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ARTE: PITTURA: I MAESTRI: Leoncillo e Fontana9 Febbraio 2016
di Cesare Brandi Non so quale nefasta congiuntura d’astri incomba sull’arte italiana: ma questo infittirsi di decessi è impressioÂnante. Neanche a una settimana di diÂstanza dal cruento incidente, quasi un assassinio che tiene Pino Pascali fra la vita e la morte, di colpo scompaiono Leoncillo e Fontana. Dire che l’arte itaÂliana è in lutto può parere di cavarseÂla con la piĂą banale delle formule; epÂpure bisogna usarla, perchĂ© è vera, perchĂ© risponde alla situazione storica. Leoncillo da trent’anni stava su questa combattuta ribalta e vi aveva sempre sostenuto un ruolo importanÂte, anche se non sempre gli era stato riconosciuto. Ma aveva cominciato nel momento piĂą difficile, quando giĂ MarÂtini e Marino erano protagonisti e staÂva sorgendo luminosissimo l’astro di ManzĂą, mentre Mirko, un suo coetaÂneo, aveva giĂ dato le sue cose figuratiÂve piĂą valide. Leoncillo veniva proÂprio da quel focolaio di cultura che stava intorno a Mirko, ad Afro, a MaÂfai. Così lo conobbi, trent’anni fa, nello studio di Mirko, sul Campidoglio, con quella sua aria mite e diafana: una gran chioma biondo-rossastra sembraÂva lo bruciasse. E nei suoi occhi c’era un’acqua chiara, ma come fosse fontaÂna, come sfumata dalle nebbie o dai vapori; quegli occhi davano la sigla della sua personalitĂ , a un tempo in cerca di una precisione puntuale nella vita come nell’arte, ma continuamente sfumata dalle incidenze quotidiane. Leoncillo doveva sempre rimettersi a fuoco; la sua sottile scontentezza, la sua ricerca incessante, si partivano dalle cose umili, artigianali, per inveÂstire tutta la sua concretezza umana. Leoncillo, con quell’aria assorta o asÂsente, viveva nel mondo, anzi, toccava il polso al mondo con una frequenza febbrile. La sua partecipazione alla politica non era un aspetto superficiaÂle della sua vita, non apparteneva a un impegno doveroso e superficiale: Leoncillo non ha mai ricavato nulla dalla politica, non accettava direttore spirituale fuori della sua coscienza. Ma era un artista: quindi inquieto, quindi sempre pronto a rimettersi in causa, a rimettere in causa passato e presente. Le sue fasi stilistiche, chiamiamole così, furono laboriose e tormentate. Per chi lo vede dall’esterno, può semÂbrare che ci fosse una certa disinvolÂtura nei passaggi: non era così, nell’inÂtimo dell’artista. Nel primo periodo, espressionista come, a quel tempo, fra il ’38 e il ’40 lo era tutta la scuola roÂmana, Leoncillo impose violentemente la sua presenza. Gli attacchi con MirÂko erano evidenti, ma non si trattava di una ripresa abile di stilemi. E giĂ il fatto della trasposizione in ceramica non rappresentava una traduzione meccanica. Leoncillo pensava in ceraÂmica, ma nel modo piĂą eletto; come Michelangelo pensava in marmo, accoÂgliendo cioè le possibilitĂ insite del procedimento tecnico e delle qualitĂ esteriori come una struttura di visioÂne. Ma poichĂ© nĂ© la tecnica nĂ© la maÂteria parlano per conto proprio, in realtĂ solo nella coscienza che le assuÂme in sĂ© e le fa proprie, si sviluppa e si feconda quello che, altrimenti, e nell’ipotesi migliore, è solo grano sulla pietra. La necessitĂ di una strutturazione sempre piĂą solida dell’immagine lo portò allora o a un avvicinamento piĂą verosimile alla realtĂ fenomenica — ma durò poco — o a una sintassi para- cubista. In questi trapassi, con la sua sensibilitĂ pronta, se qualcosa perdeÂva, altre possibilitĂ acquistavano: i raffinamenti tecnici andavano dunque di conserva con la direzione formale. Ci fu un periodo, a cavallo fra il moÂmento piĂą cubista e quello che chiaÂmeremo informale, in cui era riuscito a fondere nella ceramica sottigliezze pittoriche inafferrabili. Era il periodo in cui voleva scolpire l’aria, e nella sua parola vaga e al tempo stesso preÂcisa — Leoncillo era anche un letteraÂto — inseguiva quest’idea come si soÂstiene un aquilone lontano nel cielo, con un filo. Questo filo Leoncillo non lo perse mai. Attraverso le continue ricerche di nuove sensibilizzazioni nelle mateÂrie della ceramica, dalla creta al grès e agli smalti, il suo repertorio tecnico era divenuto così vasto e sensibilizzaÂto, che gli fu agevole trasferirvi tutta la sua precedente ricerca non piĂą conÂdizionata da investimenti fenomenici. Il trapasso all’informale fu per lui un trapasso insito nella qualitĂ della maÂteria che aveva sensibilizzato. CominÂciarono così questi tagli, nei quali lontane assonanze di tronchi d’albero, di rocce resecate, di stalattiti, di borÂraccina, di sottobosco, assurgevano a una grandiositĂ che la sua scultura precedente non aveva mai conosciuto, neanche al tempo della Partigiana di Venezia. Su questa frontiera Leoncillo si era fermato: la sua sala alla Biennale di Venezia dĂ una conferma delle qualitĂ sculturee di questa fase grandiosa, ma anche di una certa stasi di ricerca. E ora il suo cuore si è fermato, che fu ricco e generoso e amante. Ma il suo posto resta; come il dolore che accomÂpagna la sua scomparsa non è di circoÂstanza. Pur se di Lucio Fontana si sapeva che lo minava qualche faccenda al cuore, l’incontro con l’uomo dissipava le apprensioni. Aperto, gioviale anche, con quel sorriso che ricordava a ciaÂscuno o il babbo, o il nonno o Adolphe Menjou, Fontana portava benissimo gli anni e la gloria. NĂ© questa era apÂpassita nell’accavallarsi vorticoso delÂle tendenze, nel continuo far punto e a capo delle nuove generazioni. Anzi Fontana restava sempre un artista di frontiera, e quanto non gli devono anÂcora gli artisti che usano le luci come colori o come segnali senza messaggio. Senza la camera spaziale di Fontana, che è del 1949, non si capirebbe, ad esempio, l’origine del nostro giovane Colombo; e comunque fu un sicuro anÂtecedente dell’attuale voga per l’« environnement ». Quando codesta camera fu ricostruita l’anno scorso a Foligno, sembrava fatta per quella mostra, non accusava certo i quasi vent’anni che erano passati. Purtroppo ho conosciuto poco FonÂtana, e sempre saltuariamente. Mi ricordo che il tempo piĂą lungo, in cui stemmo insieme, fu durante il viaggio — oh, non un lungo viaggio — per anÂdare da Rimini a San Marino. Allora mi disse apertamente e senza vergoÂgnarsene che la domenica la dedicava al nudo, faceva venire una modella e disegnava. A me sembrò che questo spiegasse molto bene il senso d’immeÂdiatezza che si ha di fronte a qualsiasi cosa di Fontana, che sia uovo o conÂcetto spaziale: di un uomo, cioè, che ogni volta tocca terra, e, come Anteo, riprende forza. Questo era il suo seÂgreto, e quanto gli permetteva non giĂ di svolgersi su due binari, ma di consiÂderarli un binario unico, il suo, che ora correva sulla terra, ora nell’aria, sospeso come una seggiovia. Il toccar terra di Fontana risiedeva nella estrema semplicitĂ dei suoi mezzi: la sorpresa che provocava, stava proprio, sulle prime, in questa elemenÂtaritĂ : dei buchi, dei tagli su una tela, della forma di un uovo. In fondo, cosa c’era che non si fosse giĂ visto prima in Kandinsky, in Brancusi? E invece Fontana, inserendosi sulla grande linea dell’astrattismo, non era un ripetitore, sia pure accorto. Fontana, critico di se stesso, giustamente usava la paÂrola « spaziale ». In genere bisogna guardarsi dalle definizioni critiche che si appioppano gli artisti: ma Fontana aveva ragione di usare il termine spaÂziale, perchĂ© egli riusciva a trasformaÂre la superficie in spessore, che è coÂme dire in volume, ma al tempo stesso conservandole il gusto di essere superÂficie. La tridimensionalitĂ che acquiÂstava la tela piana, con i buchi o con il taglio, era anche un modo di dotare il volume di un « interno » di conferirÂgli quindi una dimensione che apparÂtiene all’architettura, alla spazialitĂ architettonica, non alla scultura. PerÂciò i buchi di Fontana, se hanno fatto sorridere o scandalizzare, ciononostanÂte hanno conquistato il mondo artistiÂco, non rappresentano una facile attiÂvazione di Kandinsky, ma una vera, autentica innovazione figurativa. Del resto basta ricordarsi della parentesi espressionista di Fontana, quelle sue sculture sfrangiate, cromatizzate senÂza rapporto naturalistico: e poi rifarsi alle sue prime cose astratte. Due anni fa, alla Biennale, i soli che si salvavaÂno in quella rassegna dell’astrattismo nostrano, che non fossero cose risapuÂte sino alla noia, erano i quadrucci di Licini e quelli di Fontana. Che finezza, che modo di procedere sinuoÂso e attento, in quelle pezzature, in quei sottili elementi lineari. Se nelle sculture espressioniste Fontana, a fuÂria di attaccare e dilaniare l’oggetto, lo faceva uscir da se stesso, come quanÂdo si batte con un sasso il mallo di una noce, rinunciando all’oggetto in partenza, era arrivato a questi tempeÂrati equilibri di masse e di colori che davano un oggetto puro e quasi timiÂdo: ma quanto autentico. Questa sua autenticitĂ lo designava tra i pochi artisti italiani che non teÂmono le maree, i flussi e riflussi delle mode: Burri, Fontana e Capogrossi, e, sull’altra sponda, ManzĂą, Marino e Guttuso. Letto 1611 volte.

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