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CINEMA: I film visti da Franco Pecori

17 Gennaio 2009

[Franco Pecori dal 1969 ha esercitato la critica cinematografica – per Filmcritica, Bianco & Nero, La Rivista del Cinematografo e per il Paese Sera. È autore, tra l’altro, di due monografie, Federico Fellini e Vittorio De Sica (La Nuova Italia, 1974 e 1980). Nel 1975, ha presentato alla Mostra di Venezia la Personale di Jean-Marie Straub e Danièle Huillet; e alla Mostra del Nuovo Cinema di Pesaro, con Maurizio Grande, una ricerca su Neorealismo: istituzioni e procedimenti (cfr. Lino Miccichè, Il Neorealismo cinematografico italiano, Marsilio). Dal 2002, ha tenuto per 4 anni, sul Televideo Rai, la rubrica settimanale Film visti da Franco Pecori. Noto anche come poeta, Pecori può vantare la stima di Franco Fortini.]

Viaggio al centro della Terra 3D

Journey to the Center of the Earth
Eric Brevig, 2008
Brendan Fraser, Josh Hutcherson, Anita Briem, Giancarlo Caltabiano, Garth Gilker.

Con i mezzi che il digitale mette a disposizione, sembra che il cinema voglia restituire al sogno l’immaginazione dello scrittore (Jules Verne). Il tridimensionale Viaggio di Brevig attinge agli anni ’50, non tanto per il precedente del film di Henry Levin (con James Mason allora cinquantenne), versione cinematografica (1959) del romanzo ottocentesco (1864), quanto per il sapore “rétro” che l’aggiornamento tecnologico porta con sé (il cinema in 3D può andare dal Treno dei Lumière ai mancati trionfi della metà del secolo scorso, ai vani “ritorni” dei ’70). A ciò si deve aggiungere il sempre più insistente annuncio dell’immissione delle tre dimensioni su larga scala nel piccolo schermo televisivo. In quest’ottica, la valorizzazione della fruizione stereoscopica delle immagini “giustifica” la vistosa attenuazione del valore interpretativo nelle figure dei personaggi. Il film di Brevig è esplicitamente indirizzato ai ragazzi – diciamo sui 12-13 anni -, ma questo non comporterebbe, di per sé, una certa cancellazione della profondità narrativa. Invece, le immagini sono quasi esclusivamente volte alla “meraviglia” del mondo sotterraneo che si apre agli occhi dei protagonisti. La verosimiglianza delle situazioni cede il campo alla dimensione quasi-onirica costringendo la fantasia nel recinto della libertà gratuita, libertà “garantita” dal potere della tecnologia. La suspence non è relativa al problema di trovare una via di uscita dall’abisso interno al cielo azzurro, né contano granché le nozioni vulcanologiche, immerse come sono nel miscuglio e nella stratificazione di rimandi al cinema d’avventura – la corsa mozzafiato sui carrelli dell’antica miniera non è che una “montagna russa” senza il Tempio Maledetto di Indiana Jones: l’attesa è tutta verso l’invenzione formale e verso le sue soluzioni. È un viaggio di effetti.

Australia

Australia
Baz Luhrmann, 2008
Nicole Kidman, Hugh Jackman, Brandon Walters, David Wenham, Bryan Brown, Jack Thompson, Ben Mendelsohn, Essie Davis, David Gulpilil, Bruce  pence, John Jarratt, Bill Hunter, Jacek Koman, Wah Yuen, Ray Barrett.

Ricca, vedova, vuole vendere il suo ranch. Avidi proprietari terrieri confinanti stanno in agguato, disposti a tutto. Un mandriano, duro e forte, proteggerà la donna, bella e scontrosa. È il West? Più classico di così.. No. Siamo in Australia. Diverso il periodo (i giapponesi attaccano Pearl Harbor e bombardano Darwin), diverso il contesto antropologico. Mandrie e madriani ma nessun pellerossa, ci sono gli aborigeni. La storia è raccontata da uno di loro, Nullah (Walters), un bambino “mezzosangue”, ricercato dagli “sbirri” che, secondo il programma razzista del governo vogliono affidarlo ad uno degli istituti religiosi dedicati alla “salvezza” delle “generazioni rubate” (cfr. La generazione rubata, Phillip Noyce, 2002).  Diverso anche il cowboy coprotagonista. Drover (Jackman) è australiano, bianco malvisto dai bianchi, vive con gli aborigeni; ruvido, si comporta da anarchico (nessuno lo può comprare, nessuno lo licenzierà). L’incontro con la protagonista Lady Sarah Ashley (Kidman), dopo le scintille, produrrà una travolgente storia d’amore – non ne sarà estraneo Nullah, il quale, protetto dall’influsso benefico del nonno “stregone”, funzionerà da polo d’attrazione sentimentale per un happy-end superclassico sullo sfondo del cataclisma bellico. Sarah, aristocratica, viene da Londra e dalla sua vita inutile “dedicata” alla cura della scuderia. Dovrà adattarsi a quel mondo lontano dov’è andata per dare la caccia al marito, persosi nell’Outback australiano per vendere il proprio ranch di Faraway Downs. L’uomo viene misteriosamente ucciso e Sarah, sola nell’ambiente ostile, ha bisogno dell’aiuto di Drover. Dovrà attingere all’energia che ha dentro di sé ed aprirsi a sensazioni ed esperienze ben diverse da quelle londinesi da cui proviene. Sui binari del genere avventuroso e romantico, viaggia un grosso carrozzone di film “antico”, un po’ credibile e un po’ incredibile, lungo, avvolgente, emozionante, commovente, pieno di “svolte” narrative e di “liete” sorprese, in uno scenario naturale ampio e fastoso nella sua splendida (Mandy Walker) “apertura fotografica” . L’Australia funziona da elemento nostalgico, tipo “ultima mèta”, e insieme da polo attrattivo di rinnovati turbamenti post-tecnologici. Dentro questa dialettica, lo spettatore conteso tra Pulp Fiction e Sin City può trovare il ristoro di un piatto caldo e slow, a patto che sappia gestire nel proprio immaginario la cucina di colpi di scena romanzeschi e di scapicolli sentimentali degni di Via col vento senza chiedere inavocabili verosimiglianze referenziali. E bravi i protagonisti: una Kidman revitalizzata dall’amore per il suo paese, un Jackman anch’egli perfettamente ambientato come a casa sua, un Walters bambino fenomenale,  simbolo di una civiltà degna di vivere ancora.

Appaloosa

Appaloosa
Ed Harris,2008
Ed Harris, Viggo Mortensen, Renée Zellweger, Jeremy Irons, Timothy Spall, Lance Henriksen, Tom Bower, James Gammon, Ariadna Gil, Gabriel Marantz, Timothy V. Murphy, Corby Griesenbeck, Bob L. Harris, Cerris Morgan-Moyer, Bobby  Jauregui.

Facile e difficile, come la pittura di Jackson Pollock. A 8 anni dal primo lungometraggio (Pollock, realizzato nel 2000 e visto in Italia nel 2003), Harris torna alla regìa (e al ruolo di protagonista) scegliendo di nuovo, da una parte, la “facilità” – questa volta in chiave di genere (la porta del western sembrerebbe spalancata) – e dall’altra la “difficoltà” di ri-praticare una forma interpretandola in profondità, al di là delle superficiali apparenze. Appaloosa è una piccola città di minatori – New Mexico, 1882 – dove succede una delle più scontate serie di accadimenti relative al cinema western. I cittadini, disperati per i continui soprusi del boss Randall Bregg (Irons), si affidano allo sceriffo e al suo vice (Virgil Cole/Harris e Everett Hitch/Mortensen). Le cose sembrano andare per il verso giusto quando entra in scena la bella vedova Allison French (Zellweger) e la situazione si complica. La più facile osservazione che può venire in mente oggi sul perseguimento del genere western dopo la grande stagione manieristica italiana è che forse non se ne sentiva il bisogno. E invece il film di Harris riafferma decisamente il “diritto” estetico di riprendere la via del western eliminando proprio quel manierismo che ne aveva segnato il declino. Ora, per dirne una, le pause dell’azione, in termini di inquadratura-tempo e di legami tra inquadrature e di scelte prospettiche delle inquadrature, suggeriscono il senso di una riflessione e cancellano (in un’estetica della cancellazione), senza semplificare, le tracce del disimpegno formale. Il racconto procede diritto (che non vuol dire a senso unico), come comandato da un destino narrativo chiaro, modo divenuto inusuale da un po’ di anni. Ciò vale anche nei momenti in cui i “fatti” vengono “turbati” dalle ironie (profonde, leggere). Né per questo i colpi di pistola, di fucile e i pugni si trasformano in cannonate sonore. E l’ira rimane ira, non vola turbinando negli spazi-effetto. L’intreccio tra attrazione Allison-Virgil e cattura/processo di Randall porta con sé la crescita di una tensione ovvia nel contenuto quanto esemplare nella semplicità dello sviluppo. Tutto sembra trasparente, eppure tutto è irrisolto – che non vuol dire non finito: l’ambiguità della vedova, le convinzioni dei protagonisti (facile/difficile perfino una classifica dei tre, sceriffo, vice, bandito – anzi dei quattro, parità per Randall), il percorso del treno nella prateria “presidiata” dalla leonessa (!) che entra nel quadro sbucando dalla quinta in un lampo secco e geniale, la compagnia e la solitudine della coppia virile di fronte alla tripla incidenza di Allison (non escluso il ruolo di Katie/Gil, sponda sentimentale che non consola veramente Everett). Vietati l’informale e il barocco, la forma classica si impone “nonostante” la presenza fantasmatica di un Truffaut-pensiero, coscienza cinematografica irreversibile da Jules et Jim in poi. Ma non è che un soprassalto. Dietro l’angolo, non lontano, in un West non facile, veglia Ford.


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A chi dovesse inviarmi propri libri, non ne assicuro la lettura e la recensione, anche per mancanza di tempo. Così pure vi prego di non invitarmi a convegni o presentazioni di libri. Ho problemi di sordità. Chiedo scusa.
Bart