Libri, leggende, informazioni sulla città di LuccaBenvenutoWelcome
 
Rivista d'arte Parliamone

TUTTI I MIEI LIBRI SU AMAZON qui

La scampanata, il romanzo di Bartolomeo Di Monaco trasformato in testo teatrale, qui per chi volesse rappresentarlo.

Piante e fiori del mio giardino e altre bellezze: qui

CINEMA: I film visti da Franco Pecori

24 Gennaio 2009

[Franco Pecori dal 1969 ha esercitato la critica cinematografica – per Filmcritica, Bianco & Nero, La Rivista del Cinematografo e per il Paese Sera. È autore, tra l’altro, di due monografie, Federico Fellini e Vittorio De Sica (La Nuova Italia, 1974 e 1980). Nel 1975, ha presentato alla Mostra di Venezia la Personale di Jean-Marie Straub e Danièle Huillet; e alla Mostra del Nuovo Cinema di Pesaro, con Maurizio Grande, una ricerca su Neorealismo: istituzioni e procedimenti (cfr. Lino Miccichè, Il Neorealismo cinematografico italiano, Marsilio). Dal 2002, ha tenuto per 4 anni, sul Televideo Rai, la rubrica settimanale Film visti da Franco Pecori. Noto anche come poeta, Pecori può vantare la stima di Franco Fortini.]

 

W.

W.
Oliver Stone, 2008
Josh Brolin, Elizabeth Banks, James Cromwell, Ellen Burstyn, Jeffrey Wright, Richard  Dreyfuss, Thandie Newton, Thandie Newton, Scott Glenn, Ioan Gruffudd, Rob Corddry, Noah Wyle, Jesse Bradford, Jason Ritter, David Born, Dennis Boutsikaris, Sayed Badreya, Allan Kolman, Charles Fathy, Michael Gaston.
Torino 2008, Film d’apertura.

Le biografie dei personaggi rappresentativi della storia sono sempre un problema. Non si parla abbastanza di Storia, non si racconta tutto della vita privata del personaggio, si rischia di non dare l’idea giusta di una vicenda importante. Vale per Giulio Cesare (non a caso Shakespeare ne fece una tragedia!) e vale per l’attualissimo George W. Bush. Gli avvenimenti riferibili al periodo della presidenza di Bush Junior sono molto più grandi del personaggio privato. Biografia difficile. È anche vero che per forza di cose il privato di un presidente degli Stati Uniti d’America non può avere peso equivalente a ciò che accade alla Nazione e al mondo. Stone si è preso il rischio. Dopo Nixon e Kennedy, ha voluto raccontare W. proprio mentre il presidente della guerra in Iraq stava per lasciare il posto a Barack Obama. Il lavoro è riuscito bene. Difficile non leggere il film in chiave politica. Non perché l’ottica di Stone (sceneggiatura di Stanley Weiser) sia intenzionata esplicitamente in tal senso, ma perché, configurato il personaggio in termini umani minimali (dire inadeguato al compito è parlare d’altro), resta da risolvere il problema di come W. sia potuto arrivare alle micidiali responsabilità di fronte alla svolta decisiva, storica, nelle vicende del terzo millennio. Tuttavia, è appunto l’apparente banalizzazione biografica la chiave che permette di utilizzare il paradosso e scoprire l’acqua calda necessaria a comprendere un certo andamento delle cose. La bravura di Brolin ci aiuta a cogliere i momenti in cui la Storia decide di usare W., di farlo “falso” (così lo vede il padre) e di fargli credere di essere stato “chiamato” da Dio. Un ragazzo che pensa al baseball, un frustrato che impugna la spada e trascina il mondo in un inganno tragico. Come mai? Semplice: W. trova nella follia la lucidità del linguaggio mediatico: «La gente ha fame di fede», «L’uomo medio non pensa al petrolio, devi parlargli di democrazia». Si alternano scene giovanili e momenti di grandi decisioni, con il feroce gioco che chiunque sia stato anche solo per un mese in una qualunque azienda ha visto giocare fra i “consiglieri” di vario livello attorno al capo. Ma il dato eccezionale viene dalla quasi-naturale pazzesca evoluzione del giovane W. L’inganno si compie, acqua (calda) in bocca. La “guerra più pulita della storia” (le 100 ore del 1991) si trasforma nel groviglio forse più sporco. In Iran c’è il 40% del petrolio mondiale e il ragazzo, lo vediamo nell’ultima inquadratura che chiude il film come in una lunga parentesi, non può godersi la partita nello stadio tutto suo. Solo una biografia? Potrebbe sembrare quasi una fiaba, se W. fosse la prima lettera di un nome qualunque.

Tony Manero

Tony Manero
Pablo Larrain, 2008
Alfredo Castro, Amparo Noguera, Héctor Morales, Paola Lattus, Elsa Poblete.

Raúl (Castro), 52 anni, vuol essere il “Tony Manero del Cile”, vuole vincere il concorso televisivo dedicato al personaggio interpretato più di un anno prima da John Travolta nel film di John Badham La febbre del sabato sera (1977). Siamo nel Cile di Pinochet, la musica disco sa di drammatico contrappunto alla dittatura di cui si avverte l’oppressione senza che la regia di Larrain lasci emergere il tema politico in primo piano. Tuttavia il film è amaro come il fiele. Castro viene pedinato con implacabile curiosità nel suo progetto di immedesimazione. Paragonato ad Al Pacino, l’attore esibisce quel tipo di bravura, non indossando però l’abito dell’Actor’s Studio. Ne risulta un film-verità, lontano dal documentario quanto astratto nella metafora della fuga e dell’impotenza. La figura narrativa naviga nel paradosso mentre le singole scene traducono un senso di violenza repressa che fa spavento. Raúl, nel suo disegno egocentrico, non si ferma davanti ad alcun ostacolo, approfitta anzi delle singole difficoltà “saccheggiandole” con freddezza paranoica e con incuranza per i delitti a cui lo “costringono”. La sua scena è un piccolo teatro-cantina dove egli tenta di allestire una pedana luminosa che possa ricordare la discoteca del mitico film. Attorno, tre donne di diversa età e un giovane ballerino lo adorano e sperano nel suo successo. Fuori, si avvertono scene di repressione, ma per Raúl esiste soltanto Tony Manero. La  fissazione  gli attraversa la mente e il corpo come una spada, eliminando e assorbendo le circostanze non pertinenti. Neanche la dittatura può qualcosa su di lui perché lui ha dentro di sé la sua dittatura, implacabile, selettiva, ferocemente disturbata. Raul non alza mai la voce. Taciturno, prepara i  materiali dell’esibizione. Presentato alla Quinzaine di Cannes e premiato a Torino 2008, come miglior film e per l’interpretazione di Alfredo Castro, il secondo lungometraggio (Fuga è del 2005) del cileno Larrain convince per la misura delle scelte espressive, che hanno la forza di una denuncia sarcastica e non cedono a neorealismi tardivi. Soltanto qualche accenno al simbolismo ferma il film al di qua di un traguardo assoluto che comunque il regista promette di varcare al più presto.

Italians

Italians
Giovanni Veronesi, 2008
Carlo Verdone, Sergio Castellitto, Riccardo Scamarcio, Dario Bandiera, Ksenia Rappoport, Valeria Solarino, Remo Girone, Ottaviano Blitch, Makram Khoury, Elena Presti.

Due episodi, quattro italiani in trasferta. Quattro tipi, senza che però il regista abbia l’aria di generalizzare troppo, come invece ha fatto Verdone nelle molte occasioni di presentazione mediatica. L’attore ha insistito su una specie di slogan che più o meno suonava così: “teniamocela stretta la nostra tradizione, la rappresentazione dei nostri difetti”. Alludeva – coinvolgendo nientemeno che i nomi di Eduardo, Scarpetta, Govi, Belli –  a certe caratteristiche non proprio positive degli italiani in trasferta, quando (molto spesso) non mostrano il meglio di sé. Su questo versante il film è deludente. I quattro tipi sono bravi e si fanno, in fondo, apprezzare per come portano a termine le loro storie. Il “come” si riferisce alla morale della favola, che tende ad estrare il positivo dal “male” contingente. Morale piccola ma efficace. Fortunato (Casellitto), traffica con le Ferrari rubate, re-immatricolare sotto banco e traferite in Arabia Saudita. Ma non è un cattivo, ha l’incubo del mutuo da pagare, vuole bene alla figlia con la quale si mantiene in contatto telefonico anche dalle sabbie del deserto. È stanco, Fortunato, e in un ultimo viaggio col suo autotreno carico di automobili rosse porta con sé il giovane Marcello (Scamarcio), il quale dovrà d’ora in poi sostituirlo nello “sporco” lavoro. In Arabia, i due avranno modo di dimostrare la loro generosità (“italiana”) e gli sceneggiatori (Ugo Chiti e Andrea Agnello oltre a Veronesi) hanno pensato bene di chiamare la Polizia a chiudere un occhio. Pace. Il secondo episodio vede Verdone nei panni del dentista Prof. Giulio Cesare Carminati, accasciato nella depressione a causa del subìto abbandono della moglie. Cinquantenne, Carminati ha l’aspetto di una persona  spogliata di ogni attrattiva sessuale e non nasconde certo la ritrosia, per non dire la ripugnanza, verso certe pratiche che, secondo i consigli di un amico e collega, avrebbero anche in lui la giusta efficacia “terapeutica”. In sintesi, partenza per San Pietroburgo, in coincidenza con un convegno scientifico, con la prospettiva (no, ma sì) di un’occasione di “cura”. La volgarità di Vito Calzone (Bandiera), pessimo mediatore italiano in loco, renderà a Carminati ancora più imbarazzante l’avventura. Riconosceremo senza sforzo la mafia russa di ultima generazione. Per fortuna, la sorte fornisce al dentista l’occasione del riscatto morale. Non stiamo a dire come, Giulio Cesare si ritrova in una specie di orfanatrofio con tanti trovatelli a cui voler bene. Ben altra mediazione, buona ed onesta, viene da Vera (Rappoport), interprete assegnata al “luminare” per il convegno e inizialmente scambiata per una prostituta. Orfanelli contro mafia e droga vincono. Veronesi sa il suo mestiere. Castellito è consapevole della ragione per cui è stato scelto e non è un traditore. Scamarcio nemmeno. Verdone ha ormai il predicozzo facile e non gliela fa più a nasconderlo, con la sua maschera forse irrimediabilmente irrigidita. Non si ride, non si soffre, torna alla mente il Sordi “tipologico” dell’ultima maniera. Solo che lì c’era la possibilità di riandare indietro alle grandissime interpretazioni.


Letto 1927 volte.


Nessun commento

No comments yet.

RSS feed for comments on this post.

Sorry, the comment form is closed at this time.

A chi dovesse inviarmi propri libri, non ne assicuro la lettura e la recensione, anche per mancanza di tempo. Così pure vi prego di non invitarmi a convegni o presentazioni di libri. Ho problemi di sordità. Chiedo scusa.
Bart