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CINEMA: I film visti da Franco Pecori7 Febbraio 2009
[Franco Pecori dal 1969 ha esercitato la critica cinematografica – per Filmcritica, Bianco & Nero, La Rivista del Cinematografo e per il Paese Sera. È autore, tra l’altro, di due monografie, Federico Fellini e Vittorio De Sica (La Nuova Italia, 1974 e 1980). Nel 1975, ha presentato alla Mostra di Venezia la Personale di Jean-Marie Straub e Danièle Huillet; e alla Mostra del Nuovo Cinema di Pesaro, con Maurizio Grande, una ricerca su Neorealismo: istituzioni e procedimenti (cfr. Lino Miccichè, Il Neorealismo cinematografico italiano, Marsilio). Dal 2002, ha tenuto per 4 anni, sul Televideo Rai, la rubrica settimanale Film visti da Franco Pecori. Noto anche come poeta, Pecori può vantare la stima di Franco Fortini.]  Operazione ValchiriaValkyrie Mentre ancora c’è chi dice che le camere a gas servirono per disinfettare, c’è chi dice che ai migliori generali tedeschi non piacque l’evolversi della dittatura hitleriana. Su quest’ultima “realtà ” storica Singer ci fa un film. Scoperto e lanciato dal Sundance Festival nel 1993 per il provocatorio Public Access, su una certa commistione massmediologica di bene e di male nella provincia americana, il regista si è assestato poi su X-Men (2000) e su Superman (Returns, 2006). Qui Singer usa la tecnica hitchcockiana della suspense sul come (sappiamo che l’attentato alla vita di Hitler non riuscirà e però siamo presi dalla curiosità di vedere come possono essere andate le cose). È il lato del film che funziona, con un Cruise verosimile, che non deve sfoggiare chissà quali espressioni, limitandosi a condurre l’azione nel rispetto della verosimiglianza narrativa. Operazione Valchiria era il piano studiato dal dittatore tedesco per far fronte all’ipotesi di un’insurrezione antinazista. Un gruppo di ufficiali pensò, dopo altri tentativi andati male, di utilizzare il progetto contro Hitler e contro le SS, per presentarsi poi agli alleati e chiedere una resa onorevole. Era il luglio 1944. Vediamo un führer curvo e pensoso cavarsela miracolosamente (Dio è con la Germania!) e vediamo gli eroici ufficiali tedeschi, con i testa il colonnello Claus von Stauffenbeg seguire la loro sorte. Non ce ne verrà una virgola in più sul giudizio storico riguardo al nazismo e alla Santa Germania. La parola centrale ancora una volta è lasciata a Hitler: «Non si comprende il nazionalsocialismo se non si comprende Wagner» (e le sue Valchirie).  Space Chimps – Missione spazialeSpace Chimps Un “buco temporale” inghiotte la sonda Infinity Space. Il compito di recuperare la navicella spaziale da 5 miliardi di dollari è affidato ad Ham III, nipote di Ham, lo scimpanzè dello spazio, partito da Cape Canaveral il 31 gennaio 1961. Il viaggio fu breve, 155 miglia, e durò poco, 16 minuti e mezzo, ma da quando Ham tornò giù nell’Atlantico lo si ricorda come uno degli eroici pionieri del programma americano. Ad Ham III tocca di “scimmiottare” il nonno. Il giovane primate è tutt’altro che portato per incarichi tanto impegnativi, giacché è un semplice acrobata da circo, si fa tutti i giorni sparare dal cannone e si diverte un mondo a volteggiare nel vuoto, ripiombando nel buco del tendone per il gran divertimento di tutti. Ma la missione gli tocca. Del resto, il simpatico primate potrà contare sulla compagnia di altre due scimmie, il comandante Titan e il tenente Luna, attraente esemplare femminile, nonché sull’assistenza da Terra di gente perfettamente preparata. Si parte ma non si sa dove si andrà a finire. Sul pianeta Malgor, dall’altra parte dell’Universo, una popolazione di alieni è dominata dal malvagio Zartog. Ham, che non è affatto incline a comportamenti eroici, sarà costretto ad impegnarsi per salvare Titan e liberare tutti dalle grinfie del cattivone. Ne sarà contenta la dolce aliena Kilowatt. E non poca influenza avrà avuto su Ham la graziosa Luna. Il ritorno sarà trionfale. L’animazione (Vanguard Animation) è divertente e suggerisce anche, con grazia, qualche riflessione sul rapporto tra intelligenza e sensibilità umana e analoghi comportamenti delle scimmie. Tanto che il film si rifà alla vera storia di Ham, che la Nasa addestrò e spedì nello spazio per sperimentare alcune condizioni di vita senza rischio per l’uomo. Ora che la famosa navicella Mercury Redston si è trasformata in un disegno, i piccoli spettatori trarranno vantaggio dai fantastici salti logici e dalle invenzioni sceniche del film, mentre la memoria degli adulti potrà riandare a quella lontana esperienza, un po’ scientifica e un po’ romantica, che segnò mezzo secolo fa un capitolo decisivo nell’esplorazione spaziale.  Ti amerò sempreIl y a longtemps que je t’aime Letterario in diversi passaggi eppure risolto in cinema con dignità estetica. Claudel, scrittore e sceneggiatore, realizza il suo primo lungometraggio affrontando un tema psicologicamente spinoso. Lo colloca in un quadro familiare e sociale ben disegnato, lasciando agli attori, specialmente alla protagonista, la libertà dei tempi e delle espressioni. Juliette (Scott Thomas) sa riassumere sul suo volto e sul suo sguardo la profonda “purezza” di un dolore irrisolto – e, dirà , irrisolvibile. Rivede il mondo dopo 15 anni di prigione. Le strutture sociali la consegnano alla sorella minore, Léa (Zylberstein), sposata a Luc (Hazanavicius) insieme al quale ha adottato due bambine per non aver voluto sentirsi una creatura in grembo – decisione estrema, nella quale s’intuisce l’orrore per il destino di Juliette, colpevole di aver ucciso il proprio bambino. Dimenticata dalla sua famiglia, Juliette deve ora cercare il giusto respiro, il nuovo rapporto con Léa e con il cognato diffidente verso di lei, la nuova sistemazione nella società , il lavoro da trovare, sentimenti che man mano rinascono, sensibilità sopite che si riaffacciano. Dopo tanta prigione, la “normalità ” sembra quasi impossibile a Juliette, pur nel contesto – lei ex medico, Léa professoressa di letteratura – che dovrebbe essere favorevole al riavvio relazionale. Il peso che porta dentro di sé le richiede una grande forza interiore. Juliette ne uscirà  anche grazie alla sensibilità di Léa, la quale saprà riattingere agli affetti infantili che la legarono alla sorella. Il maggior merito di Claudel è di aver evitato il sociologismo e l'”universalizzazione” del tema (non enunciabile qui esplicitamente giacché al suo disvelamento attiene il clou drammaturgico). Con disinvolta determinazione descrive situazioni e caratteri, ma guardandosi dal “tipologico” e anzi accompagnandoci con discrezione in una “visita” ambientale (siamo a Nancy), in una Francia non teorica né “internazionale”, quale potrebbe essere la Parigi cinematografica. Non a caso, una sera a cena fuori città , uno degli amici parla di Rohmer. E insiste nel domandare a Juliette dove sia stata prima di allora, per tanto tempo: «Sono stata 15 anni in prigione per omicidio», risponde lei suscitando una risata generale. È il sottile confine della verità , della differenza, del racconto e delle sue prospettive morali. Non a caso Rohmer. Frost/Nixon – Il duelloFrost/Nixon Televisione e politica a confronto. Il vero duello è tra i due mondi, i due modi di essere, di esprimersi: se sia la Tv a valorizzare l’oggetto su cui mette l’occhio, o se sia l’oggetto a rivelare la reale consistenza della Tv, al di là del successo mediatico che una trasmissione può avere. La vicenda dell’ex presidente degli Stati Uniti, Richard Nixon, il cui nome resta legato allo scandalo Watergate, per molti versi è leggibile, a distanza di oltre 30 anni, in chiave attuale: gli interessi personali, le bugie al popolo, il sangue versato in una guerra disastrosa, le intercettazioni, gli imbrogli – non sono pochi gli uomini politici, anche non americani, ai quali non farebbe male una presa di coscienza. Ma il film di Howard è qualcosa di diverso da un “ripasso” del Watergate o delle stragi in Cambogia. Il personaggio di David Frost (Sheen), nonostante crediamo di essere ormai supervaccinati verso le aggressività dei “talk show” e dei “reality”, colpisce per la distanza, che attraverso di lui possiamo misurare, tra la realtà storica – di un paese o anche di una persona – e la rappresentazione che di tale realtà può darci il piccolo schermo con le sue leggi interne, implacabili combinazioni di pubblicità e audience. Furono 45 milioni i telespettatori che nell’estate 1977 assistettero alla trasmissione dell’intervista di Frost a Nixon, registrata e mandata in onda in 4 puntate. Il “duello” divenne leggendario. Ora, dopo anche il successo di Frost/Nixon ottenuto dalla pièce teatrale di Peter Morgan da cui il film, Howard non poteva certo contare sul colpo di scena di Nixon (Langella) che ammette la sua colpa. Il regista preferisce farci vivere il set e tutto quello che sta intorno, le lunghe fasi della preparazione, gli accorgimenti strategici e i rischi commerciali nella costruzione del successo del programma. Siamo dentro la Tv, possiamo vedere il miracolo della nascita della relativa verità elettronica. Vediamo a confronto due ambizioni tanto diverse quanto cortocircuitanti. Frost, che non è niente senza il suo furbo sorriso televisivo, sembra lui il principale problema da risolvere: riuscirà a essere all’altezza del match? E Nixon riuscirà a schivare le insidie della forma “confessione”, che sta in agguato dietro le apparenze della struttura “intervista”? C’è suspence. Non per l’esito del confronto, ché sappiamo come si concluse, bensì per la scelta di Howard, tutta nella pertinenza massmediologica, dalla quale il film non si scosta neanche per un istante. Alla fine, conclusa l’intervista, ciascuno dei protagonisti (eccellenti le interpretazioni di Langella e Sheen) sembra uscire, finalmente, all’aria aperta. Tutto è subito così lontano, accaduto, irrecuparabile se non per il cinema. Curiosa vita televisiva, che prende valore in un film. Letto 2308 volte. |
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