vuoto coltivato che li circonda. Dove la riva è sabbiosa crescono i canneti e va a morire un’onda pigra e scura. In cielo, come a una parata aerea, scendono planando una dozzina di pellicani. Quando passano sopra il pontile l’aria è mossa da un lungo soffio. Saliamo su un cabinato tutto di ferro, una specie di vedetta con dei sedili a poppa, dove è teso un telo di canapa.
Si sta all’ombra e al fresco mentre usciamo dall’insenatura, puntando verso alcune isole e una penisola verdissime. L’estremità opposta del lago si confonde con l’orizzonte. Il grande piano d’acqua appena increspato rende la navigazione simile ad una traversata del deserto, superato il quale si arriva all’oasi promessa. La visita ha per meta due monasteri, uno aperto a tutti e l’altro interdetto alle donne. L’alone di sacralità che li circonda ha permesso alla natura di conservare una porzione di eden.
Ai lati del sentiero, che si addentra nella penisola, un gran rumore di frasche segnala, ogni volta, la scimmia più curiosa. L’umida volta verde protegge e ingrassa le pianticine di caffè, teneri germogli curati in orticelli rettangolari.
Il sentiero sale un po’ fino alla radura con le chiese dai grandi tetti a cono che bucano il cielo come seni. Dietro ciascuna porta, in una penombra circolare, appaiono gli affreschi con santi, angeli e re. Sono così affollati di figure dai colori accessi e i contorni netti che lo spettacolo si trasforma in danza o cavalcata, in un contrappunto di sguardi sbarrati e terremoti celesti. Intanto, sul sagrato di terra battuta, i preti copti sorridono senza vanità mentre i fedeli baciano la croce, stretta in mano.
Dopo Dega Stefanos l’isola di Dek appara ancora più misteriosa, dotata di vita propria, alimentata da una sorgente simbolica, benedetta dal divieto di ospitare donne e senza ormeggi sicuri. Il viottolo inizia ai bordi dell’acqua e sparisce subito nell’ombra più fitta. Alti sopra la volta compatta del bosco, volteggiano senza sosta decine di falchi, spiando i brevi voli delle colombe. Una mano divina, simile a quella dell’arcangelo Gabriele, vigila sul blocco di basalto in mezzo al lago.
Da Bahr Dar, sul lago Tana, con un’ora di pullmino e 40 minuti a piedi si raggiungono le cascate del Nilo Azzurro. Per la gente del posto è “l’acqua che fuma” mentre in Zambia chiamano le cascate Vittoria “il fumo che tuona”.
 

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Lalibela – Abbiamo lasciato Gondar, il suo passato tardo-barocco, il castello di Fasìladas, le terme che ricordano le delizie arabe di Siviglia   per volare a Lalibela. Il collegamento in Twin Otter prevede addirittura il servizio a bordo. Da una quota di mille metri, vediamo scorrere colline erose punteggiate di acacie, ma dove spunta una capanna, ogni metro quadrato di terreno fino al ciglio della scarpata è coltivato.
Secondo la tradizione, le dieci chiese monolitiche, scavate nel gres e scolpite a tutto tondo, furono costruite dall’imperatore Lalibela nella prima metà del XIII secolo.  

Templari in Etiopia?

Qualcuno ci vede lo zampino dei Templari e soprattutto intorno alla chiesa di Ghiorghis, a forma di croce, fioriscono straordinari racconti. La sua pianta, spesso, viene scambiata per la X delle mappe del tesoro. Il silenzioso custode mummificato, ladro o pellegrino, vi monta la guardia in una nicchia, con i piedi rivolti verso la porta d’ingresso. Forse, gli mancavano pochi passi per capire.  
Il grande re, dal canto suo, ha usato la roccia dell’altopiano come se fosse ceralacca, imprimendo per sempre il suo sigillo di signore e credente, ribadendo così l’esistenza di un vincolo sacro tra i re e il cielo.
 

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Adua – Per raggiungere la conca dove si svolse la battaglia ci vogliono circa due ore, percorrendo una strada bianca che a parte la polvere ha un fondo discreto e una tracciato regolare. Niente di avventuroso, quindi, ma si ha la netta sensazione di attraversare un paesaggio rimasto uguale da cento anni o forse mille. L’altopiano si allarga creando ampie terrazze solcate da valloni e letti asciutti di torrenti.
I colori vanno dall’ocra al verde, al marrone scuro delle rocce che formano picchi isolati. Là un dito puntato, qua mammelloni in fila indiana. Una scena solenne che a seconda della luce o dell’ombra incalzante può provocare un abbandono dolce e totale e un’altrettanto incontrollato timore.
Chissà se il mare di Lissa o i campi a Novara, tanto per restare in tema di sconfitte ottocentesche, hanno a volte la stessa eloquente, nuda bellezza. Probabilmente si, una battaglia persa apre il cuore alla pietà e insieme al valore del nemico riconosci la paura, dura esperienza, intimamente e subdolamente connessa al coraggio.
 

***

La colonna Arimondi – La vecchia guida del Touring, stampata nel 1938, piuttosto precisa nella ricostruzione della battaglia, durata dall’alba al tramonto del 1 ° marzo 1896 e costata 5.000 morti agli italiani   e 7.000 all’esercito di Menelik, fa cenno ad un sacrario.
Ci mettiamo a cercarlo in quattro, seguendo un uomo col fucile a tracolla che sale lesto a piedi nudi. Conosce i sassi del sentiero uno ad uno e lo scialle di cotone bianco in cui è avvolto lo fa sembrare ancora più leggero.
Dopo aver attraversato il fondo della valle, risaliamo i fianco del monte Raiò proseguendo verso destra in linea retta fino alla selletta. Il pendio è coperto da una ragnatela di muretti. Passiamo accanto ad una chiesa chiusa come un fortilizio mentre il cielo si carica di elettricità, profumando l’aria di erba bagnata.
In questo istante, due arcobaleni svettano sulla valle. Un’occhiata alle spalle, verso est, in direzione dell’Eritrea, punto di partenza della spedizione, l’avranno data anche i bersaglieri   e gli ascari della colonna Arimondi, quasi totalmente annientata, mentre salivano dietro agli ufficiali per lo stesso sentiero. Il loro sacrario è davanti a noi, un po’ prima del passo: il tumulo di sassi indica il luogo esatto dove iniziò e finì il corpo a corpo. Quel tipo di morte che scava nello sguardo dei combattenti fino all’ultimo reciproco respiro.


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1 commento

  1. Commento by Carlo Capone — 11 Gennaio 2009 @ 12:44

    Un grande affresco di viaggio dell’Etiopia. Colpisce quel senso del ritratto, alla maniera dei grandi viaggiatori dell’800. Ma Lucy non è stata scoperta in Tanzania? non pensavo che riposasse ad Adis Abeba

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