|
CINEMA: I MAESTRI: Moby Dick16 Maggio 2015
di Filippo Sacchi Se vivesse oggi il capitano Achab non avrebbe nessuna difficoltà a catturare Moby Dick. Gli sparerebbe addosso un arpione col cannoncino, uno di questi moderni arpioni dumdum che quando sono dentro scattano aprendo intorno una raggiera di automatici aculei i quali inchiodano la preda, e poi si getterebbe all’inseguimento spingendo al massimo i motori della sua baleniera: l’esito sarebbe sicuro. È tanto sicuro, e la tecnica del cacciar balene è ormai tanto automatizzata e standardizzata, che se il massacro va avanti con la misura attuale è prevista fra qualche decennio la scomparsa quasi totale del simpatico pachiderma dei mari. Pochi sanno probabilmente che circa un anno fa si tenne apposta a Londra un congresso al quale intervennero rappresentanti di tutte le grandi flotte baleniere del mondo, e dove si prospettò l’urgenza di una convenzione internazionale per disciplinare la caccia e limitare il numero delle balene che possono essere uccise nei vari mari e nella varie stagioni. Così a poco a poco anche le balene diventeranno selvaggina da riserva, come i fagiani e gli stambecchi. Moby Dick è un film ipertrofico, in cui la vastità delle proporzioni uguaglia l’incommensurabile bravura. Esso risponde ai bisogni di una frenetica e sregolata fantasia: a quel gusto del titanismo, ossia del colossale a ogni costo, che ebbe le sue stagioni anche nella pittura, nella letteratura e nella musica. Il suo apice è nella magnifica sequenza del tifone, un tifone in grandezza naturale, e in cui, blasfemo come il suo protagonista, si direbbe che il regista osi rivaleggiare con Domeneddio. Tutta la corsa del Pequod sotto l’uragano, le fasi della pazzesca manovra, la lotta disperata degli uomini contro gli imbrogli e contro le vele, la allucinante altalena dello scafo sospeso sull’abisso, sino alla miracolosa salvezza, sono descritti con un parossismo visivo di una intensità tale che in certi punti quasi sfiora davvero la violenza della natura. Così la battaglia finale del capitano Achab e della sua ciurma contro la maledetta balena bianca, resa con un colossale trucco al vero al quale sono stati applicati i moderni procedimenti dei telecomando. Uno solo, ma imperdonabile errore ha commesso Huston, di mostrarci per un momento in primo piano l’occhio del mostro che sbircia il suo mortale nemico. Questo Moby Dick che fa l’occhiolino è una bambinata che rovina la maestà opaca e informe di quella massa diluviale. Anche il naufragio finale è fatto stupendamente: rilevo il tragico ritmo che Huston dà ai gorghi circolari sulla nave che si inabissa. Naturalmente questa iperbole e ingrossamento dell’immagine porta fatalmente come conseguenza la necessità di esagerare anche psicologicamente le situazioni e i caratteri; induce a forzare i toni e i rapporti tra i personaggi. Al titanismo corrisponde fatalmente il demonismo, e il demonismo è sempre un po’ letterariamente fasullo (lo era, sotto sotto, anche in Melville). Ma dopo quello che è riuscito a farci vedere, non staremo adesso a fare un processo a Huston se alla fine il suo Achab, che Gregory Peck regge con cupa e invasata forza, riesce una specie di Prometeo un po’ stentoreo e truculento, e il suo equipaggio una collezione di lupi di mare eccessivamente cabotineschi. A parte che bisognerebbe vedere quanta responsabilità in questo spetti ai doppiatori, forse il guaio (felix culpa) di Huston fu questa volta di aver cominciato troppo bene. Egli ha messo negli episodi dell’inizio, in quel prologo così misteriosamente bagnato di presagio, nella descrizione di quell’iperboreo villaggio di balenieri, di quel mondo isolato tra la furia degli elementi e la contemplazione della morte, una tale carica di quacchera potenza, che non era facile tenersi su quel livello. Ci voleva il lirismo totale di Flaherty accoppiato al rigore luterano di Dreyer. Siamo al cinema, non domandiamo troppo. Letto 1302 volte.
Nessun commentoNo comments yet. RSS feed for comments on this post. Sorry, the comment form is closed at this time. |
![]() |
|||||||||