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CINEMA: I MAESTRI: Il bidone23 Febbraio 2011
di Filippo Sacchi Fellini è un regista con vocazione filologica: egli tende a costruire i suoi film sopra un neologismo. Dopo i vitelloni, ecco Il bidone, parola in uso nel gergo professionale per indicare la truffa, anzi più precisamente la trovata truffaldina, la trappola attraverso la quale l’imbroglione riesce a raggirare la sua vittima. Perciò il bidonare nel suo significato più eletto non è mai dissociato da una forma di creazione. Anzi si può dire che trucco e ingegnosità siano in un certo senso il punto d’onore del bidonista, che in questo si distingue dal ladruncolo volgare; e lo vediamo infatti dal profondo disgusto con cui, in un episodio del film, gli anziani del bidone giudicano il giovane socio sciaguratello che durante una festa tra colleghi si è lasciato andare a rubare un portasigarette. D’altra parte il bidone non ha nulla da fare con la truffa d’alto bordo, e tanto meno con l’aperta rapina. I suoi eroi sono sostanzialmente piccoli lestofanti, sfaticati e piuttosto vigliacchi perché i loro tiri si esercitano a preferenza su povera gente indifesa: miseri cafoni a cui riescono a sottrarre il gruzzolo penosamente accumulato facendogli trovare nel campo un finto tesoro, disgraziati abitatori di baracche in periferia ai quali carpiscono l’anticipo per l’assegnazione della casa, ecc. ecc. Sono imbroglioni che campano di espedienti alla giornata, pronti a passare indifferentemente dalla cocaina all’orologio, dal colpo all’americana alla stoccatina di poche lire. Naturalmente, presi in quella vita sciagurata, è difficile che riescano a uscirne, un po’ perché la farina del diavolo tende ad andare in crusca, un po’ perché prima o dopo arriva l’infortunio sul lavoro che mettendoli nei pasticci con la Giustizia li fa sempre meno socialmente recuperabili. Fellini prende appunto uno di questi bidonisti incalliti, Augusto, che di bidone in bidone è arrivato alla cinquantina senza essere riuscito a prepararsi la nicchia per un onorevole ritiro. Augusto è ancora in gamba, e la sua dignitosa faccia serve benissimo ogni volta che la banda ha bisogno di un autorevole complice in veste talare. Però egli comincia a sentire il suo disagio e il suo isolamento di anziano tra i colleghi più giovani, che lo chiamano “il vecchiaccio” e gli prendon la mano. La crisi precipita quando, avendo ritrovato la sua figliola, una cara e savia giovinetta che vive con la mamma, da molti anni divisa da lui, ha l’umiliazione di essere arrestato davanti ai suoi occhi, proprio il giorno che per la prima volta escono insieme. Probabilmente pensando di provvedere a lei, alla prima impresa a cui partecipa appena uscito di prigione, tenta il colpo di tenersi tutto il gruzzolo, sottraendolo ai compagni. Ma questi non soltanto glielo fanno sputar fuori, ma a sassate e percosse lo riducono in fin di vita, abbandonandolo su una deserta petraia dove senza soccorso perisce. Piantato sulle solide spalle e i larghi zigomi di Broderick Crawford il personaggio esiste e meritava un film. Esiste specialmente come ritratto. Sinché nella prima parte Fellini lo delinea tratto su tratto, nella sua gaglioffa routine e nel suo rassegnato cinismo, mostrandocelo nei rapporti coi suoi compari e con un certo ambiente di malavita romana, modesta e provinciale malavita, dove anche i gangster finiscono per comportarsi da vitelloni, il carattere salta fuori e vive. Poi sul più bello, quando arriva il momento di addentrarsi nel dramma, invece di crescere in tensione si smonta e raffredda. Il riaccostamento con la figlia, introdotto senza preparazione e frettolosamente risolto, si riduce a uno scoperto mezzuccio emotivo. La scena con la piccola paralitica, che doveva dare lo choc psicologico alla situazione, resta generica e divagatoria e il tentativo di creare un caso spirituale pare fatto più che altro per contestare la Curia. E lo stesso finale, benché piombi di colpo nel più crudo stile Clouzot, non ci afferra. Assistiamo a una scena di bestiale linciaggio, restiamo per quattro, cinque eterni minuti, soli a tu per tu con l’uomo in agonia, lo seguiamo mentre strisciando a palmo a palmo sul ghiaione si trascina sanguinante fin sul bordo della strada, per implorare nell’ultimo rantolo un aiuto che non verrà: eppure non so perché restiamo freddi, col vago senso che la tiri troppo in lungo. Ho il dubbio che tutto derivi da una errata economia del film, ossia che essendosi esageratamente dilungato nei pezzi di contorno (troppe passeggiate notturne, troppa bisboccia) e avendo dato eccessivo posto a motivi complementari, come per esempio il personaggio di Picasso, figura stiracchiata e falsa, e per giunta interpretata da Basehart con tutta la leziosaggine dell’idealismo di maniera, Fellini non abbia avuto più metraggio per portare a fondo il personaggio principale, e lo abbia lasciato allo stato di schema. Perciò, nonostante i pregi del film, le cose acutamente osservate, la virtuosa regia, il neologismo stavolta non funziona. Questa filologia è una brutta bestia. Lo diceva anche il mio professore di latino e greco. Letto 1633 volte.
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