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ARTE: LETTERATURA: I MAESTRI: Il segno di Montale28 Gennaio 2016
di Alberico Sala Un evento (come il sole che smalta i prati di Saint Vincent, di questa stagione, con i monti nitidi intorno), la mostra delle litografie di Eugenio Montale, elegantemente montata in una grande sala dell’Hotel Billia. I grandi fogli (56 per 76), solidi, sonori, sono ventotto, impaginati in quattro cartelle: gli esemplari numerati dall’uno al settantanove, controllati dal notaio. Montale li ha firmati a matita. sul margine in basso, a destra. Autografa è anche la presentazione che apre ogni cartella, una splendida, intensa prosa, nella quale, con confidenza ed umiltà, il poeta spiega la genesi di questi disegni. «Nell’estate del ’62 e in quella del ’66 trovandomi al Forte dei Marmi armato di penna stilografica e di un semplice taccuino buttai giù quello che poi intitolai “Diario di Versilia”, anzi dell’ex-Versilia: piccoli schizzi… La Versilia io l’ho vissuta, seppure con larghe interruzioni, per un buon quarantennio: da quando era ancora l’eden quasi desertico scoperto anni prima da Adolfo Hildebrand e poi dall’alcionio D’Annunzio, fino alla sua totale inserzione nella civiltà del cemento e nell’industria del benessere coatto… Ho guardato con affettuosa ironia quanto sopravvive della Versilia di un tempo: una natura fatta di grandi spazi e di suggestivi ” interni “, una natura larga e ancora a misura dell’uomo. Se fossi un vero pittore avrei conseguito risultati ben maggiori, ma sarei stato tradito dalla perizia tecnica, dagli inganni del “mestiere”. Per me questo pericolo non esisteva ». Montale conclude la pagina, esprimendo « sorpresa ed ammirazione » per gli esiti esemplari che Sandro Maria Rosso, un mistico, si direbbe, dell’arte della stampa, ha ottenuto « quasi dal nulla ». La dilatazione del grafico, non ha disperso l’equilibrio delle composizioni, rarefatto il momento di poesia, la forza e l’estro affettuosi del segno. Il « piccolo diario » fissa gli aspetti più domestici e familiari della recita marina, trascura splendori ed orrori. I fogli sono gremiti di vita quotidiana, di uomini, donne, bambini, uccelli, oggetti, senza temere le proposte d’un racconto. Nel 1953, Montale osservava, da Parigi: « Quasi tutti i grandi vecchi non hanno tagliato completamente i ponti con l’aneddoto ». Dello stesso anno, è un’altra dichiarazione, illuminante: « … Da allora è proprio la gioia che è scomparsa dal mondo; e data da allora, dalla disintegrazione impressionista, quella totale sfiducia nella mimesi, nell’arte come imitazione del vero, quel neoarcaismo che resterà il segno distintivo del nostro tempo… il naturalismo, per ora, sembra morto ». Naturale è il disegno montaliano. Conferma il suo amore per la pittura, i colori, adiacente, anche nel tempo, a quello per la musica. Se ne sono avute prove in diverse occasioni: volumetti rari, come lo scheiwilleriano Accordi e pastelli; pagine appartate, come quelle che introducono ad Amo l’estate, di Beppe Bongi, il libro vallecchiano che contiene sei acquerelli di Montale, piccoli disegni colorati — precisa il poeta — « con vino, caffè e vaghe tracce di lipstick ». E, possiamo aggiungere, gessetti, dentifricio, rossetto, che rimandano alle paste alte di Fautrier, al gioco e all’invenzione (anche materica, in anni non sospetti), ma che, soprattutto, magicamente, aprono la borsetta di Dora Markus, chiariscono i nessi profondi della parola e del segno. Nei grandi fogli, annotati nelle estati versiliane (quando Montale poteva discorrere con Carrà e Soffici, De Grada e Achille Funi), lievitano candore e malinconia, gioia ed ironia, le armi e le ferite più remote dell’artista. Letto 2267 volte.
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