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ARTE: I MAESTRI: Martini. Autodidatta con la coscienza del genio16 Aprile 2014
di Vittorio Rubiu Treviso, ottobre Bisogna capirli, i trevigiani. Per molti anni, quand’era in vita, hanno ignorato o quasi l’esistenza di Arturo Martini. E oggi che ricorrono i venÂt’anni dalla morte dell’artista, e il suo nome ha acquistato se non altro il peÂso della storia, ne onorano la meÂmoria con una mostra degna del loro orgoglio di concittadini. Soprattutto bisogna capire Giuseppe Mazzotti, amico devoto di Martini in vita e in morte, il quale nell’ordina- re la mostra ha voluto che fosse straripante di opere: 353, tra scultuÂre grandi e piccole, ceramiche e bozÂzetti di ceramiche, medaglie, dipinti, disegni, incisioni, acqueforti e litograÂfie. Troppa grazia, davvero. PerchĂ© se c’è un artista che esce malconcio da una presentazione in massa della sua opera, questo artista è Arturo Martini. Autodidatta, con la coscienza del geÂnio che si sentiva scorrere nelle vene e l’incoscienza della cultura che inÂvece chiedeva in prestito qua e lĂ , lampeggiante di intuizioni ma rese coÂme inoperanti nel tempo dalla sua natura di vagabondo anche nelle coÂse dell’arte, con una tenerissima veÂna poetica da cui subito rifuggiva per la voglia che aveva di gridare in piazÂza la sua folle presunzione di scultoÂre che « fregava gli antichi », ed era « cinquant’anni piĂą avanti di Parigi ». Ed ecco il punto: si deve ancora indulgere alla fama novecentista di Martini, non risparmiandoci nulla delÂla sua opera di « maggiore scultore italiano della prima metĂ del secolo », e per ciò stesso obbligandoci a una specie di sauna visiva, prima la luce de L’attesa, e poi il buio pesto del TiÂto Livio o del Tito Minniti, eroe d’AfriÂca? Oppure si deve finalmente trovare una giusta misura critica, e non solo fare a meno dei saggi di un mestiere troppo facile e minuto e disinvolto per resistere all’usura del tempo, ma anche e soprattutto darsi la pena d’inÂterpretare sino in fondo il pensiero piĂą intimo e piĂą vero di Martini, e dunque considerare « lingua morta » gran parte di una scultura che oltre tutto appartiene alla storia del costuÂme fascista molto piĂą che alla storia dell’arte? S’è giĂ detto che tra i due possibili modi di presentare al pubÂblico la scultura di Martini, a TreviÂso hanno scelto il primo. E a me, che faccio parte del pubblico, non reÂsta che la pazienza di adattarmici. Si comincia con le opere giovanili degli anni 1905-11 (seguo la cronologia del catalogo). Il palloncino, Testa di bambino, Busto di bambino, Testa di giovinetta, Veneziani del ’700, Il poeta Ventura. Piccole sculture in gesso e terracotta che hanno il valore di cerÂte prove attitudinali. Sì, Martini poteÂva fare il ritrattista, il caricaturista e anche lo scultore, difficile dire coÂme, se al modo di Gemito, Troubetzkoy o Medardo Rosso. Frattanto la mostra prosegue inopinatamente con una serie di ceramiche e modelli per ceramiche. Sirena, Fauno, Donna con chitarra, Mascherina, La fata del boÂsco. E giĂ dai titoli si capisce che queste statuine non vanno oltre il guÂsto piccolo e medio borghese del soÂprammobile grazioso. Ed eccoci alle opere degli anni 1909-1913, anni imÂportanti nella biografia di Arturo MarÂtini, gli anni dell’amicizia con il pitÂtore Gino Rossi e dei primi viaggi all’estero. Gino Rossi amava Gauguin, la Bretagna, i fauves e… Burano. Martini era nato « nomade, irrequieta, con un gran bisogno di un approdo tranquillo ». I viaggi, dunque. Prima a Monaco di Baviera, dove pare che Martini frequentasse la scuola « purovisibilista » di Adolfo Hildebrand e poi a Parigi, che allora era veraÂmente il centro del mondo artistico». Eppure non direi che Martini rimaÂnesse scosso nel profondo da questo suo primo contatto con l’avanguardia europea. Limitandomi alle opere esposte alÂla mostra, e non ho motivo di dubitaÂre che siano le piĂą significative di questo periodo, direi anzi che la sua fu un’esperienza marginale. Nell’Adamo ed Eva e La donna nuda del 1912 c’è con ogni evidenza la deformazioÂne lineare di Matisse, ma inevitabilÂmente appesantita e come snaturata da un primitivismo ed espressionismo di marca tedesca. E il Ritratto di Omero Soppelsa (1913) dĂ a vedere un Boccioni reso ancora piĂą eccessivo nelÂla resa antigraziosa del ritratto, e tuttavia frainteso in ciò che era l’eleÂmento essenziale della sua scultura, la scomposizione-solidificazione dei voÂlumi. Ma a confermarmi nell’idea che Martini guardasse alle scoperte delÂl’avanguardia con occhio distratto, senÂza farsene un problema, non è tanto il giudizio piĂą o meno positivo che si può dare di queste opere, quanto il fatto che siano così rare, e smentiÂte subito dopo da ricerche altrettanto marginali e comunque di segno conÂtrario, vedi la Fanciulla piena d’amoÂre datata 1913, che per l’effetto traÂslucido della maiolica dorata e il deÂcorativismo di gusti macabro sembra addirittura ispirarsi all’esempio di Adolfo Wildt. Così non mi stupisce che, ripresentandosi alla ribalta dopo la lunga parentesi della guerra, MartiÂni entrasse subito a far parte del moÂvimento dei Valori Plastici, e dunque si mostrasse convinto assertore di un ritorno all’ordine, lui che aveva ben pochi disordini da farsi perdonare, e quasi che la « pazzia trevigiana » gli girasse all’incontrario come una forÂma di non richiesta saggezza. Come è vero che a volte la cosa piĂą difficiÂle per un artista è interpretarsi. Martini ha messo molti anni a capiÂre che il suo estro plastico veniva sin troppo castigato da sculture come L’amica del cipresso, Fanciulla verÂso sera, Marinella, Busto di ragazza, Gli amanti, Orfeo. Sculture che verÂrebbe di chiamare nate morte per quanto appaiono retrodatate nel temÂpo, monumenti di un monumento. Ma ecco, oggetto inatteso dopo i molti e severi ricorsi a una tradizione che sembrava dovesse togliere alla sculÂtura di Martini qualsiasi spontaneitĂ e autonomia di linguaggio, Il bevitoÂre del 1926. Dove finalmente il ferÂmento culturale si accompagna a una intenzione nuova, e dove la stilizzaÂzione arcaica della forma, così evidenÂte nella tornitura e profilatura dei voÂlumi, è come il necessario compleÂmento a una grazia popolaresca. E poi la Scoccobrina, una cosa da niente, se vogliamo, ma di un patetiÂsmo che intenerisce la vista, proprio come è tenera la materia da cui è riÂcavata l’immagine. La terracotta de L’attesa, stupendamente inventata nelÂla figura di donna che volgendo le spalle allo spettatore sembra conserÂvare al racconto il segreto di una conÂfidenza poetica. E ancora, la straorÂdinaria frèschezza di apparizione de La sposa felice, quasi una Vittoria di Samotracia affettuosamente casalinga. La morte di Saffo, che segna un perÂfetto punto d’incontro tra l’opacitĂ delÂla materia e la densitĂ sentimentale del tema, e si resta ammirati del moÂdo con cui Martini è riuscito a mimeÂtizzare l’apparenza dell’oggetto nella considerazione dei volumi. La sete, nella doppia versione degli anni 1934-35, immagine non saprei se piĂą terribile o inumana, ma che esce diminuita dal confronto con i calchi in gesso dei cadaveri di Pompei. La pisana, Donna al sole, Il risveglio, sculture forse ineguali e di varia deriÂvazione e però siglate da una sensibiÂlitĂ particolare, che è poi l’irriduciÂbile qualitĂ poetica di Arturo Martini. A questo punto, essendomi deciso a rompere l’ordine cronologico per cercare d’istituire una continuitĂ perÂsuasiva laddove in Martini c’è l’inÂstabilitĂ dei periodi anche migliori, consentitemi d’ignorare i suoi periodi peggiori, le mostruositĂ da foro MusÂsolini che, passando il fascismo dal potere politico a quello culturale, coÂminciano a comparire nelle ordinaÂzioni ufficiali del regime. Letto 3258 volte.

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