LETTERATURA: Scrittori Lucchesi: Guglielmo Petroni: “La casa si muove”
2 Gennaio 2009
di Bartolomeo Di Monaco
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Guglielmo Petroni non ha mai dimenticato Lucca, la sua città, dove è nato in una casa vicino alle Mura, non molto distante da dove sono cresciuto io. E infatti, sebbene di un’altra generazione, la sua vita di ragazzo, descritta nei romanzi, non è stata dissimile dalla mia. Erano i tempi in cui, fino alla metà degli anni ’50, le trasformazioni sociali andavano a rilento. In molte sue pagine rievocative mi sono, dunque, ritrovato. Lucca ha dedicato allo scrittore la “Terrazza Petroni”, che si trova appena fuori delle mura della città, in località Monte San Quirico, proprio davanti al fiume, a cui dedicò il libro malinconico: “La morte del fiume”, del 1974. Il romanzo che dette celebrità a Petroni, considerato il suo capolavoro, fu “Il mondo è una prigione”, del 1949, che rievoca la prigionia di via Tasso e i drammi della guerra. Fuggito miracolosamente, farà ritorno a Lucca, narrandoci di quel lungo viaggio.
“La casa si muove”, uscito l’anno successivo, nel 1950, è un romanzo pressoché dimenticato, come altri suoi.
Un bombardamento ha fatto cadere la facciata di un edificio adibito ad albergo e le stanze vengono messe a nudo “come gli scompartimenti di una libreria”, così che la poca gente radunata nella piazza, colma di macerie, si accorge che un uomo sta ancora dormendo nel suo letto. Com’è possibile? Ma si sveglia, si alza, si guarda intorno, vede davanti a sé la gente che lo sta guardando. Non si scompone, si veste, apre la porta della stanza per uscire, ma evidentemente le scale non ci sono più. Così, si affaccia sulla piazza e chiede, senza mostrare alcuna emozione, se qualcuno possa aiutarlo a scendere. Accorreranno i pompieri e l’operazione si concluderà felicemente. In questo modo davvero insolito e brillante, facciamo la conoscenza con Ugo Gattegna, che è l’uomo che tutti hanno visto svegliarsi imperturbabile nella sua cameretta in rovina.
La scrittura di Petroni non ha bisogno di molte presentazioni, già rivelatasi superba nel suo capolavoro. Nitida, controllata, mai sterile, capace di suscitare vibrazioni ed emozioni appena sussurrate: profonde, tuttavia. Ogni parola lega insieme un sentimento, un fruscio, una tenerezza, l’alito di un pensiero. Ciò che in Tobino è irruento, sanguigno, in Petroni ha la lievità di una carezza.
Ugo è un taciturno, lo è sempre stato. Anche il padre lo era. Conosciamo il suo carattere dai ricordi di Cesira, la vecchia governante che gli ha fatto da balia, e che vive nella “Casa Grande”, al servizio dei Gattegna, da quando era bambina. Ha dedicato la sua vita a loro. Anche Ugo ricorda. Ricorda soprattutto l’infanzia, i suoi amici Luisa, Gianni, Rafaele (non Raffaele, ma Rafaele) e il momento del suo abbandono degli studi, sebbene a scuola risultasse il migliore. Aveva preferito tornare a vivere in campagna, dove sentiva che sarebbe stato più a suo agio, amante della solitudine. È un uomo pigro, forse rassegnato, un Oblomov dei nostri giorni: “Ugo non legge mai le poche lettere che gli sono indirizzate; il sabato, assieme alla minestra tornano sotto i suoi occhi posate sulla tovaglia ed egli tutt’al più, mentre mangia, dà uno sguardo alle buste piegando la testa tra un boccone e l’altro, qualche volta arriva perfino a rovesciarle per vedere se dietro vi è scritto il nome del mittente, ma le lascia lì sulla tovaglia, ed infine vanno a finire in un cassetto dove ve ne sono altre ancora intatte che vi dormono da anni.” Non dà mai ascolto al suo fattore, Baccelli, che riceve e intrattiene sempre distratto, con la testa altrove, il quale si consola andandosi a lamentare da Cesira, dicendole ancora una volta che tutto va a rotoli. Ugo non legge i giornali, che pure fa acquistare. Si limita a sbirciare quel tanto di titolo “che permetteva la piegatura in quattro.” Siamo nel periodo fascista, e Ugo è nauseato dal leggere ed ascoltare sempre le stesse frasi, gonfie, retoriche, vuote. Petroni non si è lasciata, dunque, alle spalle la guerra, appena terminata. Come in tutti, anche in lui, ma in lui ancora più profonda per la sua sensibilità di artista, la ferita sanguina, non rimarginata. Tornato a casa dalla prigione di via Tasso, la sua mente è ancora prigioniera dei terribili ricordi.
Ugo un giorno riceve una lettera. Gliela scrive da Bologna uno dei suoi compagni di infanzia: Rafaele Rachini. Legge il nome del mittente e decide di aprirla, questa volta. Gli aveva già scritto, Rafaele, ma lui non ha mai risposto. Ora è urgente che lo faccia. Gianni, l’altro compagno d’infanzia, “ha bisogno di un posticino tranquillo nel quale starsene lontano da tutto e da tutti per un po’ di tempo”. Hanno pensato alla sua casa in campagna. Ugo fa spedire da Cesira un telegramma: “Che Gianni venga.” Nel disegnare il protagonista, Petroni continua ad avvolgerlo di quella mollezza e di quella indifferenza che ha contraddistinto e reso celebre Oblomov, il protagonista dell’omonimo capolavoro di GonÄarov.
“Vivo come un animale”, “Non so nulla, proprio nulla”, “Stupido!” sono le sue sintetiche considerazioni quando inizia la giornata. Non ha pensieri, ma solo sensazioni: “sarà saggio smettere di chiamare pensieri tutto ciò che si muove dentro di lui.” Nato “ricco e fortunato” (“quando ero ragazzetto avevo il maestro in casa e mia madre mi seguiva negli studi con molta cura”) vive nell’indifferenza più assoluta il degrado del suo antico benessere. Il paragone con Oblomov, in questo inizio, è spontaneo e imprescindibile. L’attesa che Petroni suscita nel lettore è quella di scoprire se la guerra che si combatte sanguinosamente in tutta Europa riuscirà a penetrare nella sua Grande Casa, e scuotere la sua apatia. Mentre in Oblomov, l’apatia è rivolta nei confronti di una società, quella di Pietroburgo, che non lo attrae, anzi lo induce a rinchiudersi sempre di più nella sua indifferenza, qui siamo al cospetto di un’immane tragedia, quale è stata la Seconda guerra mondiale (“una guerra grande come è impossibile immaginare”), che ha mostrato il volto di un nuovo demone sadico e crudele, spietato come non mai. Il romanzo si configura, dunque, come una sfida all’uomo, forse proprio ad alcune tra le sue inclinazioni peggiori: l’estraniazione dagli altri, l’indifferenza, il possesso vorace di una solitudine esclusiva ed egoista.
Allorché giunge Gianni, egli lo accoglie, ma senza quell’entusiasmo che l’amico si aspettava. Pur muovendosi con discrezione per la casa, Gianni, tuttavia, non immaginava “di essergli invece presente per la maggior parte del tempo.” Quando Gianni vede il mucchio di lettere non aperte e gli domanda perché non le legga, Ugo non risponde, ma dice: “Puoi prendere il giornale se vuoi: ma fa tutte queste cose senza che io debba dirtelo.” Anche la conversazione tra i due è stentata: “Quando stavano così vicini senza saper di che cosa parlare, Gianni ogni tanto accennava ad un sorriso benevolo non privo di un certo impaccio, ma nell’amico incontrava la fredda carezza dello sguardo grigio e vellutato, allora volgeva la testa verso la vetrata dietro la quale si scorgevano gli alberi del giardino.” Passano vicino alla casa convogli militari. Poco prima che Gianni arrivasse, due tedeschi si erano addirittura fermati a chiedere un po’ di vino. Gianni non sopporta quell’indifferenza in una situazione così pericolosa. Un giorno lo rimprovera: “è mai possibile che tu non ti renda conto di tante cose che succedono?” La risposta di Ugo è significativa e dà la svolta e il significato al romanzo: “Senti, tu sei come in casa tua e se c’è qualche cosa di cui hai bisogno dimmelo. Che c’è tutto il resto lo so, lo so anch’io, lasciamo correre.” L’apatia di Ugo deriva, quindi, non tanto dalla sua natura, bensì da un forte dolore e dal desiderio, umanamente comprensibile, di arretrare, di fuggire. Vive una guerra tutta sua; apparentemente indifferente all’altra, ha di fatto trasferito quella guerra dentro di sé. La presenza di Gianni non è inutile. Si è capito che egli si trova là per sfuggire a un qualche pericolo, ad una qualche cattura dei tedeschi. Ugo apprenderà solo più tardi che egli si fa passare con un altro nome, Stefano Nicolai. Gianni non esce mai dalla tenuta. Dai campi osserva il via vai dei soldati. Ma un giorno Ugo chiama Cesira e le ordina per l’indomani di far trovare pronto il calesse, che non usava più da anni. All’incredulità della vecchia governante, egli risponde: “Io e il signor Gianni avremo bisogno di andare in città.” Dunque, come dice il titolo: la casa si muove. Siamo nella Lucchesia. Il tram di cui si parla spesso è quello che collegava (non esiste più) la città di Lucca alla frazione di Ponte a Moriano (dove è nato, e vi tornava spesso, Arrigo Benedetti), allora situata in piena campagna, distante appena otto chilometri. La guerra sta, al momento, risparmiando Lucca, giacché è un luogo di nessun interesse strategico, al contrario di Pisa e di Livorno. Gianni e Ugo si trovano in città quando sentono suonare l’allarme. Si ode dappertutto, nelle case vicine, nella strada, il trapestio della fuga, della ricerca smaniosa, disperata, di un riparo. Solo Ugo mantiene la sua calma, come aveva già fatto quella volta del bombardamento e si era ritrovato in quella cameretta d’albergo mezza disastrata, con la folla che lo stava a guardare. Gianni lo osserva dormire “calmo come se fosse scolpito in una pietra.” e prova “un acuto piacere nel trovarsi vicino a lui, a quell’essere sempre così fermo, uguale, capace di tenere tutto per sé, di caricare completamente sulle proprie spalle il peso della propria vita”. Ci si allontana a poco a poco da Oblomov, e forse Ugo non lo è mai stato, anche se ne ha vestito gli abiti. È un uomo forte, taciturno, sicuro di sé, legato alla sua libertà e alla sua indipendenza. La guerra lo ha per il momento isolato, nauseato, ma non vinto. A Baccelli, il fattore, che viene convocato da Ugo poiché dalla finestra ha sentito un rumore di seghe e ha visto cadere una grossa quercia, ordina perentorio che il bosco non si tocca. Baccelli lo informa che ha firmato un contratto coi tedeschi che devono fortificare sulle Alpi Apuane. È una grande opportunità: ne ricaveranno milioni, che rimetteranno in sesto il bilancio fallimentare della tenuta. No, gli alberi non si toccano, ribadisce. Gianni ascolta e approva. I rumori della guerra sono tenuti lontano da Petroni, in qualche modo ovattati, al quale, invece, interessa mettere a fuoco il lavorio interiore che essa produce sugli uomini. L’anima di Ugo è stata messa a macerare da tempo, la sua apparente apatia sta maturando la resa dei conti; ciò che fuori accade, la guerra, è destinato a scontrarsi con la determinazione di un uomo a preservare la propria dignità. Petroni lavora con molta calma, non fa mistero del risultato che si aspetta dal suo romanzo: ossia, la guerra smuove ogni coscienza, nessuno può chiamarsene fuori.
I contadini, i taglialegna, che hanno perso un’occasione di lavoro, mugugnano e si domandano perché il padrone abbia fermato il taglio del bosco. Qualcuno comincia a mormorare che è per impedire che i tedeschi costruiscano le fortificazioni. È tuttavia anche vero, come aveva ammonito il fattore, che i tedeschi potrebbero prenderselo con la forza, il legname, e gratis per giunta, oppure rivolgersi ad altri padroni, ma intanto la gente va rimuginando l’idea che il padrone “è contro, ve lo diciamo noi.” Pietrone, “un pezzo d’uomo veramente imponente, dal viso piatto sul quale il naso e gli occhi e la bocca erano schiacciati con violenza” non ha dubbi e lo dice apertamente ai compagni: “Ho capito che il Gattegna è contro, che non vuol dare il legname perché sarebbe servito per le fortificazioni, ci scommetterei.” Dunque, un gesto che ha avuto per il fattore il significato di un capriccio, di una di quelle stramberie dei signori a cui ci si deve abituare e contro le quali non si può far nulla, ecco che assume agli occhi degli altri un valore rilevante. Pietrone è un attaccabrighe, ma è anche uno a cui non piace il fascismo né quella guerra. Si sta facendo delle amicizie tra coloro che la pensano come lui. Chi è veramente Ugo? Troverà il modo di parlarci, prima o poi, dice al suo amico Faldella (un cognome che mi dà l’opportunità di ricordare “Un viaggio a Roma senza vedere il Papa” di Giovanni Faldella – 1846 – 1928). Ugo deve avere, infatti, una sua qualità interiore e contagiosa se anche l’amico Gianni è diventato a poco a poco “anche lui ormai silenzioso quasi come un autentico Gattegna.” Parlano poco, ma si capiscono coi gesti, con gli sguardi. Gianni cerca più volte di chiarire a Ugo la sua situazione, ma Ugo non ne vuol sapere. Anche quando Gianni, mentre sul calesse si recano in città e vengono fermati dai militi, mostra loro una carta d’identità con il nome falso di Stefano Nicolai, Ugo non se ne stupisce; così che Gianni pensa che: “Ugo avesse agito come se avesse saputo tutto in precedenza: era forse una istintiva e rapida facoltà di adeguarsi agli avvenimenti? oppure si era reso conto di tutto in un modo che a lui era sfuggito? Forse, in quella testa vi erano più cose di quanto non potesse sembrare, ma era difficile capirlo.” Il tratto psicologico del protagonista emerge, dunque, soprattutto in forza di chi lo osserva, al punto che quell’uomo, che pare intagliato nella pietra, si rivela, in realtà, vivo allo stesso modo che succede ad una pianta che, creduta morta, manifesta, con una piccola, quasi impercettibile incisione sul tronco, la linfa vitale che la percorre. Ci prova la cugina Adele a fare quella piccola incisione. Ugo non può respingere le sue insistenti domande che concernono la sua personalità enigmatica. Arrossisce, prova disagio, fastidio, irritazione, reagisce, insomma, anche se Adele non ne ricava granché. La guerra, intanto, è sempre lì, non fa rumore, ma la si teme. I fascisti cercano di sedare le chiacchiere di uomini pericolosi come Pietrone, vantando che la guerra finirà con il vantaggio soprattutto dei contadini, della povera gente. Ma nessuno ci crede più. Fra poco la guerra si affaccerà anche in Lucchesia. Sono ormai in molti a pensarlo. Questa paura latente, questo mormorio che soffia appena dentro le stalle dove, come in una riunione carbonara, si radunano i contadini, uniti a ciò che accade in segreto nell’animo turbato di Ugo, formano un amalgama di raffinata sensibilità. Petroni racconta la guerra attraverso i tremori e i timori che vanno annidandosi nell’animo umano; e se ancora non sentiamo scoppiare una bomba, se non si odono i frastuoni delle artiglierie e dei bombardieri, c’è, onnipresente, questo rumore di sottofondo, questo ronzio perturbatore che si agita nella coscienza di ognuno. Si badi: non solo in quella di Ugo, ma in tutti: un avanzare lento, rischioso (“i contadini erano inquieti e diffidenti, le donne guardavano tutti con sospetto”), ma irreversibile. Il movimento dei convogli militari si intensifica, si fa caotico, dalla città la gente fugge, ormai, e va a ripararsi sui monti, o in campagna. La cugina di Ugo, Adele, e i suoi genitori prendono rifugio alla Casa Grande. Ugo sembra non aver paura degli avvenimenti, meravigliando Adele. Gianni è da giorni che mette in guardia Ugo dal non prendere alla leggera ciò che sta accadendo fuori dalla sua tenuta. Dirà Gianni a Adele: “La cosa più difficile invece, io penso, sarà proprio far capire tutto questo a suo cugino che non vuole ascoltare ragioni.” Occorre cercare, continua, “una chiave giusta”, che pur ci deve essere, per riuscire a farglielo capire. Non ce n’è bisogno: “Ugo si sentì paurosamente vuoto, si mise a cercare in fondo alle proprie viscere. Cercava quel lavorio potente ed imperioso che non sapeva quanto appartenesse alla sua anima e quanto invece facesse parte della sua salute: quel ripiegarsi di cose dentro di lui era forse la lotta del suo spirito inchiavardato perennemente dai suoi muscoli, prigioniero dei suoi nervi costantemente tesi a dispetto dell’apparenza.” C’è, dunque, una sua risposta che sta maturando, che sta cercando la sua strada per rivelarsi. Intanto, per la prima volta la guerra si avvicina, fa sentire nitida la sua voce. I tedeschi sono in ritirata, furiosi, assetati di vendetta incendiano, distruggono, razziano il bestiame, uccidono. Si stanno radunando sui monti, arroccandosi sulla linea gotica per opporre resistenza all’avanzare degli Alleati. Da lassù, sparano con l’artiglieria. Gli Alleati sono ormai vicini. Si sente distintamente il tuono del cannone. Anche Pietrone e Faldella arrivano sotto le finestre della Casa Grande. Ugo e Gianni sono affacciati a guardare: “Signorino scenda giù, ma svelto, bisogna fare in fretta.” Dicono che è tempo di abbandonare la casa e fuggire sulle colline. Lo scongiurano di andarsene, ora che è ancora in tempo. Ma Ugo non fugge. Invita tutti a lasciare la casa, ma nessuno vuol lasciarlo solo, specialmente Adele e Gianni, che decidono, infine, di abbandonarlo solo quando sentono i passi dei tedeschi che si stanno avvicinando. Cesira, invece, rifiuta l’ordine di Ugo e resta con lui. Si distende su di loro una strana solitudine: “Ugo si sentiva stranamente bene, quasi felice; raramente aveva provata una distensione così completa. Al pensarsi così isolato da tutto e da tutti si sentiva invaso da una profonda serenità; Cesira passava spesso qualche ora nella sua camera seduta su di una sedia vicino alla porta, ferma come un oggetto, anche lei felice. Essi sentivano di aver raggiunto in quel momento uno stato di cose agognato da tanto tempo e nulla di quanto succedeva al di fuori di quelle quattro mura, benché ora lo comprendessero molto lucidamente tutti e due senza palesarselo, li turbava minimamente.” I tedeschi si muovono intorno alla casa. Ugo e la vecchia Cesira parlano, si fanno compagnia, ma è soprattutto Ugo che, insolitamente, si rivela (Cesira “non aveva mai pensato che il padrone un giorno avrebbe parlato lungamente con lei”), rivela la sua natura di uomo prigioniero di una razza, di un destino, ai quali vorrebbe ribellarsi: “Forse avrei dovuto poter in qualche modo capire che si esce dalla propria vita se si ha il coraggio di entrare in quella degli altri.” Petroni trasforma la prosa in un dialogo, rimasti i due i soli personaggi sulla scena. È un momento fondamentale del romanzo: la presenza di qualcosa di alto, di elevato, incombe sopra la figura di Ugo: “Povera Cesira, sempre lì, sempre pronta per i Gattegna, questa razza che mi ha seminato nel mondo come una pianta rara che può vegetare per forza naturale, ed invece c’è anche questo spirito che in lei lavora robusto e si dibatte.” Ai tedeschi che faranno irruzione in casa sua e gli domanderanno perché non sia fuggito come hanno fatto tutti gli altri, Ugo dà questa risposta: “Sono a casa mia.” È, questa, finalmente, la sua rivolta contro la guerra, una protesta, una ribellione che pagherà a caro prezzo, ma non avrà paura. Quando vedrà, appena in tempo, gli Alleati che si affacciano dentro la sua casa: “Tre volti neri, tre paia d’occhi bianchi su facce di ebano”, i tedeschi se ne sono già andati. È il 5 settembre 1944, Lucca è liberata.
Ci dirà la Storia che la Lucchesia pagò un tributo di sangue notevole alla guerra. Vi accaddero episodi di efferata crudeltà, tra i quali non vanno dimenticati la strage di Stazzema (12 agosto 1944), quella della Certosa di Farneta (seguita al rastrellamento avvenuto nella notte tra l’1 e il 2 settembre 1944), e la fucilazione di don Aldo Mei (2 settembre 1944).
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Commento by Gian Gabriele Benedetti — 2 Gennaio 2009 @ 22:28
Personaggio originale. Forse il suo apparente distacco da una certa realtà e la sua quasi misantropia, erano dovuti ad una specifica, forte sensibilità, tutta contenuta dentro un animo nobile; sensibilità che per lui era difficile esternare (o volutamente non esternava). In rare circostanze è sembrato aprirsi al mondo ed all’altro (l’amore per le piante, l’avversione contenuta verso il Fascismo, l’accoglienza dell’amico…). Era, il suo, un modo, tutto sommato, di proteggersi e di proteggere la sua intimità, altrimenti avrebbe potuto avere sofferenze maggiori. Ma questo chiudersi in se stesso ha dato vita ad una serie di pubblicazioni in gran parte di grande spessore letterario e umano. Per queste opere, ma anche per il suo atipico comportamento, del resto sempre coerente, non può che essere altamente apprezzato e sentito a noi più vicino.
Ottima, piena di umanità, profondamente sentita questa tua recensione, Bartolomeo
Gian Gabriele Benedetti