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ARTE: LETTERATURA: I MAESTRI: Il segno di Montale

28 Gennaio 2016

di Alberico Sala
[dal “Corriere della Sera”, domenica 19 novembre 1969]

Un evento (come il sole che smalta i prati di Saint Vincent, di questa stagione, con i monti nitidi intorno), la mostra delle litografie di Euge­nio Montale, elegantemente montata in una grande sa­la dell’Hotel Billia. I gran­di fogli (56 per 76), solidi, sonori, sono ventotto, im­paginati in quattro cartel­le: gli esemplari numerati dall’uno al settantanove, controllati dal notaio. Mon­tale li ha firmati a mati­ta. sul margine in basso, a destra. Autografa è anche la presentazione che apre ogni cartella, una splendi­da, intensa prosa, nella qua­le, con confidenza ed umil­tà, il poeta spiega la gene­si di questi disegni.

«Nell’estate del ’62 e in quella del ’66 trovandomi al Forte dei Marmi arma­to di penna stilografica e di un semplice taccuino buttai giù quello che poi intitolai “Diario di Versilia”, anzi dell’ex-Versilia: picco­li schizzi… La Versilia io l’ho vissuta, seppure con larghe interruzioni, per un buon quarantennio: da quando era ancora l’eden quasi desertico scoperto an­ni prima da Adolfo Hildebrand e poi dall’alcionio D’Annunzio, fino alla sua totale inserzione nella ci­viltà del cemento e nell’in­dustria del benessere coat­to… Ho guardato con af­fettuosa ironia quanto so­pravvive della Versilia di un tempo: una natura fat­ta di grandi spazi e di suggestivi ” interni “, una na­tura larga e ancora a mi­sura dell’uomo. Se fossi un vero pittore avrei conse­guito risultati ben maggio­ri, ma sarei stato tradito dalla perizia tecnica, dagli inganni del “mestiere”. Per me questo pericolo non esi­steva ».

Montale conclude la pagina, esprimendo « sorpre­sa ed ammirazione » per gli esiti esemplari che Sandro Maria Rosso, un mistico, si direbbe, dell’arte della stampa, ha ottenuto « quasi dal nulla ». La dilatazione del grafico, non ha disper­so l’equilibrio delle compo­sizioni, rarefatto il momen­to di poesia, la forza e l’e­stro affettuosi del segno. Il « piccolo diario » fissa gli aspetti più domestici e fa­miliari della recita marina, trascura splendori ed orrori. I fogli sono gremiti di vita quotidiana, di uomini, donne, bambini, uccelli, og­getti, senza temere le pro­poste d’un racconto. Nel 1953, Montale osservava, da Parigi: « Quasi tutti i gran­di vecchi non hanno taglia­to completamente i ponti con l’aneddoto ». Dello stes­so anno, è un’altra dichia­razione, illuminante: « … Da allora è proprio la gioia che è scomparsa dal mondo; e data da allora, dalla disin­tegrazione impressionista, quella totale sfiducia nella mimesi, nell’arte come imi­tazione del vero, quel neo­arcaismo che resterà il se­gno distintivo del nostro tempo… il naturalismo, per ora, sembra morto ».

Naturale è il disegno montaliano. Conferma il suo amore per la pittura, i co­lori, adiacente, anche nel tempo, a quello per la mu­sica. Se ne sono avute pro­ve in diverse occasioni: vo­lumetti rari, come lo scheiwilleriano Accordi e pastel­li; pagine appartate, come quelle che introducono ad Amo l’estate, di Beppe Bongi, il libro vallecchiano che contiene sei acquerelli di Montale, piccoli disegni co­lorati — precisa il poeta — « con vino, caffè e vaghe tracce di lipstick ». E, pos­siamo aggiungere, gessetti, dentifricio, rossetto, che ri­mandano alle paste alte di Fautrier, al gioco e all’in­venzione (anche materica, in anni non sospetti), ma che, soprattutto, magica­mente, aprono la borsetta di Dora Markus, chiarisco­no i nessi profondi della parola e del segno.

Nei grandi fogli, annotati nelle estati versiliane (quando Montale poteva di­scorrere con Carrà e Sof­fici, De Grada e Achille Fu­ni), lievitano candore e ma­linconia, gioia ed ironia, le armi e le ferite più remote dell’artista.


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