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ARTE: I MAESTRI: Ricordo di Longhi

1 Ottobre 2014

di Franco Russoli
[dal “Corriere della Sera”, domenica 7 giugno 1970]

Qgnuno, credo, conosce l’ec­citazione ansiosa con cui si attendono i nuovi scritti di alcuni, pochissimi, maestri. In tale stato d’ani­mo, nell’inquietudine felice di chi si aspetta una rivela­zione che potrà aprire nuo­ve prospettive alla compren­sione della realtà che ten­tiamo di indagare, e mette­re in crisi idee e metodi che si ritenevano sino allora ac­certati – così, sempre – ab­biamo atteso gli articoli e i libri di Roberto Longhi. Si intenda bene: dalle sue pa­gine non ci venivano impo­sti messaggi dogmatici, né sistematiche teorie da appli­care passivamente. Ma da lui veniva una continua lezio­ne di coraggiosa libertà nel­la ricerca, di indipendenza dagli schemi. Ogni volta Longhi ci dava l’esempio di come un immenso patrimo­nio di cultura, strenuamen­te raccolto, dovesse essere posto in diretto confronto con l’esperienza delle « co­se », e come da tale verifi­ca dialettica potesse nasce­re l’illuminazione che scar­dina le convenzioni.

Tale comportamento era quanto mai lontano dalla si­cumera senza problemi del conoscitore-attribuzionista a tutto o a mezzo servizio, come dalla presunzione degli infaticabili tessitori di astratte trame di problemi senza oggetto. Era invece l’atteggiamento di chi cerca d’identificare, nell’amorfa di­stesa dei documenti e delle opere, i diversi e intricati momenti e percorsi della cul­tura umana trasfigurata in linguaggio poetico. Le im­magini dell’arte erano con­tinuamente riportate a testi­monianze di vita, recupera­te dalla cristallizzazione no­zionistica o estetizzante al flusso eternamente attuale della storia dell’uomo. La do­te dell’intuizione doveva ope­rare i propri miracoli entro il campo, condizionante, del­la più ampia e faticosamen­te controllata conoscenza, e far disciogliere così il lampo abbagliante dell’individuazio­ne, del riconoscimento ap­parentemente rabdomantico, nella luce diffusa e matu­rante della meditazione sto­rica.

Questo accordo geniale di intuizione e di riflessione, che sulla pagina si offriva nei resultati affascinanti di un linguaggio inimitabile per la fusione del concetto nella creazione verbale, si cercava di coglierlo « sul fat­to », quando avevamo la for­tuna di assistere agli incon­tri diretti di Longhi con l’opera d’arte, per musei o per mostre, e nelle visite a mo­numenti e collezioni private. Raramente spettatori sono stati più attenti e sospesi, e ogni volta illuminati e sor­presi non tanto dal tiro ag­giustato dell’attribuzione ri­velatrice, quanto dalla aper­tura imprevedibile che essa forniva a nuove visioni pro­blematiche, a più diramate «precisioni» storiche.

Poteva sembrare distaccato, in una sua ironica sicurezza, Longhi, quando sogguardava le opere d’arte, e volgeva a noi gli occhi sorridenti, soc­chiusi dietro il fumo della sigaretta sempre pendula dal labbro, sornione, in attesa (un grande attore di un film francese del tempo di Car­nè, di Duvivier). Ed era te­so, intento, molto più di noi tutti tremuli e confusi: ver­tiginosamente elaborava i dati, collegava elementi stili­stici e culturali, dipanava i fili più segreti di una tra­ma che poteva apparire tut­ta esibita, per rivelarne strutture ignote. L’indicazio­ne a sorpresa, l’illumination che ci colpiva nonostante ne attendessimo ogni volta l’ar­rivo, era poi data senza al­cuna ricerca di effetto, ma­gari come constatazione alla quale si fosse giunti insie­me, talora come una bonaria o tagliente battuta di spiri­to, nascondendone la porta­ta culturale nell’estro di un gioco di parole. Un esercizio questo, che in lui assumeva carattere di metodo e di atteggiamento intellettuale quanto morale e poetico.

Ci liberava così dalla sog­gezione alle idee preconcet­te, alle gerarchie prestabili­te, invitando non alla pre­sunzione dell’infallibilità, ma alla esigenza di rimettere sempre tutto sul tappeto, per giocare la mossa utile a far progredire e ad animare la partita del sapere e del com­prendere. Insegnava come di­sporsi mentalmente e spiri­tualmente alla ricerca, non dava le regole di un sistema: ed era questa una vera at­testazione di fiducia e di ri­spetto verso la libertà e la qualità individuale degli al­lievi. Chi ha creduto di ap­plicarne passivamente le nor­me, di plagiarne le mosse, ha deluso la sua aspettativa di maestro, ha meritato il suo compassionevole sarcasmo. Da lui si doveva imparare a essere se stessi, coscienti e responsabili nell’orgoglio co­me nella modestia, mai re­missivi ma pronti all’auto­critica. Che poi le sue am­missioni di errore, avessero la forza tranquillamente or­gogliosa di folgoranti affer­mazioni, e portassero ancora la carica di nuove ipotesi suggestive e di rivoluziona­rie proposte, questo è pri­vilegio del genio e del poeta.


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Bart