LETTERATURA: Viola Di Grado: “Settanta acrilico, trenta lana”, E/O, 20112 Marzo 2011 di Massimo Maugeri L’ho capito subito che questo romanzo d’esordio della giovane catanese Viola Di Grado (“Settanta acrilico, trenta lana”, E/O, 2011) aveva le carte in regola per lasciare il segno. E il segno che lascia (perché lo lascia: leggere per credere!) discende direttamente dal linguaggio adottato: originale, immaginifico, a tratti cinematografico, graffiante e cinico, ma con punte di lirismo. Una scrittura – quella della Di Grado – che procede per simboli e metafore, che cattura e spiazza al tempo stesso; capace di scuotere, ma anche di fare sorridere. La protagonista del libro è Camelia: una giovane (figlia di padre italiano e di madre inglese) che vive a Leeds: «Un giorno era ancora dicembre. Specialmente a Leeds, dove l’inverno è cominciato da così tanto tempo che nessuno è abbastanza vecchio da aver visto cosa c’era prima ». Il padre di Camelia è morto precipitando con l’automobile in un fosso (con l’amante accanto a lui). La madre non si è più ripresa dallo shock: ha smesso di parlare e ha cominciato a fotografare ossessivamente buchi di ogni genere. Per comunicare con lei Camelia, che intanto – per sbarcare il lunario – traduce manuali di istruzioni per lavatrici, è stata costretta a inventarsi un linguaggio di sguardi. Poi ha incontrato Wen, un ragazzo cinese che lavora in un negozio di vestiti. Si è innamorata di lui e con lui ha cominciato a studiare la lingua cinese e a viaggiare tra gli ideogrammi. È una storia dura e difficile, quella di Camelia: «Che tu mi veda o no io sono quella lì coi capelli neri e il naso prendi tre paghi uno. Quella lì che è già notte, ed è già fine, anche se tu volevi una storia in cui tutto è del suono giusto e del colore giusto, e le farfalle volano, e le persone parlano e amano e parlano e amano. Tu te la puoi permettere una storia di quel tipo. Sai che ti dico? Usala come straccio del bagno, quella storia, o che ne so, foderaci la gabbia del criceto. Insomma, basta che te la levi davanti, qui a Leeds non ti serve, e i ragazzini di Christopher Road te la ucciderebbero per strada ». Viola, come è nata questa storia? «Ho immaginato una storia sprofondata in un luogo soffocante che si trova al di là del tempo e dello spazio, e soprattutto del linguaggio. Dentro la mia storia è sempre dicembre, un disco incantato sul mese più freddo, in cui quattro anni prima è successa una cosa terribile. Dopo il trentuno dicembre, viene di nuovo l’uno. Il calendario è coperto di formaggio sciolto sotto il letto. I giorni della settimana non esistono più. Anche lo spazio è straniato: procede per buchi, che Livia fotografa ovunque in quella casa cadente e lugubre. Volevo che il lettore si sentisse continuamente in pericolo di cadere dentro un buco. E soprattutto, volevo azzerare il linguaggio: prendere le parole da quel luogo infetto che è la vita di Camelia e Livia, da quel luogo svuotato di significati, prenderle insomma come se partissero da zero, e ri-significarle. Parlami di Leeds «Non è affatto una città lugubre e terribile come la vede Camelia. Anzi, a me piace moltissimo. È un palcoscenico di scene estreme, vomito e urla, nevicate violente, ma è elegante e vitale. Era un ingrediente perfetto da trasformare in uno scenario terribile. In quarta di copertina sei paragonata a Amélie Nothomb. «Sì. Amélie mi ha scritto che ha letto il mio romanzo, che è caduta nel buco e che è lusingata di essere paragonata a me. Dolcissima! » (Dal “Corriere Nazionale”) Letto 2510 volte. | ![]() | ||||||||||
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