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CINEMA: I film visti da Franco Pecori21 Febbraio 2009
[Franco Pecori dal 1969 ha esercitato la critica cinematografica – per Filmcritica, Bianco & Nero, La Rivista del Cinematografo e per il Paese Sera. È autore, tra l’altro, di due monografie, Federico Fellini e Vittorio De Sica (La Nuova Italia, 1974 e 1980). Nel 1975, ha presentato alla Mostra di Venezia la Personale di Jean-Marie Straub e Danièle Huillet; e alla Mostra del Nuovo Cinema di Pesaro, con Maurizio Grande, una ricerca su Neorealismo: istituzioni e procedimenti (cfr. Lino Miccichè, Il Neorealismo cinematografico italiano, Marsilio). Dal 2002, ha tenuto per 4 anni, sul Televideo Rai, la rubrica settimanale Film visti da Franco Pecori. Noto anche come poeta, Pecori può vantare la stima di Franco Fortini.] Il curioso caso di Benjamin ButtonThe Curious Case of Benjamin Button Benjamin, nato vecchio, morirà neonato. Non è un gioco di parole, tuttavia è, per quanto drammatico, un gioco. Intanto, un infante con la faccia raggrinzita di un Brad Pitt ottantenne è già un bell’impatto (e una bella sfida per il truccatore Greg Cannom). L’idea è di Francis Scott Fitzgerald. L’omonimo racconto scritto nel 1922 porta con sé quell’aria inventiva, intelligente e appassionata, che caratterizzò in tutti i campi i primi decenni del secolo scorso. Poi, superato il primo sbigottimento, visto che il vecchietto non muore e anzi tende a ringiovanire, entriamo in una dimensione di “verifica”, siamo curiosi di vedere come il regista, già bravo in magheggi come i video per Madonna e per i Guns’n Roses nonché nella gestione di misteri orripilanti quali l’attività spavalda del serial killer Zodiac (2007), riesca a soddisfare il paradosso delle due linee temporali che da opposte partenze vanno ad incrociarsi in un punto per poi riallontanarsi inesorabilmente. Il curioso caso ci è narrato in flash da Daisy (Blanchett). La donna, in fin di vita, si fa leggere dalla figlia Caroline (Ormond) un diario che ha conservato gelosamente e in segreto e che comincia così: «Me ne vado dal mondo come ci sono entrato, solo e senza niente. Tutto ciò che mi resta è la mia storia. La scrivo ora mentre ancora me la ricordo. Il mio nome è Benjamin Button e sono nato in circostanze inusuali». Il diario è datato 4 aprile 1985. Benjamin nasce a New Orleans la notte in cui finisce la prima guerra mondiale. La madre muore di parto, il padre abbandona il “mostro” sulle scale di un ospizio. Ringiovanito rapidamente, Benjamin se ne andrà presto. Nel 1930, uomo ancora maturo, vede Daisy bambina. I loro due tempi dovranno ancora scorrere separati prima che, all’incrocio, l’amore si compia. Fincher procede senza scossoni, mantiene fede ad una verosimiglianza ambientale che lascia i necessari spiragli all’evolversi paradossale della vicenda. Certo, quando si tratterebbe di rendere la poesia intima e insieme deflagrante di tutto un mondo che sembra continuamente rovesciarsi come la manica di un cappotto, il trucco non basta più, forse non basta nemmeno il volto del “vero” Pitt, per quanto impegnato al limite delle possibilità . È la forza della letteratura a non trovare sempre il degno corrispettivo. Sicché, paradosso interno, il momento più autenticamente drammatico e fantastico del film sta proprio nella storia di Benjamin nascosta, quella evocata, invisibile, vissuta e sentita soltanto da Daisy, che dal suo letto di morte trasmette alla figlia lo stupore di un accidente irripetibile e assolutamente privato. Aspettando il soleAspettando il sole Figure del cinema “di genere” si impegnano in un gioco risarcitorio, per sentirsi meglio, con un film dove non si bada allo spettacolo né ci si preoccupa di lisciare il pelo allo spettatore pigro, giovane o meno che sia. Questa è l’impressione. Ma non siamo negli anni Settanta. Né Moretti né Filmstudio; e indietro, meno che mai Nouvelle Vague, ché Belmondo e Seberg si rivolterebbero nel loro letto parigino. Molto più banale. Un alberghetto e tre “balordi” che stuzzicano il portiere di notte in attesa dell’alba. Col permesso del regista possiamo sbirciare nelle camere, luoghi esemplari di ripassi e di ironie merlettate e ammuffite. Una minitroupe di bravi ragazzi del cinema gira un porno con aria stanca, un incontro sadomaso sfocia nel sangue sorprendendo l’ingenuità della ragazza. Intanto, i tre balordi giù in portineria esasperano il portiere in una trafila di provocazioni così finte da sembrare drammatiche. Finché il peso progettuale della sceneggiatura cade e si schianta sul set come un pasto mal digerito. Qualsiasi traduzione del senso rischia di apparire esagerata, mentre andrebbe bene per la vendita del prodotto, ben confezionato. Cosa che però il progetto esclude con sdegno. Ma che male c’è a fare della pubblicità ? Underworld: La ribellione dei LycansUnderworld: Rise of the Lycans Aristocratico e crudele, il vampiro Viktor (Nighy), assegnato all’immortalità da una tradizione che non sopporta la decadenza del male, è condannato a lottare contro l’altra genìa, dei licantropi imbestialiti nella loro subcondizione. Lo scenario è medievale, di un medioevo cupo e “sotterraneo”, in cui le manifestazioni relative ai “superpoteri” stridono con le oppressive limitazioni culturali. Lo scontro tra vampiri e lupi ha l’aria di voler essere archetipo oltre che atavico. È un mondo dal quale sembrerebbe impossibile uscire. Interviene però un fattore “romantico”, che stravolge i piani della storia e lascia che dal buio scaturisca l’energia di un amore, capace anche di trasmettere il senso di un riscatto “sociale”. La scintilla è tra la figlia di Viktor, Sonja (Mitra), e il licantropo Lucian (Sheen), maniscalco “a corte”. Lei, la figlia prediletta, diviene per il padre la vittima da sacrificare dopo l’irrimediabile tradimento; lui, per salvare Sonja dalle grinfie di Viktor, riesce a coinvolgere l’intera schiera di lupi schiavizzati e tutta la popolazione di licantropi scorrazzanti nei boschi: se lo seguiranno potranno uscire dalla misera esistenza e ritrovare l’umanità sottratta loro dal malefico vampiro. Lucian ha dalla sua il nuovo potere venutogli dalla propria nascita “impura” (da una licantropa prigioniera), di prendere a piacimento forma umana o di lupo. Indeciso tra la storia romantica d’un amore segreto e l’azione epica di una corsa verso il trionfo della luce e della libertà , il film chiarisce comunque una tendenza di fondo, del procedere dei destini verso una fatale liberazione dell’umanità . Restano oscure le ragioni dei due modelli messi a fronte nella guerra feroce: il vampiro e il lupo. Ma questa è materia di studi superiori. Lo spettacolo, meno ingenuo dei precedenti due film della saga (Underworld, 2004, e Underworld evolution, 2006), pur nell’accentuazione di forme immaginifiche attinenti all’ibrido, riesce a trasmettere il senso di uno spietato e fatale dolore (Viktor, vittima di se stesso) e di un recupero del sentimento nel passaggio fluido bestialità /umanità . Gli effetti digitali, questa volta, aiutano. The Reader – A voce altaThe Reader Imparare a leggere. Germania, anni Cinquanta. Michael (Kross), il giovane studente che, a letto prima o dopo l’amore, legge ad alta voce Omero (Odissea), Mark Twain (Le avventure di Huckleberry Finn) e Cechov (La signora con il cagnolino) alla donna più grande il doppio di lui è convinto di farlo per un esercizio estetico e si compiace dell’intima fusione di piacere trasgressivo e culturale, fuori dalla scuola e lontano dai genitori. L’incontro con Hanna (Winslet) è stato casuale e fulmineo, per un malessere del ragazzo proprio sul portane di casa di lei. La donna lo ha soccorso amorevolmente come una madre, poi il rapido sviluppo di un’intesa irresistibile. E quella richiesta quasi provocatoria della lettura: «Preferisco che sia tu a leggere». Può sembrare la rappresentazione di un sogno erotico adolescenziale, tanto che improvvisamente Hanna scompare, come per un invito a Michael a tornare alla realtà . Senonché il ragazzo, passato all’università e seguendo per un seminario le fasi di un processo sui crimini del nazismo, ritrova proprio Hanna tra gli imputati, lei che da ex capò, si rese responsabile della morte di trecento donne. Michael rimane sconvolto. Hanna viene condannata all’ergastolo. La rivedrà dopo 20 anni, all’uscita dal carcere, in tempo per venire a sapere che, analfabeta, ha da lui imparato a leggere. L’Anno Zero della Germania sembra non finire mai. Il bestseller di Bernhard Schlink, A voce alta (1998), da cui il film, è stato tradotto in 40 lingue. La ferita dell’Olocausto sanguina ancora coinvolgendo il rapporto tra generazioni ormai lontane. L’inglese Daldry (Billy Elliot, 2000, e The Hours, 2003) rischia, trasferendo il romanzo al cinema, di lasciar prevalere la componente romantica su quella della riflessione politica. Ma la sua esplicita tendenza a muoversi sul filo del sentimentale/intellettuale, già espressa con successo specialmente nel 2003, lo salva dall’estetismo e, insieme, dalla riduzione del racconto a film per dibattito. Merito inscindibile dalla bravura della Winslet e di Fiennes, capaci di trattenere nei propri “corpi” il mistero, prolungato nel tempo, di una proiezione interna, necessaria, del destino dei singoli nella durata dell’esperienza. Non per niente The Hours ha fruttato l’Oscar alla Kidman (parte di un terzetto delle meraviglie, con Julianne Moore e Meryl Streep). E questa Winslet pare anche più convincente che non nella scontata e un po’ compiaciuta “lettura” degli anni Cinquanta in Revolutionary Road (con Di Caprio). Letto 3971 volte.

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