di Daniela Toschi
Fu bellissimo quella volta che mio padre, in occasione del suo compleanno, ci portò a visitare un posto cui era stato molto affezionato: una base di ricerca sul pianeta Giove. Non fu così entusiasmante all’inizio. La postazione pareva semiabbandonata, e per quanto spaziosa e confortevole era un pò troppo sobriamente arredata e pareva un tantino decadente. D’altra parte suppongo che siano tutte così, quelle basi che furono costruite in un’epoca fiorente, e che ora sopravvivono nell’attesa di un eventuale ritorno di tempi migliori. Ma da lui trapelava la voglia di condividere con noi una parte importante della sua vita che doveva essere stata piena di emozioni e scoperte, di quelle che lasciano un segno perenne. Tutto ciò era contagioso, perciò eravamo pieni di aspettative, divertiti ed eccitati.
La prima cosa che volevamo sapere, naturalmente, era se il pianeta fosse abitato. Non ci aveva detto niente al proposito, e quindi avevamo concluso che non lo fosse. Sarebbe stato troppo bello e inoltre, se vi fossero stati animali o persone, certo ce ne avrebbe parlato.
D’altra parte la sua vita deve essere piena di cose non dette, così, tanto per non dare l’impressione di vantarsi di conoscere cose a noi precluse. Mi sono fatta l’idea che si comporti in questo modo perché non vuole toglierci la gioia della scoperta, e che lui pensi che nella vita ognuno ha il diritto di essere pioniere.
Noi più grandi eravamo convinti che il pianeta fosse deserto ma entrammo nel gioco quando il fratellino più piccolo chiese a nostro padre di vedere i nativi di Giove. Lui, misterioso, gli rispose: “Non so se ce ne sono, vediamo”. Lo prese per mano e lo condusse da un ufficiale in servizio alla base, una donna bionda in divisa che sorrideva silenziosa seduta davanti agli schermi. La donna prese un oggetto di vetro con sottili corde metalliche che poteva ricordare un diapason o una piccola cetra; lo posizionò con cura davanti a sè e vi inserì con lentezza un disco di materiale trasparente. Attendemmo. Si sentì una musica, ma non erano che note di un jazz. Ridemmo tutti, anche lei. Lo strano oggetto aveva captato nient’altro che il segno di una precedente presenza di terrestri sul pianeta. Evidentemente quando la base era più frequentata il personale passava il tempo ascoltando musica di casa. Ma la donna continuava a guardare in silenziosa attesa il congegno e le corde di metallo pronte a captare suoni e vibrare. A un certo punto sentimmo una musica diversa, straordinariamente melodiosa. Pareva prodotta da un solo strumento, probabilmente a corda, del tutto sconosciuto per noi. Non poteva che essere la musica degli abitanti di Giove.
La cosa ci riempì di curiosità. Ci domandavamo se quegli esseri vi fossero ancora. Avevamo compreso infatti che il congegno poteva captare anche suoni di tempi remoti.
Ma non facemmo altre domande a mio padre. Egli ci condusse a visitare i dintorni della postazione e sostammo davanti a un corso d’acqua seminascosto da un alto canneto. Ed ecco che sopraggiunse una piccola imbarcazione che si avvicinò a noi e attraccò alla sponda. L’uomo che ne scese per primo si avvicinò a mio padre e lo salutò con naturalezza, come se si conoscessero da tempo e non fosse sorpreso di rivederlo. Anzi, aveva tutta l’aria di essere informato del suo ritorno. Dopo di lui scese la sua famiglia: la moglie e numerosi figli, di età varia. Erano come i nostri primitivi, eppure avevano forme armoniose e una certa eleganza nel movimento e nei gesti. Non portavano alcun tipo di veste e i loro capelli erano incolti, ma dorati, e quell’oro splendente contrastava col colore della pelle decisamente scuro, anche se non come i nostri neri o mulatti, ma più scuro di quanto potremmo aspettarci da un bianco abbronzato. Mio padre ce li presentò, e disse al nostro fratellino di non spaventarsi: erano amici, e poteva giocare con i bambini più piccoli.
Ciò che più mi sorprese, piacevolmente, degli abitanti di Giove, fu che fossero tutti, invariabilmente, ambidestri.
Commenti
4 risposte a “Un compleanno”
È un racconto speciale, dove al gusto del fantascientifico, della scoperta, dell’immaginario, si assommano desideri, affetti, ideali… Le delicate emozioni che si vivono paiono voler sfuggire una quotidianità spesso caotica e arida, per farci rifugiare nel sogno. E sono la sapienza e l’amore di un padre che dolcemente e intelligentemente si fanno guida lungo un percorso di significazioni premurose e umane. I suoi saggi silenzi divengono magicamente rassicurazione e spinta progressiva all’indagine, alla sana curiosità, alla creatività, all’esplorazione. Tutta l’ambientazione, scaturita dalla inventiva e da quella psicologia insita in chi scrive, dà colore e forza alla aspirazione di quiete e di serenità. L’essere umano avrebbe molto da imparare dalla primitiva semplicità, dalla schietta naturalezza, dalla pacata impronta, che appartengono agli abitanti del luogo (addirittura ambidestri, quasi a segnare la loro completezza non solo fisica), per rendere la vita più saggia e vivibile
C’è mancanza di fretta, nel racconto, non si avverte ansia alcuna e tutto scorre in una soave esistenza ed in un’accattivante atmosfera, al fascino di una natura incontaminata ed all’incanto dolcissimo di una musica quasi celestiale. È un sogno, ma come vorremmo fosse la nostra realtà!
In questa prosa deliziosa, in un clima di verbalità fluida e armoniosa, si dà un senso alla parola e si tenta l’aggancio ad una dimensione felice
Gian Gabriele Benedetti
Piacevole lettura*) Magari quello strumento a corda è il monocordo di Pitagora:
http://www-phys.science.unitn.it/~oss/nsm/Scalemusicali.pdf
A me, ad ogni modo, è venuto in mente quello, ci son tutte le 8 note. Chè salir la scala di Giacobbe sia una questione di “ponticelli”? Come suonare a due mani.
bel racconto, delicato e profondo,in cui si proietta la ricerca e il bisogno di equilibrio e serenità
Grazie, Gian Gabriele, Bianca e Marisa. Posso confessare ora che si tratta della descrizione esatta di un sogno che ho fatto la notte dopo il festeggiamento del compleanno di mio padre. Ricordo che avevo detto, il giorno prima: “Non mi sento più a mio agio, è come se mi avessero strappato il pianeta da sotto i piedi e lo avessero sostituito con un altro”. Inoltre poco prima avevo letto un commovente sogno di Freud in cui egli auspicava per suo figlio una “visione bioculare”, che mi sembra corrisponda agli abitanti “ambidestri” di Giove. Credo che i nostri padri e maestri ci avessero preparato ad un mondo diverso da quello con cui abbiamo a che fare in questo periodo, ed è in base a questa considerazione ho pensato fosse importante condividerlo. Buon Natale!