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LETTERATURA: LIBRI IN USCITA: Carlo Bordini: “Non è un gioco – Appunti di viaggio sulla poesia in America Latina”, Sossella editore, 2008

8 Dicembre 2008

Prefazione: L’incontro con un’utopia.  

Nel mese di maggio dello scorso anno ho partecipa ­to al festival di poesia di Bogotà. Bogotà è la capitale della Colombia. Ci sono andato insieme all’amico poeta svizzero Vince Fasciani.  Prima e dopo sono stato alcuni giorni a Ginevra, con Vince. Vince fa il libraio a Ginevra. Questo piccolo libro è la descri ­zione di questo viaggio e di ciò che ho veduto. A parte l’incontro con Ginevra, città dolce e gentile, quello che mi ha impressionato è stato il soggiorno a Bogotà, l’esperienza del festival e la gente con cui ho parlato. Mi sono imbattuto in una società piena di gravissimi problemi (una guerra civile che dura da moltissimi anni, il traffico di droga) ma animata da una grande tensione etica per cercare di risolverli e, soprattutto, da una tensione etica che si avvale del veicolo della parola, della poesia, come uno degli strumenti necessari e portanti per rifondare la società. In Colombia la poesia è importante e non è avulsa dalla società. Forse sarebbe più giusto dire semplicemente che in Colombia la poesia è impor ­tante. Il resto viene da sé.
Sono rimasto commosso dall’attenzione che il pub ­blico colombiano riserva alla poesia, alla parola poe ­tica, dalla sacralità che viene attribuita alla parola poetica. Tutto questo mi ha colpito in modo partico ­lare perché vivo in un paese in cui la poesia, e in generale la cultura, sono relegate agli infimi livelli dei valori correnti e in cui la tensione etica è cancel ­lata, inesistente o dispersa, o comunque non trova canali per esprimersi ed è come paralizzata. L’idea che la poesia non è avulsa dalla vita ma può cambiare la vita mi ha colpito; anche perché si colle ­ga all’idea che la vita può essere cambiata, e che può essere cambiata senza volgarità, senza egoismo o vio ­lenza. Credo che dietro tutto questo ci sia qualcosa che non è meramente letterario ma che è soprattut ­to umano; mi ha colpito l’umanità e il calore della gente che ho incontrato.
Ho la sensazione di essermi imbattuto in un’utopia gentile e passionale. Devo confessare che tornato a Roma ho provato un senso di fastidio. Quando mi sono trovato all’aeroporto di Ginevra, al gate di imbarco per l’Italia, quando ho sentito di nuovo quell’italiano televisivo, pronunciato da quella gente composta, indifferente, (diffidente) e senza sorriso, mi è dispiaciuto di dover tornare. Mi sono accorto soltanto in quel momento di qualcosa a cui nel viag ­gio mi ero ormai disabituato: la freddezza dei rap ­porti tra le persone, la mancanza di un sentimento di solidarietà e di interesse.
Durante il mio soggiorno a Bogotà mi sono propo ­sto di far conoscere la realtà che stavo vivendo. Ho cominciato con articoli di giornale, e successiva ­mente mi è capitata l’occasione, e per questo devo ringraziare la sensibilità di Luca Sossella, di scrivere questo piccolo libro. Questo libro è composto prin ­cipalmente di materiali che potrebbero servire a riflettere. Credo che conoscere questa realtà possa essere utile e interessante sia per chi pratica la poe ­sia sia per chi non la pratica. Questo libro non è dedicato soltanto agli amici che scrivono poesie. Le utopie non si realizzano mai. Esse però servono o possono servire a camminare a testa alta e per vie relativamente rette. E inoltre possono servire a non affogare nelle paludi dei programmi televisivi e delle varie isole dei famosi.  

Voglio aggiungere qualcosa. I rapporti con Laura Ceccacci e col poeta argentino Ariel Madrazo mi hanno fatto capire che la realtà che tanto mi aveva appassionato non era circoscrivibile all’area della Colombia, ma che questa area doveva essere allargata. In questo piccolo libro ci sono anche delle testi ­monianze che riguardano l’Argentina, il Messico, e anche la Spagna, una realtà cosi vicina e oggi tanto lontana tra noi. Ma c’è qualcosa di più. Recentemente guardando il blog dell’italianista Oli ­vier Favier, persona molto sensibile e molto attenta, che conosce la letteratura italiana molto meglio di me, mi sono trovato sotto gli occhi le parole di Paolo Rumiz a proposito del suo libro Il poema dei monti naviganti: “Ero partito per fuggire dal mondo, e inve ­ce ho finito per trovare un mondo: a sorpresa, il viag ­gio è diventato epifania di un’Italia vitale e segreta… la montagna – pur essendo la spina dorsale del paese – è totalmente scomparsa, guarda caso con la Resi ­stenza, dalla politica e perfino dall’immaginario nazionale… dietro ogni alluvione, dietro ogni siccità, dietro ogni emergenza climatica, non vi è solo l’ef ­fetto serra, ma anche la guerra sistematica del pote ­re contro le periferie più vitali…”. Queste parole mi hanno fatto chiudere un cerchio, mi hanno fatto prendere coscienza di qualcosa che già sapevo, e di cui avevo anche scritto, ma che non sapevo: le periferie sono oggi molto migliori del cosiddetto centro. Non solo in Italia, ma anche a livello globale. E allora ho capito le ragioni del mio malessere e della mia nostalgia. Anch’io vengo da un viaggio e come i viaggiatori di una volta porto un messaggio: quello che ho visto. Senza forse averlo capito del tutto. Questo libro è composto in fondo da una serie di materiali su cui riflettere. D’altronde, con tutte le tonnellate di carta stampata e con le miriadi di immagini che abbiamo, di queste cose qui non si sa nulla. C’è bisogno di un messaggero che sia stato lì e che porti le notizie a voce, perché, con tutti i mezzi di informazione che abbiamo, che servono soprattutto a depistarci, vivia ­mo nell’ignoranza più completa. Globalizziamo dun ­que il bene, dato che il male e l’ignoranza sono già globalizzati. Anch’io voglio dire dunque che sono stato in un luogo alla periferia del mondo e l’ho tro ­vato disperato, pieno di immensi problemi, ma più forte e migliore del nostro. E soprattutto dotato di una vita culturale, e quindi di una vita spirituale, e quindi affettiva, e quindi di una fantasia e di una capacità di immaginare, e quindi di progettare nuove soluzioni, maggiore di quella che noi oggi abbiamo. Si direbbe che la cultura sia viva e necessaria nei paesi in difficoltà del mondo, che quella di oggi sia una cul ­tura della crisi. Più seria. Più profonda. Più etica. Penso in questo momento ad altre periferie: penso al giovane cinema rumeno di Cristian Mungiu, vincito ­re della Palma d’Oro al festival di Cannes, di Tudor Giurgiu e altri. Mi viene alla mente un paragone colla breve e gloriosa stagione del cinema neorealista in un’Italia disastrata. Penso, al limite, ai tentativi che sono stati fatti negli anni Settanta in Italia per una maggiore diffusione della poesia. Le periferie del mondo sono più vitali e resistenti di noi? Hanno una verginità che noi non abbiamo più? Abbiamo qual ­cosa da imparare? Io ho l’impressione di sì. O forse il fatto è che noi siamo in realtà un centro fittizio, morto, non propulsivo; forse chi sta veramente al centro del mondo ha un altro punto di vista: per que ­sto, per esempio, e senza volermi troppo dilungare, il Sessantotto è nato a Berkley, il movimento No global è nato a Seattle e un romanzo come Pastorale ameri ­cana di Philip Roth ci dà veramente il senso della crisi della civiltà del pianeta.
Mi vengono in mente parole simili dette da persone, credetemi, molto diverse tra loro, eppure cosi conta ­minate insieme in una comune utopia: Fernando Rendí³n, il direttore del festival di poesia di Medellin, ha detto in un’intervista, parlando della Colombia: “Siamo convinti che non ci saranno presente né avve ­nire possibili senza la poesia. La poesia è la vita di tutti, misteriosa e aperta, che ci invita a immergerci in noi stessi e negli altri, che siamo anche noi”. E Pedro Vila mi scrisse in una lettera, della “Speranza che arrivi un giorno in cui non ci sarà tra gli uomini altro governo che la grande poesia”. A noi queste idee possono apparire pazzesche. Appunto.
 

Carlo Bordini

 

(www.lucasossellaeditore.it)


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