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ARTE: I MAESTRI: Ecco la «minimal art»2 Ottobre 2014
di Dino Buzzati Venezia, giugno. La geometria è addirittura una dei protagonisti di questa Biennale, tante sono le cose esposte che ai suoi schemi si richiamano. Ma è soprattutto notevole l’avvento di un genere di sculture, o meglio oggetti, di grandi dimensioni, semplici e nude, a superfici piatte e uniformi. Spiccano, anche per i vivacissimi colori, specialmente davanti ai padiglioni della Gran Bretagna e dell’Austria. Ecco la «minimal art», a base di «strutture primarie», che nei paesi anglosassoni costituisce, dopo la «pop art», la nuova grande moda, e riempie le gallerie più avanzate. Il termine « minimal », cioè « minimo », suona curioso e ironico data la statura spesso gigantesca di quei cosi. Il termine più appropriato, già usato da alcuni, sarebbe quello di « arte fredda » o di « sculture fredde ». o anche di «arte essenziale»; ma oramai quell’etichetta è stata adottata dovunque, e per intenderci dovremo ricorrervi anche noi. Le caratteristiche della « minimal art » sono le seguenti: le sagome sono elementari, rigidamente geometriche, specialmente cubi, parallelepipedi, prismi, colonne, tubi, piramidi, coni, piastre, aste, lingotti, putrelle. Quanto più essenziali, tanto più apprezzate. La massa, il peso (apparente), le dimensioni, hanno grande importanza, benché i «minimalisti» più rigorosi, come l’americano Robert Morris, sdegnino di affermarsi per mezzo della imponenza metrica. Sono di ripetibilità facilissima, l’artista le può ordinare per telefono, dando le precise misure, a un artigiano del ferro, del legno e delle materie plastiche. Viene meno quindi automaticamente il concetto tradizionale del « pezzo unico ». Regolarità e uniformità sono requisiti fondamentali (per esempio vari cubi appesi in fila su una parete, oppure uno schieramento di grandi contenitori tutti uguali). Rifuggono dalla complessità e dall’emozionante; la loro espressione — si dice — scaturisce dal rifiuto stesso dell’espressione. Mutano significato, o addirittura lo perdono, a seconda dell’ambiente in cui si trovano. Mentre una statua tradizionale rimarrà sempre una statua dovunque la si metta, molte di queste nuove sculture non si possono più riconoscere per tali se le incontriamo ad esempio in uno stabilimento metalmeccanico, dove possono facilmente essere scambiate per strumenti o prodotti industriali. Ma quali possibilità hanno, sul piano dell’arte? Esse esprimono — sempre secondo i fautori — lo sforzo creativo dell’uomo primigenio. In un certo senso qui si parte dallo zero, alla natura non si dà neppure un’occhiata; come l’uomo delle caverne il quale con l’argilla, la pietra, il legno, quasi per affermare la sua presenza sulla terra e il suo oscuro anelito di libertà e di dominio, cercava di costruire qualcosa uscito soltanto dalla sua testa che non avesse niente a che fare con l’ambiente in cui viveva, anzi con questo ambiente strideva. Certo, chi le vede per la prima volta, è probabile le giudichi anonime, gratuite, prive di senso. L’assenza totale delle lusinghe a cui ricorrevano gli artisti classici le può far sembrare dei semplici oggetti ingombranti e inutili. Un loro punto debole a me sembra essere la necessità di notevoli dimensioni: l’Apollo del Belvedere in formato tascabile sarebbe sempre un capolavoro mentre una di queste sculture cesserebbe d’esistere. Ma infine qual è il succo della nuova corrente? A quanto ho capito, i meriti sarebbero specialmente due; primo, l’arte «minimalista», per le sue stesse caratteristiche, esprimerebbe una ricerca di purezza, se non di sublime, così da poter apparire una sorta di neo – classicismo. Secondo: le « strutture primarie », nei casi felici, emanano una forte corrente di mistero. La loro medesima inespressività, si dice, le rende enigmatiche. E lo stesso fastidio che possono dare — per le massicce dimensioni, per le posizioni spesso sghembe e problematiche, per la loro impenetrabilità — genera alla fine in noi una inquietudine, un sospetto, un’attesa, quasi che da quei blocchi qualcosa, che adesso non vediamo, possa uscire all’improvviso. Personalmente ho cominciato ad apprezzarle quando ho pensato a due cose: intanto ho ricordato quale potentissima impressione, nel mezzo di un deserto, facesse qualsiasi cosa — un palo, una scatola, una lamiera di macchina — rivelante un precedente passaggio dell’uomo. Poi ho considerato che anche le mastabe e le piramidi degli antichi egizi in fondo non erano che « strutture primarie » sviluppate in proporzioni ciclopiche: se la tomba di Cheope, una delle sette meraviglie del mondo, fosse grande come un salvadanaio, chi mai la prenderebbe in considerazione? Phillip King, che domina nel padiglione della Gran Bretagna, qualche anno fa — come lo dimostra il suo « Genghis Khan » a forma di tenda tartara — non aveva ancora assunto quella austerità di disciplina formale che persegue oggi con tacitiani blocchi, stele e lastre, monocrome ma accostate a dare violenti contrasti di colore. Domandarsi se siano « belli » mi sembra insensato. I consueti criteri di giudizio estetico sfuggono di fronte a queste immagini. Molti sostengono che la « minimal art » è nata nel contesto delle grandi città industriali americane e inglesi, che è concepita per essere collocata in mezzo a nudi pinnacoli di cemento o d’acciaio. A me sembra proprio l’opposto; appunto perché rappresenta un risoluto contrasto con la libera natura, io la vedrei piuttosto in un giardino, in un parco, o meglio in una landa selvaggia o in una solitaria valle alpina. Meno essenziale, tanto che alcuni potrebbero contestargli la cittadinanza «minimalista», l’austriaco Roland Goeschl, che in ferro e legno colorato costruisce delle «formazioni tettoniche» squadrate come cristalli. « Non sono sculture in sé — si legge sul catalogo — né forme plastiche nello spazio, bensì forme che includono lo spazio » ; e il colore giallo corrisponde all’« esterno », mentre rosso e azzurro significano l’« interno ». Anche all’interessantissimo Carel Visser, che occupa l’intero padiglione dell’Olanda, si avverte una certa aria di « strutture primarie ». Egli infatti lavora quasi esclusivamente componendo delle forme rigorosamente regolari, a realizzare severi ritmi architettonici. E non sarebbe difficile considerare nella medesima famiglia anche il canadese Ulysse Comtois (pile di lastre regolarissime accatastate su di un unico asse) e il colombiano Edgar Negret, le cui lamiere di ferro, saldate con bulloni e dipinte di abbacinante carminio; richiamano forse troppo certe sagome naturalistiche per poter rientrare nell’ortodossia. In quanto all’Italia, non so se possano essere propriamente considerati « minimalisti » Aricò, che allinea obliquamente sulle pareti delle nude sagome bicolori, e Morandini, per le sue sculture programmate in bianco e nero. Certamente lo è Marzot, i cui enormi blocchi neri, distesi pesantemente con le loro superfici a squadra, raggiungono senza dubbio quell’enigmaticità che dicevo prima; non ci meraviglierebbe troppo se di notte si muovessero lentamente emettendo dei suoni gutturali. Letto 1978 volte.
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