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La scampanata, il romanzo di Bartolomeo Di Monaco trasformato in testo teatrale, qui per chi volesse rappresentarlo.

LETTERATURA: Scrittori Lucchesi: “Paolo Buchignani: “Santa Maria dei Colli” (1996)

22 Gennaio 2008

di Bartolomeo Di Monaco

[Per le altre sue letture scorrere qui]

Storico e scrittore, Paolo Buchignani è uno studioso del ‘900 italiano, con particolare riferimento al periodo compreso tra le due guerre.

Collaboratore di “Nuova Storia Contemporanea“, ha pubblicato numerosi saggi sulle avanguardie e sul fascismo. Tra i suoi libri: “Marcello Gallian. La battaglia antiborghese di un fascista anarchico”, Roma, Bonacci, 1984 (collana ‘I fatti della storia‘ diretta da Renzo De Felice); “Un fascismo impossibile. L’eresia di Berto Ricci nella cultura del ventennio”, Bologna, Il Mulino, 1994 (Premio Luigi Russo, ’94); “Fascisti rossi”, Milano, Mondadori, 1998 (due edizioni in tre mesi; il libro ha suscitato un dibattito sulla stampa nazionale in seguito ad una intervista rilasciata a Paolo Mieli); “La rivoluzione in camicia nera”, Milano, Mondadori, 2006.
Come narratore, scoperto da Romano Bilenchi e Geno Pampaloni, Buchignani ha esordito col libro di racconti “L’orma d’Orlando” (1992, Le Courier editore), a cui è seguito il romanzo “Santa Maria dei Colli” (1996, Maria Pacini Fazzi editore), di cui ci occuperemo qui. Ha in preparazione “Le mani senza volto” (in riferimento al quale l’autore precisa che trattasi di “quasi un romanzo“).
È notte, sono le due del mattino del 28 aprile di un certo anno. Il protagonista (lo stesso autore) guarda la sua bambina che dorme, dorme e sogna. Dieci anni prima, il 27 dello stesso mese, in quella camera, adagiata su di un letto “grande, alto alto, con le sponde di ferro, cariche di riccioli e di volute.”, giaceva il corpo senza vita di nonna Esterina. È nel suo ricordo che si risveglia in Buchignani il desiderio di ricomporre le tessere di un mondo che sta scomparendo, e da cui egli stesso proviene. Lo scopo del romanzo è espresso sin dal principio: “Con gli anni ho imparato che per sapere chi sono e dove vado devo recuperare ciò che sono stato; devo riportare alla luce, nel bene e nel male, la “gente mia campagnola” (come si legge in una poesia di Ungaretti); devo conoscere quei contadini, quei popolani da cui proveniamo: la loro vita, le loro vicende, ambientate in un mondo tanto diverso da questo.”
Santa Maria dei Colli è il paese che dista a pochissima distanza da casa mia, di là dal fiume Serchio. Oggi si chiama Santa Maria a Colle, ma l’autore ha voluto ricordare che esso si distende su cinque piccole colline. Le visita e le descrive ad una ad una con il grande amore che lo lega alla sua terra e con la precisione dello storico. Ma la scrittura, già in questo inizio, ha il suasivo tratto della narrazione. Chi conosce, come me, quei luoghi, apprezza nella sobria scrittura di Buchignani l’odore di terra che sale dai prati e dalle corti. Queste ultime ancora sono vive, anche se non più frementi e chiassose come un tempo. Nel romanzo sono abitate da gente modesta, umile, sfortunata, come Mara, detta “la Rossa“, una vedova che ha la nomea di essere una donnaccia, così procace e ben fatta che attira gli uomini, nonostante la sua casa e il suo letto siano sudici. Buchignani sa ritrarre i suoi personaggi. Mara è il primo che ci colpisce per la sua forza: “Se al pozzo c’era un uomo, qualcuno che le piaceva, lo fissava con gli occhi voraci, invitanti. Lui rimaneva incantato come l’uccellino davanti alla serpe: bastava un’occhiata e s’erano intesi.” Ma non il solo: il vecchio conte che ha perduto al gioco la villa Belvedere e che è ritornato al paese per rivederla, malato e vicino a morire, povero e ridotto ad abitare una stamberga. O Leonildo, l’anarchico, ancora un bell’uomo, “alto, imponente, bianco nella barba folta, nei capelli, lunghi fino alle spalle.”, che fa ancora sospirare le donne. C’è un colle che si porta dietro addirittura la sua storia antica, è quello così detto di Fregionaia, dove fino a qualche decennio fa, nel grosso manufatto, che era stato un convento poi chiuso per sospetto di eresia, vivevano i pazzi del manicomio, la cui vita è stata narrata da Mario Tobino, in opere memorabili. Lì, in quel manicomio, egli ha trascorso quasi tutta la sua vita e ancora se ne avverte il respiro.

Osservato il paese, Buchignani si apre con dolcezza al sentimento verso i suoi cari; ne nascono ritratti delicati come quello della zia Mena, sorella della nonna Esterina, mai sposatasi, rimasta legata fino alla morte al suo innamorato Aladino, ucciso dalla tisi. Oppure del padre di Esterina, il bisnonno Bartolomeo, detto Meo, la cui passione era quella di “raccontare storie, inventare burle, in mezzo ad un crocchio di persone che lo ascoltavano a bocca aperta. Gli si riunivano intorno, nelle sere d’inverno, nella stalla scaldata dal fiato delle bestie addormentate, giovanotti e fanciulle che si scambiavano sguardi e sussurri; vecchi pensierosi che biascicavano il tabacco e di tanto in tanto sputavano tra la paglia grandi boccate di saliva nera; donne silenziose sedute in un angolo a filare, l’occhio attento alla rocca e al filo, appena distinti al chiarore del lumino a olio, l’orecchio teso alla voce del novellatore.” O del fratello di questi, Donato, il quale, mentre lavorava pensava alla morte, sperando che lo prendesse prima di Stella, sua moglie. E invece se la trovò distesa nel letto, una mattina, senza vita.
Ma il capitolo che, a mio avviso, marca il passaggio netto tra l’autore storico e l’autore anche narratore, accreditandolo di una capacità raffinata e sensibile di raccontare, è quello che contiene la descrizione e la storia di Leopoldo, “storpiato dalla voce del popolo” in Poldo, il figlio più bello di Meo: “Negli occhi grandi, malinconici, di un azzurro intenso sul viso chiaro, affiorava, a tratti, una fragilità sfuggente, inquietante, accentuata da una smorfia delle labbra rosse, quasi fanciullesche.”
Sarà irretito dalla bellezza e dalla malia di Mara la Rossa: “Poldo trasalì, rimase immobile a guardarla, muto, come fosse un’apparizione, un sortilegio di quella notte lunare.” Per liberarsene se ne andrà in America, lontano da tutti e da tutto.
Meo ha anche un altro figlio, Vasco, “un gigante”, amico dell’anarchico Leonildo, che abbiamo già incontrato. Meo diventa così, tramite il ricordo di nonna Esterina, la figura da cui discendono i vari fili della narrazione, la quale, proprio attraverso i figli di Meo, si dirama a tracciare vari ritratti di vita e di personaggi di quel tempo. Con Vasco incontriamo il fascismo e l’avversione che per esso manifestavano alcuni coraggiosi, tra cui, appunto, Vasco, Leonildo e Libero, al quale, per vendicarsi, i “neri” ammazzarono il padre Annibale, e poi andarono a cercare anche Vasco per dargli un’altra lezione. Il capo di quel manipolo di fascisti “con la vocetta da gallinaccio arrochito, sembrava un forestiero: un omino impomatato, ritto sugli stivaloni, il mento in aria e l’erre moscia.”, descrizione nella quale si coglie tutto il ridicolo messo in piedi da una dittatura che riusciva a montare la testa e a valersi di figure tronfie e vuote, ma, proprio per il loro fanatismo, incoscienti e pericolose. Vasco ne farà le spese.

Anche Libero vivrà nella paura di essere preso, e la sua sarà una vita di malinconia e di solitudine: “Nella notte, però, acquattato tra le canne del padule per sfuggire alle guardie, scopriva di essere solo al mondo. In lontananza, nei paesi sparsi sulle colline, vedeva le case illuminate; immaginava le famiglie riunite, il tepore della cucina, il fumo della minestra, le voci, gli affetti.” Buchignani ha iniziato la sua storia partendo dal suo paese, ossia da un luogo di pace, per disegnare le ferite che la storia può provocare fino a mutarlo. Il fascismo e la guerra ci fa capire – portando ad esempio il suo paese – non restano affatto episodi passeggeri che, una volta trascorsi, lasciano tornare le cose come prima. Le ferite provocate restano come una perenne sorgente di dolore: “un ferroviere aveva visto passare un convoglio piombato, carico di uomini che urlavano, che imploravano acqua, abbarbicati alle grate dei vagoni merci.” Il ritorno non è più possibile. Finita la guerra: “Anche a Santa Maria dei Colli tutti avevano voglia di ricominciare. Ma non era facile: ciascuno portava dentro una ferita che l’aveva segnato, che gli impediva di tornare quello di prima”.
Sono i figli di Esterina, Olindo e Gianni, che dalla collina di Farneta, si accorgono che la Certosa omonima è stata occupata dai tedeschi che stanno rastrellando frati e civili che vi si erano nascosti. È il preludio del terrificante eccidio della Certosa che, insieme con quello perpetrato a Sant’Anna di Stazzema, sarà uno dei più orribili in Lucchesia. Il romanzo è dunque diventato memoria non più intrisa di nostalgia, ma di dolore e si fa monito per i nostri tempi e per le generazioni che indulgono alla dimenticanza. Dirà un personaggio che fa ritorno a Santa Maria dei Colli: “Il tempo passa, ma gli uomini non imparano niente.” Il romanzo vuole che ciò mai più accada. Per questo si chiude rievocando l’amore tra Esterina e nonno Assuero: “Esterina sentiva la morte avvicinarsi, quando mi raccontò di quell’amore.”  È il lascito di una eredità che, sola, può illuminare la vita.


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3 Comments

  1. Commento by studente — 1 Novembre 2008 @ 16:56

    Sono uno studente dell’ITG, dove Buchignani Paolo insegna, e da quest’anno è mio professore ed è un onore avercelo perchè oltre alla storia medievale che stiamo facendo di programma lui ci mostra come molti orrori della storia appunto medievale sono ritornati con il fascismo.

    ps:Bravo Bartolomeo Di Monaco, è riuscito a dare un ottima “trama” di questo libro

  2. Commento by Bartolomeo Di Monaco — 1 Novembre 2008 @ 17:00

    Ti ringrazio.

    Paolo Buchignani, che ho il piacere di conoscere, si è dedicato particolarmente allo studio del periodo del fascismo, mettendone in evidenza anche aspetti nuovi o trascurati. Già numerosi i suoi libri al riguardo, pubblicati da Mondadori.

  3. Commento by Paolo Bartoli — 27 Dicembre 2008 @ 18:09

    Paolo Buchignani, per me uno dei più grandi storici moderni, con l’ultimo libro pubblicato “Solleone di Guerra”, ha finalmente dimostrato di essere anche un grande scrittore di narrativa. La sua prosa è avvincente, dolce e forte al contempo. Ne ho gustato ogni parola, ogni frase, ogni capitolo; mi ha fatto gioire e soffrire e mi ha commosso, come non capita spesso leggendo un libro.

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