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LETTERATURA: Scrittori Lucchesi: Pia Pera: “L’orto di un perdigiorno”

17 Dicembre 2008

di Bartolomeo Di Monaco
[Per le altre sue letture scorrere qui. Il suo blog qui.]      

Masanobu Fukuoka è un nome non difficile a scriversi e nasconde la figura di “un decrepito giapponese” che ha cambiato la vita della nostra autrice. Infatti, dopo aver letto il suo libro: “La rivoluzione del figlio di paglia”, ne ha seguito l’esempio, ha abbandonato il lavoro in città e si è ritirata a vivere in campagna per coltivare il “podere avito”: “vengo da un altro mondo, ero stata allevata per qualcosa di completamente diverso”. Alla base di questa scelta, un sogno: realizzare ciò che non è riuscito a Oblomov, il personaggio di Gončarov, colpevole di non aver saputo affermare il suo ideale, “non averlo saputo trasferire dallo stato di fantasticheria imbambolata a quello di critica.” Per la verità, vi è anche un altro libro fatale, che ha incantato la nostra autrice: “Il giardino segreto” di Frances Hodgson Burnett: “Si sono formati su quelle pagine i miei sentimenti”.
Pia Pera è lucchese come me, ha al suo attivo altri romanzi, è figlia di quel Giuseppe Pera, luminare del diritto del lavoro, i cui scritti sono riconoscibili per l’arguta, pungente ironia che li pervade, narratore lui stesso in un libro di ricordi dal titolo: “Il figliuolo di Giovannin di Nunziata”, oltre che gran camminatore. Nelle mie passeggiate sulle colline lucchesi, verso Vecoli e Pieve Santo Stefano, ogni tanto lo incontravo, vestito coi calzoni alla zuava e un bastone in mano, ci scambiavamo un breve saluto per una conoscenza che risaliva ad anni indietro. Scrive l’autrice, consapevole tuttavia di questo debito di sangue: “a questo podere sono arrivata sotto la spinta di una suggestione confusa. Lo volevo, ma non sapevo bene a che scopo. A vederlo rovinare mi si stringeva il cuore.”   Le cambierà la vita, a poco a poco, allontanandola dalla città. Il romanzo narra la storia di questa esperienza, di questa scelta, e mai avrei immaginato – io che pur vivendo in campagna poco m’intendo di orto e di piante e lascio a mia moglie, che in campagna, al contrario di me, c’è nata, di acculturarsi continuamente in questo campo – di leggere con curiosità ed interesse un’avventura di riappropriazione del nostro ruolo originario di figli della natura, anche se “l’ineluttabilità della sconfitta è evidente.” Difficile, infatti, ritrovare la via del ritorno all’Eden primitivo, dovendosi “prima sgombrare la strada dalle macerie dello sviluppo.” Il terreno che noi abitualmente vediamo in superficie viene radiografato nei suoi microrganismi che formano l’humus, le piante sono analizzate nella forza delle loro radici, e diventano ben presto nel nostro immaginario esseri viventi come lo siamo noi. Non sono gli uomini e le donne che si muovono in questa storia, ma gli altri figli della natura, e la cosiddetta conoscenza di ciò che ci circonda è messa a dura prova di fronte alle apparizioni di erbe, piante, bulbi, fiori, zucche, basilico, spinosa di Calabria, topinambur, lardaia, madernassa, platicarpa, bulida, annurca, durello, zeuca, campanino, calicanto, lillastri, ramni, lentiggini, azzeruolo, eleagni, tagete, drosera, poinsettia, agapanto, strappabrache, opuntie, fejoie, clematidi, elicrisi, dicentra, porcellana, gaure, eringi, per non parlare dei tanti altri dal nome latino, la cui esistenza era quasi certamente ignota ai più: dai colori talvolta minutamente descritti vengono da noi sempre confusi nel rigoglio massivo di una flora – ora ce ne rendiamo conto – distrattamente osservata. Fabio, Guido, Giovanna, Massimo, Giancarlo, Didier, John, Graziana (dispensatrice di detti popolari), Alessandra, Nicola, Maria Grazia, Don, Lindsay, Paul, Gil, Angelo, Joan, Gaston, Edoardo, suor Renata, vivono il loro breve momento della ribalta come innesti delle piante di cui sono adoratori, perfino il cane Nino: “che fa a gara con me a chi arriva prima all’uva”. Le amicizie sono propiziate e mantenute in funzione della coltura dell’orto. Il racconto procede diviso per mesi e stagioni, tutti osservati nella loro generosità e bellezza: “È stupefacente come il fabbisogno venga soddisfatto fin troppo da quel poco che cresce intorno a casa”. Non c’è che da allungare la mano verso la natura per sentirsi soddisfatti e felici. Noi che amiamo sfogliare i cataloghi di libri (come del resto l’autrice, e in questo romanzo sono numerosi i narratori di riferimento, tra cui Thoreau), sappiamo che cosa voglia esprimere allorché confessa: “Quando leggo il catalogo dei vivaisti vengo colta da ingordigia. Vorrei tutto.” Ma non è facile essere felici in mezzo alla natura, si possono cogliere momenti di felicità, rapidi e non per tutti. Coltivare la terra, amarla, cercare di trarre da essa il proprio sostentamento può essere anche un privilegio se si pensa “da quanti secoli ormai a chi coltiva la terra è stata tolta la possibilità di una vita autosufficiente.” Non solo dei cataloghi dei vivaisti si ingolosisce l’autrice, ma anche dei testi che descrivono il rapporto uomo-natura, e così ogni tanto conduce pure noi dentro quei numerosi libri, facendoci partecipare alle gioie e alle delusioni dei loro autori. È un racconto tanto diverso dai soliti che girano per il nostro Paese di questi tempi. Ricordate quando da bambini – almeno negli anni ’50, ‘60 – si notavano quei film che non avevano personaggi femminili, che di regola sostengono la storia, e ci si diceva: Qui non ci sono donne? Così in questo romanzo non ci sono storie di uomini e donne, se non quella unica dell’autrice nel suo rapporto con la natura tanto amata e alla quale vorrebbe poter dare il conforto di una sua alleanza per difenderla dalla contaminazione prodotta dall’uomo: “ho l’impressione che ogni mia azione non pesi più di un gesto simbolico. Non potrà certo fermare la distruzione”.   Non è tanto l’orto, infatti, il protagonista di questo insolito romanzo, ma la natura – alla quale la coltura dell’orto inevitabilmente conduce – vista e osservata nelle sue molte, minutissime vite: “Non butto via nulla, non mi piace bruciare, voglio conservare, creare le condizioni di ritorno di ogni sostanza alla terra che l’ha generata.” Perfino quando deve, “armata di forcone e carretta”, estirpare le erbe infestanti, non può fare a meno di ammirare la loro bellezza: “Così va perduta tanta bellezza.” Nel titolo l’autrice si definisce “un perdigiorno“, ma il suo lavoro, il suo studio della natura, l’amore per essa sono intensi, occupano tutte le ore del giorno, perfino i sogni: “Tenere un orto […] non richiede meno impegno che scrivere un libro.” Cammina nel bosco e scorge erbe, fiori, arbusti, piante che chiama per nome, li osserva nel loro evolversi nel corso delle stagioni, dei mesi, dei giorni; ci parla dei loro mutamenti, così come avviene per un essere umano ancora nel grembo della madre. Ha un “campicello subito fuori della cucina” in cui “non intervengo mai per il gusto di vedere cosa combina da solo.” Il suo messaggio è nitido: non ci sono differenze tra gli esseri viventi, ed è proprio la vita che fluisce in tutti che ci rende uguali, degni dello stesso rispetto e dello stesso amore: si può trovare la felicità “restando vicino alla natura”; “sento che proprio da lì potrebbe nascere una civiltà libera dal meccanismo di distruzione insito nella coazione allo sviluppo. Non si obietti che è un’utopia.” E, poco dopo: “il mondo sarebbe un posto migliore se, ogni volta, prima di lanciarsi in un’azione, ci si chiedesse: e se si provasse a non farlo? […] Sarebbe un non fare finalizzato a un fare migliore, consapevole.”
L’orto è così una piccola parte della natura, quella che l’uomo ha destinato al proprio sostentamento, delimitando e selezionando: “Con l’orto si tratta di ottenere di che nutrirsi”. Ossia l’orto “è un prodotto della civiltà.”, ma della natura conserva, quale segno indelebile, la sua matrice, e dunque l’affetto che proviamo per esso non può che ricondurci nel suo grembo, e forse addirittura alle nostre origini: “Scoprire se quanto era stato assegnato all’uomo bastava.” E anche: “Lo scopo non è mangiare, ma avere un bell’orto, ottenere un bel quadro su questa grande tela fatta di terra.”
Non è una storia facile a scriversi, questa, senza il rischio di tediare il lettore non uso alle dimestichezze della botanica. L’autrice, che mostra di averla coltivata con passione (“Come mi piacerebbe tuffarmi in un fiore”) e cura, riesce in una prova coraggiosa che sa immergere anche noi nella bellezza e nei misteri della Creazione.


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2 Comments

  1. Commento by Gian Gabriele Benedetti — 17 Dicembre 2008 @ 22:59

    Personaggio assai originale. È evidente il suo amore per la natura, che la fa sentire parte integrante di quella meraviglia, di quel miracolo di una terra in grado di offrire tutta se stessa, di deliziarci con la sua bellezza, in grado di poter arrivare persino a cambiare il mondo, se ne prendessimo esempio. Il suo trasmettere questo grande amore in un libro del tutto particolare, in un libro ricco di sensazioni, di nobili sentimenti, di vita, di vita saggia, migliore, più a misura d’uomo, ci fa sentire questo personaggio molto vicino e ci fa capire quale importanza e quale valenza avrebbe un sano rapporto uomo-natura.
    Grazie, Bartolomeo, anche per questa recensione, ben curata ed intelligentemente impostata, e soprattutto grazie per averci fatto conoscere a fondo un’autrice locale straordinaria ed interessantissima
    Gian Gabriele Benedetti

  2. Commento by Bartolomeo Di Monaco — 17 Dicembre 2008 @ 23:35

    Grazie a te, Gian Gabriele. Il padre della scrittrice, Giuseppe Pera, fu un valente giurista. Insegnava all’Università di Pisa.

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