di Stefano Maleci
Da sempre, forse, e soprattutto a partire dalla novellistica antica di un Esopo o di un Fedro – senza voler sconfinare in quella extraeuropea del Pancantara o della tradizione africana – fino a quella sette-ottocentesca che occupa ormai una posizione stabile nella nostra letteratura per l’infanzia, gli animali sono stati mascherati da umani e gli uomini hanno loro prestato sentimenti, vizi e virtù da idealizzare o stigmatizzare: questo ne ha fatti personaggi fissi di una commedia, di una scena della vita in cui essi, contro ogni verosimiglianza, si muovono in comunione ed in armonia con i caratteri e gli spiriti nostri propri. Altri autori, a noi più prossimi nel tempo, hanno invece sottolineato un’ “autonomia”, un “essere altro” degli animali, collocandoli in un universo contiguo, spesso intersecato col nostro, ma pur sempre “diverso”, affascinante per il suo mistero e la sua ambiguità, e tutto da indagare, giorno dopo giorno, in un costante e silenzioso dialogo intimo: un nome fra tanti, ma indubbiamente significativo, potrebbe essere quello della francese Colette.
A metà strada fra il protagonista della favola (proverbialmente astuto, agile e sornione, esigente, egoista e vanitoso) e la splendida belva, compagna discreta ma dal profondo interiore, della letteratura e dell’arte primo Novecento, sta il “gatto” – che oserei dire “metamorfosi felina simbolista” – di Mauro Cristofani, uno scrittore e pittore la cui preziosità di uno Jugendstil immaginifico si unisce alla sensibilità, talora lievemente decadentistica e morbosa, per lo scavo psicologico.
L’autore pare instaurare un gioco sottile nei suoi racconti, che consiste nel portare il lettore a chiedersi: fin dove giunge l’ “animalità” di questi gatti e dove comincia il loro cosmo “superumano” o “transumano”, una sfera dalle labili comunanze con le persone, uno stadio di primigenia purezza sensitiva e sensuale? Ovviamente la domanda è destinata a rimanere senza risposta, sotto la continua metamorfosi, o meglio metempsicosi, di questi felini che filosofeggiano di amore e di sogni, che ambiscono a “sentirsi in perfetta sintonia con la natura e le cose” come saggi bonzi, ma che pur sono capaci di feroci vendette da Erinni bestiali.
Il gusto di esplorare le ragioni più recondite del comportamento di questi mici tutt’altro che domestici, il seguirne puntigliosamente le movenze e gli scatti umorosi, il tradurne la banale apparenza in gestualità dalla quasi spiritica evanescenza, fa di queste storie dei quadri sospesi fra il miniaturismo di un Klimt e la visionarietà di un Redon. Niente di meno ingenuo, dunque, della favola, sia nel contenuto che nello stile, dove la meticolosa oggettivazione ha proprio il sapore di un accostamento di tessere laminate o di tarsie complicate, anzi di cromatiche embricature alla Moreau.
Anche qui, come nei precedenti “Racconti fantastici”, lo scrittore dipinge eloquentemente ed il pittore parla visivamente: entrambi generano un lussureggiante mondo che sfugge alla razionalità ma che ben si coglie con l’affinamento dei sensi; la gustosità di tali brani, del resto, consiste quasi esclusivamente in una prova di continua sollecitazione sensoriale attraverso l’esperienza dell’immaginifico e del fantastico. Quasi sembra di poter avvertire, a compimento dei racconti, quell’ironico e ammaliante sorriso del gatto del Cheshire (ricordate “Alice nel Paese delle Meraviglie” di Lewis Carroll?) che ci invita a sognare e a far del sogno una nuova realtà.