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ARTE: PITTURA: I MAESTRI: Magritte e Fantomas23 Marzo 2019
di Patrick Waldberg Londra, marzo. Qualche anno dopo il passaggio di André Masson l’« atelier » di Constant Montalt, all’Accademia di Belle Arti a Bruxelles, accoglieva un giovanotto venuto da Charleroi che si chiamava René Magritte. Era nato a Iessines nel 1898. Silenzioso, di indole melanconica, era uno di quelli che mal si adattano alla condizione offerta all’uomo dal mondo moderno. Lasciò l’Accademia nel 1918, poi sempre guadagnandosi il pane con umili lavori — perché era povero — proseguì le sue esperienze pittoriche influenzato ora dai cubisti, ora dai futuristi, malcontento dei risultati che tuttavia erano assai promettenti. Questo durò fino al giorno che un amico, il poeta Marcel Lecompte, gli mise sotto gli occhi la riproduzione di un quadro di Giorgio de Chirico, Il canto d’amore. Ne fu così emozionato che cominciò a piangere. Lo spaesamento Il Maestro degli Enigmi gli aveva rivelato che era possibile rappresentare la realtà in modo tale da includervi non soltanto il sogno, ma anche tutta la carica emotiva degli eventi vissuti durante l’infanzia. Si arriva così alla rappresentazione di un mondo i cui elementi sono tutti immediatamente riconoscibili mentre le loro relazioni abituali, quotidiane, sono del tutto sconvolte. Tale spaesamento ha l’effetto di far piombare lo spirito in uno stato di rapimento analogo a quello che prova il bambino leggendo un racconto delle fate. Magritte allora capì che perseverando in una ricerca puramente plastica voltava le spalle all’essenziale, cioè alla ricerca, in arte, di una rappresentazione suscettibile di uguagliare, come potere di sortilegio, le emozioni infantili o i sentimenti provati negli istanti più intensi della vita. Da allora il problema dell’arte non si poneva più ai suoi occhi in termine di estetica, ma piuttosto di poetica. A partire dal 1926, data del suo primo quadro veramente magrittiano, egli ci ha dato un’opera nello stesso tempo molto semplice e affatto sconcertante. E’ una lunga meditazione, che non ha l’eguale nella storia della pittura, sulla natura della realtà concepita come trampolino del mistero. Le figure, gli oggetti, i paesaggi che egli ci fa vedere sono normali: una donna nuda, un uomo con cappello e soprabito, case, finestre, porte, cieli, nuvole, montagne, sèdie, strumento musicale, sonaglio, uccello, fiore, e così via. Tutto è tratto dall’arsenale familiare della vita quotidiana e banale. Ma in ogni quadro ognuna di quelle creature o di quegli oggetti si trova privato del suo significato consueto: appare in un nuovo contesto dotato di nuove proprietà e la sua presenza, a cui noi eravamo così abituati da non accorgercene neppure, si impone d’improvviso ai nostri occhi in tutto il suo mistero. Qualità e quantità esagerate o ridotte, analogie imbarazzanti, contrasti, mutazioni, inversioni dei segni, spaesa- menti nel tempo e nello spazio, ecco alcune delle più semplici operazioni di questa sorprendente alchimia. Il risultato, in certo modo, ha un sapore di fiaba, di quel desiderio infantile che fortunatamente talora sopravvive nei grandi, di oltrepassare le leggi che ci inceppano: resistere al fuoco, passare attraverso i muri. librarsi nell’aria. Magritte amava raccontare un ricordo d’infanzia che per tutta la vita lo aveva accompagnato. A otto o nove anni andava a giocare con una bambina, cui era molto affezionato, in un vecchio cimitero abbandonato e quasi sempre deserto, le cui cripte in rovina servivano loro da nascondigli. Un giorno che si erano attardati nell’ombra di una di queste cappelle, come ritornarono alla luce, videro un uomo davanti a un cavalletto, intento a dipingere. A questo spettacolo Magritte fu preso da una emozione straordinaria. « Fui colto all’improvviso — mi disse — da un sentimento di mistero che non avevo mai conosciuto, provai un’immensa felicità ». Non c’è dubbio che questo episodio contribuì fortemente a determinare una precoce vocazione di pittore. Pensieri-immagini Un altro elemento che contribuì a orientare, non già questa vocazione, ma il significato della sua opera, fu la appassionata lettura tra i dodici e i quindici anni, di Fantomas, interminabile romanzo di avventure criminali che compariva settimanalmente in fascicolo con la copertina a colori. Fantomas raccontava le imprese di un malfattore pericolosissimo e invincibile, che si appropriava delle identità altrui. Uomo dai mille volti, viveva in case tutte trabocchetti, dove i muri si aprivano all’improvviso sul vuoto, le porte erano finte, gli oggetti più innocenti si trasformavano in armi terribili. Sollevata al più alto livello poetico, si ritrova, nell’opera di Magritte, quell’incertezza sull’identità degli esseri e delle cose, la cui intuizione gli fu suggerita appunto da Fantomas. I quadri di Magritte — una splendida raccolta viene esposta in questi giorni alla Tate Gallery — più che delle pitture, sono dei pensieri-immagini, che senza tregua rimettono in discussione la realtà Vi si fondono, secondo il processo di una dialettica estremamente pura, l’incubo e l’incantesimo. Grazie ad essi l’angoscia umana ha conosciuto una nuova dimensione.
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