LETTERATURA: Stendhal – Diario del viaggio in Brianza – I libri di Brianze, 200912 Luglio 2010 È un dato di fatto – mi dicevo, mentre a lettura ultimata mi rigiravo fra le mani questo delizioso repíªchage di Stendhal – che la Brianza è tuttora uno dei luoghi più belli d’Italia. Un pezzo di Toscana in terra di Lombardia. Ho vivi ricordi della Toscana dove ho vissuto gli anni dell’adolescenza e ho la ventura di attraversare tutti i giorni e in tutte le stagioni dell’anno per ragioni di lavoro (servicio de correos del Maradagàl) la Brianza più riposta e più periferica e dunque più intima, ossia quella lecchese, ancora in buono stato. Non so restare freddo davanti a scorci paesaggistici come quelli di Montevecchia, Perego, Annone … Dall’altura della Bevera (Imbever, ricorda un cartello messo lì da una mano pubblica guidata da un sentimento, non ancora risentimento, identitario) mi soffermo ogni giorno ad ammirare il paesaggio di questa Brianza dalle colline dai profili seghettati, da cui si staglia sempre, anche tra le brume come ancor più nelle terse giornate primaverili, un delizioso campanile, e da dove gettando lo sguardo si coglie in un’unica veduta mozzafiato tutta la chiostra delle cime lecchesi, e più oltre, le rocce imbiancate delle Alpi. Ma la Brianza non è solo un luogo ameno; al di là dei triti luoghi comuni sui brianzoli – quelli che li vedono abbrutiti co bass sulla “diuturna incombenza del giorno” e ossessionati dalla silente e caparbia religione del laurà esplodente talora nell’imprecazione (che tuttavia perora un destino maledicendo gli effetti di una vocazione) contro i danè che fan danà – la Brianza dicevo è anche un luogo della mente e dell’anima. La sub-regione lombarda infatti vanta sicuramente uno dei più alti tassi di densità letteraria d’Italia: Parini, Stendhal, Manzoni, Cesare Cantù (Massime e motti di Carlambrogio di Montevecchia ) Emilio De Marchi (Arabella e Giacomo l’idealista), Gadda (la strepitosa Cognizione del dolore) e aggiungerei anche il libro di Carlo Linati Sulle orme di Renzo, tanto lodato da Montale ne Il secondo mestiere.. Infine, venendo ai giorni nostri, c’è anche quel verso di Mogol “Per fuggire via da te Brianza velenosa” della canzone Una giornata uggiosa di Lucio Battisti, vissuto lungamente e morto a due passi dalla Bevera, a Molteno… Adesso riavvolgiamo il film dell’impetuoso sviluppo economico che ha deturpato non poco i bei luoghi con guasti irreparabili come quelli dell’infognamento del fiume Lambro (perisca l’inquinatore che per lucro ebbe a vile/la salute civile, poiché come ammoniva Parini sol di sé pensiero/ha l’inerzia privata), e chiudiamo anche gli occhi sulla Brianza che si scorge dalla e si svolge lungo la statale della Valassina, quella specie di Las Vegas di arredo-bagno, salotti e camerette, dove peraltro torno immancabilmente ad acquistare i mobili, ché Ikea non mi avrà mai. Ritorniamo alla Brianza vista con gli occhi di Stendhal nel 1818. Doveva essere una specie di Eden primigenio. Laghi cristallini, limpidi rivi e colli ameni, verzure a perdita d’occhio e l’etere vivace della salubrità dell’aria: era ancora la Brianza settecentesca di Parini, morto vent’anni prima. Cosa vi cercava Stendhal in questa Brianza raggiungibile da Milano con un servizio bisettimanale di diligenza? Io direi ciò che è intimamente stendhaliano: estetico ed estatico turismo dello spirito, oltre beninteso ai baldanzosi fianchi/de le ardite villane, ossia turismo sessuale, che in queste pagine trova il suo sincero e secco resoconto. Lascio alla penna di Michel Crouzet una sintesi molto circostanziata della gita brianzola dell’autore della Certosa di Parma e dell’amico Peppino Vismara (il miscredente che orina nell’acquasantiera della chiesa di Giussano). Subito dopo mi lascerò andare a divagazioni sul rapporto di Stendhal con la scrittura e con l’Italia. «Stendhal non è fatto per il tempo: nel viaggio si cura solo del presente; il viaggio rappresenta la polverizzazione dei frammenti dell’esistenza colti al volo, un’infinita capacità di stupirsi. E così l’Io non ha più Io, è in qualche modo l’«allegro nulla » che il Romantico sogna di diventare, può «fregarsene di tutto », altro ideale stendhaliano, perché, etereo, allegro, libero da qualsiasi progetto, è finalmente libero da se stesso, e libero di provare interesse per tutto. 1. Stendhal e la scrittura intima Il tema è capitale in ogni letteratura, ed è intricatissimo. Di chi possiamo parlare se non di noi stessi quando ci accingiamo a scrivere? Parliamo tanto di me, intitolava spudoratamente un suo libro Cesare Zavattini. È la domanda che si pone chiunque abbordi la fiction, dall’ammiraglio in pensione a Luigi Pirandello: debbo o non debbo raccontarmi mentre racconto? E come? Deponendomi, esponendomi, interponendomi, trasponendomi, nel racconto della storia d’altri? O viceversa, parlando d’altri mentre parlo di me, ossia allargando l’orizzonte sul mondo a partire dal mio angolo visuale? C’è la scelta della dissimulazione onesta. Chateuabriand in Mémoires d’ outretombe, ha enunciato mirabilmente il principio: « On ne peint bien que son propre cÅ“ur, en l’attribuant à un autre ». Sì, funziona così: si proietta in un personaggio ciò che noi siamo, ma anche, attenzione, ciò che non siamo e che vorremmo essere: funzione ottativa quest’ultima del personaggio e della letteratura da tenere sempre in evidenza. Io sono goffo, bruttino e indeciso a tutto? La mia vita è un inferno? Eccomi proiettato in un giovane splendente, amante appassionato, ricco di charme e di una vita spericolata. Stendhal sta a Julien Sorel quanto Alfred Hitchkock a Cary Grant. Il personaggio così creato avrà un po’ di sé, di autonoma e fantastica vita propria, ma anche un po’ di me. Io sono dentro di lui e lo agisco come un burattino. Essendone il suo dio creatore egli agirà secondo le mie intenzioni soggettiveche farò sì, con l’intreccio, che divengano le sue, oggettive per così dire, tali ossia dal punto di vista della logica compositiva e della coerenza interna del racconto (c’è un terzo in commeda infatti: il lettore, che verifica e giudica, che se la beve o non se la beve). Sia Madame Bovary che Julien Sorel che Gonzalo Pirobutirro c’est moi. Datemi una maschera e vi mostrerò il mio volto. Vero volto? Ah saperlo! Ma di chi in verità parliamo quando parliamo di noi, quando diciamo io? «L’io, io! Il più lurido di tutti i pronomi!… », i pronomi sono pidocchi del pensiero, sbottava Gadda nella Cognizione. L’Io tradisce. E il fatto che la voce narrante venga dal suo interno non è garanzia di verità. Cosa sappiamo del nostro Io? Leibniz, il filosofo amato dal cognitivo Ingegnere brianzolo, precisava nella Monadologia e Discorso di Metafisica che solo Dio ha un «concetto completo » dei singoli «io », di Paolo o Giovanni che siano. Paolo o Giovanni non sono riassumibili come la voce “Alessandro Magno” in un lemma di enciclopedia. Sotto la voce “Alessandro Magno” infatti non troverò un registro completo di tutto ciò che ha fatto Alessandro, ma soltanto informazioni che il redattore della voce avrà considerato essenziali per distinguere Alessandro Magno da altri personaggi storici. Immaginiamo però che sia Dio stesso a redigerne la voce. Solo lui potrebbe darci tutto Alessandro, la serie completa di tutti i suoi atti e fatti, darcene la sua ecceitas, il suo possibile contingente e il suo necessario assoluto, il suo noumeno e fenomeno, la sua essenza e la sua storia, il suo io sincronico e diacronico. Ma noi, che pure diciamo “Io”, non abbiamo un concetto completo di noi stessi. E in più, essendo venuti dopo Freud e Pirandello, abbiamo piuttosto certezza della rifrazione del nostro Io, della presenza nascosta del nostro sotto-Io (l’Es), dell’incombenza del Super-Io, della sfaccettatura dei nostri piani di coscienza, del nostro essere e apparire per noi e per gli altri, della prismaticità dell’Io. Sappiamo col brianzolo Ingegnere, che l’Io è come un Club o Accademia, dove vecchi soci si dimettono e nuovi si iscrivono. E perciò, come i redattori dell’enciclopedia di noi stessi, procediamo alla “selezione epica”, spigoliamo tra i fatti della nostra vita, fra i nostri tanti Io. Ci consoliamo con l’aglietto di piccoli fatti che tentiamo di illuminare col significato della nostra storia romanzata, con lo sguardo lungo e ricognitivo su noi stessi; che è l’unico modo, però, di dare forma, coerenza e significato alla nostra intera esistenza. Solo il romanzo insomma potrà dare il concetto completo e il senso di una vita: che si tratti de Il rosso e il nero o della Cognizione del dolore. Non redigendo un diario, ma scrivendo un romanzo possiamo dire chi siamo: nella sua menzogna c’è la nostra verità. 2 Stendhal e l’Italia. Proiezione e mito. Il rapporto tra Stendhal e l’Italia è stato magistralmente indagato da Michel Crouzet (Stendhal et l’italianité- Essai de Mythologie romantique – Librairie José Corti, Paris 1982, da cui leggo e traduco). Il termine centrale della questione è di conio psicoanalitico: proiezione. Si tratta di una serie di investimenti libidinali della psiche, di «prestiti e controprestiti, di tipo individuale e collettivo », da Stendhal verso l’Italia e gli italiani e viceversa, che «erigono l’immagine dell’altro come una strana complessità alla frontiera tra il reale e l’immaginario ». Ma anche un mito, «un insieme di desideri di cui l’Italia è lo specchio e il supporto ». La proiezione richiama alla mente la vicenda strettamente autobiografica di Stendhal, rimasto orfano a sette anni della mamma (che era italianisante, gli cantava le canzoni in italiano). L’incontro con l’Italia, le donne italiane, che gli ispirano una « idea di femminilità “altra”, libera e imprevista », avviene sotto il segno, direi il dominio del fantasma materno, del dramma della sua morte e delle prevedibili risonanze interiori prodotte nella coscienza del bambino prima e del maschio adulto Stendahl poi, nella sua Cognizione del dolore, per restare nei termini della nostra metafora ossessiva brianzola. Cognizione dove il rapporto, drammatico, feroce, lirico e tragico tra un figlio e una madre è di scena. Fa bene Sara Pozzi, nella nota che accompagna il testo, a richiamare perciò il concetto di «matrie » = Italia contrapposta a «patrie »= Francia*. In seconda istanza, ma in strettissima connessione con la prima, c’è la percezione dell’italiano come individuo passionale e libero sì, ma tale soprattutto perché non imbrigliato dalla società, dalle regole e dalle leggi. L’individuo trionfa perché la società è assente ed è per questo che come dirà Corinna «chacun fait ce qu’il veut » (Corinne, VI, 2). In questa Italia di Stendhal (e nella nostra di oggi?) lo slancio dell’individuo avviene nella nullité della società, contro le sue regole e contro le sue leggi. Questa Italia è il paese del déchirement, dove i desideri dell’individuo, del singolo, si compiono senza il freno della legge, della ragione, e delle ragioni della vita in comune. Insomma, questa Italia appariva a Stendhal come il Brasile o certi paesi esotici appaiono a noi italiani di oggi: una specie di “Scopacabana” e un regno di Bengodi. Ci amava Stendhal a condizione che rimanessimo primitivi (arretrati e inferiori). Avrebbe voluto essere italiano? Dubito. Nella Scena I de Il forestiere in Italia, si legge: «L’Italia è il giardino d’Europa, ma… (è abitata da imbecilli)… ». * Vedi anche Jean-Pierre Richard, Stendhal et Flaubert, Seuil, Paris 1990, che ha indagato direttamente la questione. Sul fronte strettamente psichico dovrò rimandare al libro fondamentale di John Bowlby, Attaccamento e perdita vol.III La perdita della madre, Bollati Boringhieri, Torino 2000). Letto 5595 volte. | ![]() | ||||||||||
Pingback by Bartolomeo Di Monaco » LETTERATURA: Stendhal – Diario del viaggio … — 12 Luglio 2010 @ 12:17
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