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CINEMA: I film visti da Franco Pecori

10 Gennaio 2009

[Franco Pecori dal 1969 ha esercitato la critica cinematografica – per Filmcritica, Bianco & Nero, La Rivista del Cinematografo e per il Paese Sera. È autore, tra l’altro, di due monografie, Federico Fellini e Vittorio De Sica (La Nuova Italia, 1974 e 1980). Nel 1975, ha presentato alla Mostra di Venezia la Personale di Jean-Marie Straub e Danièle Huillet; e alla Mostra del Nuovo Cinema di Pesaro, con Maurizio Grande, una ricerca su Neorealismo: istituzioni e procedimenti (cfr. Lino Miccichè, Il Neorealismo cinematografico italiano, Marsilio). Dal 2002, ha tenuto per 4 anni, sul Televideo Rai, la rubrica settimanale Film visti da Franco Pecori. Noto anche come poeta, Pecori può vantare la stima di Franco Fortini.]

Sette anime

Seven Pounds
Gabriele Muccino, 2008
Will Smith, Rosario Dawson, Woody Harrelson, Michael Ealy, Sarah Jane Morris, Bill Smitrovich, Elpidia Carrillo, Robinne Lee, Gina Hecht, Joe Nunez, Bojana Novakovic, Judyann Elder, Tim Kelleher, Barry Pepper.

Sette, numero magico. Sette vite da cambiare per redimere la propria anima (in inglese, l’anima quando si libera dal corpo ha un peso, pound. Ricordate 21 Grammi?). Will Smith ci mette la faccia, ce la mette tutta e riesce quasi fino in fondo ad essere convincente nella costruzione di un personaggio/vicenda misterioso, cattivo e buono, esattore delle entrate rigido nell’osservanza del ruolo quanto comprensivo nel rispetto dell'”umanità” del contribuente. Il regista, sulla scia di una Ricerca della felicità (2006) che sembra ancora in corso, continua a tenere il piede in due staffe, il problema sociale e la dimensione umana, accentuando stavolta il passo interiore del cammino. Muccino è bravo nella tecnica di ripresa e monta le scene con scaltrezza attrattiva, anche troppa. Però i temi che emergono dal racconto e che suggeriscono questioni fondamentali sulla vita e sulla morte, sull’amicizia, sul perdono, sulla redenzione (l’elenco sarebbe lungo) sono come prigionieri di un elemento che resta fuori dal film per quasi tutto il film, secondo un disegno che si rivela “furbo” a livello di sceneggiatura (Grant Nieporte). E la struttura del racconto finisce per perdere la sua vaga suspense psicologica per trasformarsi in una storia “commovente” di cuore – senza nulla togliere alla bravura di Rosario Dawson (La 25ma ora, Sin City, Eagle Eye), nella parte di una delle sette anime da aiutare, e più in generale nel rispetto di un cast non certo trascurabile, dove spicca il nome di Woody Harrelson (Non è un paese per vecchi, A Scanner Darkly, After the sunset).

Lasciami entrare

Låt den rätte komma in
Tomas Alfredson, 2008
Kare Hedebrant, Leandersson, Per Ragnar, Henrik Dahl, Karin Bergquist, Peter Carlberg, Ika Nord, Mikael Rahm, Karl-Robert Lindgren, Anders Peedu, Paul Olofsson, Cayetano Ruiz, Patrik Rydmark, Johan Sömnes, Mikael Erhardsson, Rasmus Luthander.
Torino 2008, fc.

In una Svezia anni Ottanta, povera, periferica, le sofferenze di un bambino bisognoso di affetto e di protezione. Il padre vive praticamente separato dalla moglie (quando appare fa felice il figlio facendolo scorrazzare con la moto sulla neve), la madre ha difficoltà a gestire l’educazione del bambino. Oskar (Hedebrant), dodicenne, si sente per lo più solo e impotente. Divora le notizie di nera, le ritaglia e le conserva, mentre subisce il bullismo dei compagni di scuola. Di nascosto accarezza l’idea di difendersi col coltello, ma gli manca il coraggio. Quando avviene uno strano delitto non lontano da casa sua, il piccolo sente che attorno a sé si sviluppa una certa tensione. E anche lo spettatore se ne accorge. Del resto, fin dall’inizio ha osservato che proprio accanto alle finestre dell’appartamento di Oskar ce n’è una stranamente oscurata da un cartone. Solitario, il bambino esce anche di sera. Nell’atmosfera glaciale gli compare accanto una misteriosa bambina coetanea, Eli (Leandersson), con la quale fa amicizia. Il mistero dura non più di tanto. Il regista ci rivela presto la condizione della dodicenne, con una serie di particolari visivi e sonori. Oskar verrà a sapere più tardi che la sua amichetta è una vampira (dodicenne da molto tempo). Il padre, poveretto, si sacrifica a procurarle il sangue necessario alla sua sete. Poi man mano, altre persone vengono coinvolte nella vicenda, la cui efferatezza (qui la chiave stilistica del film) progredisce in modo quasi ovattato, senza sussulti di speciale violenza, mentre il bisogno di protezione si va fondendo in Oskar con il sentimento di un’attrazione che gli fa chiedere a Eli se vuole diventare la sua ragazza. Tutto sembra restare nei limiti di un rapporto tra bambini mentre i fatti sono sempre più orribili. Il contrasto tra la dolce amicizia/solidarietà tra Oskar ed Eli e il sangue che fa da contorno “situazionale” è l’altra chiave di lettura, che apre la medesima porta. Alla domanda inevitabile e classica su “che cosa ha voluto dire il regista”, cioè sul senso del film, si resta imbarazzati. Vero è che i due piccoli protagonisti suscitano compassione e che vorremmo in qualche modo aiutarli ad uscire dalla loro angoscia. La vampira è conscia del suo “male” e confessa ad Oskar: «Io lo faccio perché devo, mettiti al mio posto per un po’». Ma è qui il punto, il normale e il mostruoso si toccano. Non è certo una novità assoluta, è anzi la molla che spinge moltissime opere della storia delle arti, cinema compreso. Ma il coinvolgimento dei giovanissimi nel mondo “parallelo” dei vampiri finisce per caricare il racconto  di una valenza di “necessità” piuttosto ambigua. Ora, un conto è l’ambiguità del linguaggio artistico, polisenso per sua costituzione, un conto è il senso di una condizione di inevitabilità quasi-metafisica della “fuga” dalla realtà. Qui non c’è più l’horror del genere e forse non è un caso. E comunque siamo in una zona non più “protetta” (da chiaro codice), com’era invece per Nosferatu e per gli altri Dracula. Con Twilight e con questo Lasciami entrare che gli fa da contrappunto, il vampiro è aria che si respira.

Yes Man

Yes Man
Peyton Reed, 2008
Jim  Carrey, Zooey Deschanel, Terence Stamp, Sasha Alexander, Patrick Labyorteaux, Rhys Darby, Sean O’Bryan, Maile Flanagan, Fionnula Flanagan. 

Chi avesse visto nella maschera di Jim Carrey (The Truman Show, Una settimana da Dio, Se mi lasci ti cancello, Number 23) il veicolo di una simpatia superficiale ha l’ennesima occasione per ricredersi. Il temino è semplice: se dici no a tutte le occasioni non vivi la vita, ma attenzione a non dire sempre e comunque sì! Devi farlo solo quando il cuore te lo comanda. Detta così, è una pedagogia alquanto inutile. Si capisce, ogni “lezione” va interpretata non meccanicamente ma seguendo e comprendendo l’esperienza. C’è di mezzo, però, la bravura del protagonista – e del regista (Ti odio, ti lascio, ti…, Abbasso l’amore), il quale sa valorizzarne le espansività metaforiche. Infatti Carrey non tralascia di praticare il paradosso, utilizzandone i possibili risvolti con precisissima attenzione ai particolari, ai tempi, ai modi. Carl Allen è inizialmente uno che dice no ad ogni proposta, il telefono è un incubo, gli inviti gli creano un fastidio quasi insopportabile, le situazioni in cui si trova gli sembrano tutte contrarie alla propria voglia di starsene in santa pace, per conto suo. Il repertorio è esposto con cura minuziosa eppure senza pedanteria, il divertimento è progressivo e gradevole. Ma così non si può andare avanti. Arriva il momento che un amico, il più fastidioso, convince Carl ad affidarsi ad un guru del “Sì”. Lo spettacolo del rito collettivo di iniziazione la dice già lunga, ma di lì a poco vedremo ben altro. Carl comincia a dire sì a tutti e a tutto, la sua vita si rovescia come un guanto. Gli inconvenienti non mancano, sempre divertenti e sempre più imbarazzanti, finché certe soluzioni “positive” finiscono per rivelarsi non meno paralizzanti del “divano più patatine fritte” di pregressa esperienza. Ma ecco la molla del cuore. Si chiama Allison (Deschanel: A casa con i tuoi, E venne il giorno). La ragazza è parecchio strana, vive a modo suo, fissata con la libertà. Riuscirà a far rientrare in sé Carl, cioè a riequilibrare il sì e il no che sono in lui. Troppo lo spazio dedicato alla “spiegazione” della problematica (per la verità, semplice solo in apparenza), tuttavia il film viaggia su un treno di comicità intelligente non certo usuale.

 

Valzer con Bashir

Vals im Bashir
Ari Folman, 2008
Animazione.
Cannes 2008, concorso.

Emozionante, coinvolgente. Spedito diciannovenne a sparare a Beirut e nella zona di Sabra e Shatila (prima guerra del Libano, 1982), l’israeliano Ari Folman, ora non più soldato e padre di tre figli, cerca nella memoria le ragioni dei propri turbamenti. La confusa esperienza dei terribili giorni del massacro operato dagli alleati cristiano-falangisti nel campo profughi riemerge per flash successivi e si chiarisce attraverso l’incontro con vecchi amici e commilitoni cercati e ritrovati da Ari per l’indagine introspettiva che dovrà ridare senso alla propria vita. Il regista, documentarista premiato fin dal suo film di diploma (Comfortably Numb, 1991), autore di alcune serie televisive e di due lungometraggi (Saint Clara, del 1996, ha aperto la sezione Panorama al festival di Berlino), prosegue qui nella ricerca espressiva cominciata con le brevi animazioni “documentarie” per la serie The material that love is made of (2004). Folman definisce il suo lavoro come “documentario animato”. L’originalità della soluzione tecnica (combinazione di animazione in Flash, animazione tradizionale e 3D), mentre serve alla resa di una visione estetica altrettanto originale, rafforza l’idea che, nel cinema, la questione “documentario” non sia risolvibile nel senso di una maggiore aderenza alla “realtà”, che appunto sarebbe “documentata”, rispetto ad altri generi. Specialmente in questo Valzer, il “documentario” non è che un modo, scelto dall’autore perché più vicino alla propria sensibilità-necessità espressiva, di raccontare una storia “vera”. La decisiva valenza estetica fa sì che il film trasmetta un senso della “realtà” che va oltre la vicenda personale/intima dell’autore e che tuttavia da essa trae la forza, anche ideale, per una professione non banale, artistica, di pacifismo – «La guerra è talmente inutile da non crederci», ha dichiarato Folman in un’intervista. La distanza tra la dichiarazione e il film si misura appunto in campo estetico. I 15 secondi finali, di immagini non animate che mostrano la disperazione dei profughi per il massacro, non aggiungono una virgola. La cifra grafica (ritmo di montaggio compreso) di Valzer con Bashir resta il principale elemento di costruzione del senso. Proprio nella capacità del regista di introdurci nella profondità della sua memoria – il film è intriso di una continua dialettica associazione-dissociazione – sta l’effetto rivelatore di una “realtà” storica ridefinibile in chiave personale. Se questo è un documentario, questo è un uomo.

Un matrimonio all’inglese

Easy Virtue
Stephan Elliott, 2008
Jessica Biel, Ben Barnes, Kristin Scott Thomas, Colin Firth, Kimberley Nixon, Kris Marshall, Katherine Parkinson,Pip Torrens, Christian Brassington, Charlotte Riley.
Festival Internazionale del Film di Roma 2008, Anteprima-Concorso.

Nel 1927, Hitchock l’aveva vista un po’ più sul giallo (Easy Virtue, con Isabel Jean, Robin Irvine, Violet  Farebrother, Frank Elliot). Nella nuova versione, dell’australiano Stephan Elliott (Priscilla la regina del deserto, 1994, The Eye – Lo sguardo, 1999), il riferimento teatrale resta il medesimo, la commedia di Noel Coward (1924), ma il passato poco chiaro di Larita (Biel), la sposa americana di John (Barnes), il giovane rampollo della famiglia inglese dei Whittaker, passa quasi in secondo piano. La causa delle “incomprensioni” che renderanno impossibile il rapporto tra la nuova arrivata e Veronica (Scott Thomas), la madre di John, è chiara fin dalle prime scene, le due donne hanno una visione del mondo nettamente diversa. Mrs. Witthaker e Veronica sono protagoniste del tipico scontro tra i due mondi: l’Inghilterra e l’America. Siamo nel decennio successivo a quello in cui è stato scritto il testo originale. Il dinamismo sportivo della bionda spregiudicata, sexy, allergica alla campagna, contrasta in modo decisivo con il contegno formale della padrona di casa, della vasta tenuta sul cui verde sconfinato si svolgono periodiche partite di caccia alla volpe. Ironia e sarcasmo a fiumi legano in un gradevolissimo tessuto di battute e di situazioni la partita a due che man mano si complica fino a coinvolgere gli altri membri della famiglia, le due sorelle di John e soprattutto Mr. Whittaker, il padre, ancora “giovane” e disponibile alla comprensione verso l’affascinante nuora. Al culmine della guerra tra donne, Firth, anche sulla scia del recente successo in Mamma mia, trionfa in un tango indimenticabile, liberatorio e quasi eversivo, con la sposa del figlio. Alto il livello delle interpretazioni, nella pura tradizione della commedia inglese. Notevole il debutto di Jessica Biel (Elizabethtown, L’illusionista) americana del Minnesota, nel genere da lei mai affrontato finora. Senza sbavature e aggiornato con pertinenza lo stile di Elliott. Il film esalta con la giusta discrezione ogni aspetto  che possa tradurre il sorriso in aperto divertimento e allarga lo sguardo in un’ottica di “costume”, secondo accentuazioni adeguate ai tempi.

 


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Bart