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CINEMA: I MAESTRI: Un museo per Katharine Hepburn20 Ottobre 2016
di Arturo Lanocita Dicono che serva freddo il piatto delle sue vendette, a lunga distanza dalle offese, quando cioè nessuno se le aspetta. ( Parliamo di Katharine Hepburn). Sembra che abbia la dimenticanza facile, e invece se qualcuno l’ha pestata farebbe meglio a tagliare il piede responsabile, Katharine s’è subito informata, senza intenzioni di benevolenza, sulla misura e sull’impronta. Si addossi ciascuno la sua parte di colpa e aspetti la sua parte di espiazione: chi diamine ha avuto l’idea di organizzare nel Museo d’arte moderna, a Nuova York, una mostra dedicata alla sua carriera artistica? Una panoramica su quarant’anni di recitazione — naturalmente non è cosi che l’hanno intitolata, ma il senso è questo — allestita in un museo e affidata a una serie di fotografie, non vuol dire panoramica né recitazione; vuol dire quarant’anni di lavoro e oltre sessant’anni di età, pubblicamente proclamati; poche attrici, delle molte più indulgenti di lei, accetterebbero di perdonare. A quanto pare, ha precisato un nostro collega da Nuova York, informando su questo l’altro giorno, la Hepburn non sapeva nulla della mostra che si allestiva in suo onore. Giureremmo che non soltanto pare, ma è certo. Se lo avesse saputo in tempo, non tutte le pietre del Museo d’arte moderna sarebbero rimaste connesse quanto occorre perché i muri stiano in piedi. Un crollo comunque ci sarebbe stato. Ovviamente, non è offensivo far sapere quanto sia brava Katharine Hepburn, offensivo è far sapere che lo è da molti anni. Quando esordì nel cinema, al tempo dei tempi, spaventò tutti. Il suo primo regista constatò, con sgomento, che non aveva nulla da insegnarle, mostruosamente sapeva già tutto; esatto l’atteggiamento, perfetta la dizione, precisa l’aderenza al personaggio. Risultava impossibile consigliarle qualcosa che già non avesse intuito. Cominciava dallo stadio della maturità e non nascondeva affatto di esserne consapevole. Si permetteva, persino, la civetteria di suggerire omettendo di apparire saccente; George Cukor, regista di attrici laureate e famose, abituato alle supine acquiescenze altrui, si rassegnò a tollerare le sue impennate, ridendo verde mentre la definiva « un tiranno artistico », e l’attributo serviva solo a mitigare la verità aspra del sostantivo. L’intransigenza del suo dispotismo, al servizio d’una spietata ambizione, è confermata dal fatto che ancor oggi Katharine Hepburn ami il suo mestiere; si trovi un’altra attrice che, senza imporlo con violenza a se stessa, sia capace di amare il cinema, dopo quarant’anni di teatro di posa. La singolarità del suo aspetto e specialmente del suo viso scarno e ambiguo, in cui a tratti la bellezza si accendeva come prodotto di un arcicalcolato atto di volontà e non come dono naturale, contribuì a far di lei l’edificatrice di se stessa; non poté darsi il sex-appeal per carenza di materia prima, ma poté ardere e trasumanare quanto occorreva perché la sua ricerca stilistica sembrasse spontaneità e immediatezza. Tutto questo non impressiona più: oggi sappiamo quanto talento abbia, ma quando interpretò il primo film, Febbre di vivere, era la sola a saperlo. Osò insolentire, dopo quella pellicola, un famoso attore di allora, l’umbratile John Barrymore: « Grazie al Cielo, non dovrò più recitare con voi », costringendo lui a replicare, per ripicca: « Cara, non mi sembra che l’abbiate mai fatto ». Brutta più di lei e brava altrettanto, Bette Davis ha sbagliato qualche film, Katharine no. Alla terza interpretazione ebbe l’Oscar numero uno, ma tutte potevano averlo, meno Greta Garbo; ne volle altri due, ebbe anche quelli. « Il migliore attore di Hollywood », scrisse qualcuno, perché risultasse esplicito quel tanto di mascolino, aspetto e carattere, che, in lei, saltava agli occhi; ed era qualcuno di memoria corta, giacché dimenticava che una prova sottile di femminilità, in Primo amore, l’aveva data. La sua espressione struggente di ragazza afflitta e delusa, in quel film, sulla veranda d’una casa operaia, in una sera di canicola, quando s’accorge che la grossolanità dei suoi familiari sta per allontanare da lei il fidanzato, ospite a pranzo dei suoi per la prima volta: l’intensità della patetica ambascia, le lagrime e le parole rattenute. Certo, non era fatta per le parti lattemiele, quel film era un’eccezione. Ma la versatilità, che è la sua regola, risulta un mosaico di eccezioni. Senza essere accanitamente volitivi non si riesce a tutto, come avviene a questa attrice, che si tuffa in ogni impegno con puntiglio agonistico, Katharine Hepburn contro i suoi limiti fisici, le ambizioni di Katharine Hepburn contro le ambizioni degli altri. E sempre con la grinta di chi non tollera di essere preceduto a un traguardo purchessia. Vorrebbe interpretare i film da sola; consente che le stia a fianco un uomo, farne a meno è difficile, ma non sopporta altre donne. Quanto più appare smaniosa di soverchiare il prossimo e quanto più si giustifica la sua alta opinione di sé, in un mondo di gonfiate mediocrità come è questo del cinema, tanto più commuove il calore d’affetto che, finalmente posponendosi ad altri, riversò su Spencer Tracy, negli ultimi anni, di solitudine e d’infermità, che precedettero cupamente la scomparsa del grande attore. Un’aridità da pietra pomice, per lunghi anni ostentata, fu riscattata, inattesamente, da questa sua dedizione. Rivelò d’improvviso una capacità di sentimento che sembrava essere stata riserbata in esclusiva alla finzione dello spettacolo. Se ne avvantaggiò Spencer Tracy, ovviamente; ma, supponiamo, anche lei. Prima o poi, doveva accaderle di conoscere la gioia di voler bene a qualcuno che non sia Katharine Hepburn. Letto 1425 volte.
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