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CINEMA: I MAESTRI: Sarah, dea liberty
27 Marzo 2009
di Arturo Lanocita
[dal “Corriere della Sera”, giovedì 1 maggio 1969]
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«Da una massa di testimonianze contraddittorie», cioè dai trenta e passa libri pubblicati sull’argomento, la scrittrice americana Cornelia Otis Skinner ha tratto, in una specie di summa, una nuova biografia di Sarah Bernhardt. Ne è risultato, in un grosso volume (Sarah Bernhardt, editore Dall’Oglio, 377 pagine, 3800 lire) un’anÂtologia, abbastanza fluida e compatta, di episodi che non sminuzzano il racconto; e riÂsulta sconcertante, se vi si cerca il senso dell’unità e non si trova che l’unità del nonsenso. Da quando, adoÂlescente, si ribellò, inorridita, a chi le proponeva di darsi al teatro (« Attrice io? No, mai ») agli anni del marasma senile, Sarah recitò se stesÂsa in cento contraddizioni all’ora, sempre serbandosi feÂdele all’imprevisto.
«Magnifica lunatica», come qualcuno la chiamò, un giorÂno, quando chiese a un chirurÂgo che le innestasse, in fondo alla spina dorsale, una coda di tigre, da dimenare nei moÂmenti di collera. Si sentiva o tutta felina o tutta miele, dandosi in alternanza stati d’animo prefabbricati; ma la sua espressione più spontaÂnea era, appunto, quella del bramito. L’Ottocento teatraÂle può sintetizzarsi nella quinÂtessenza dell’istrioneria che fu propria della Bernhardt; e per quanto la biografa Otis Skinner – figlia di un attoÂre famoso ed attrice ella stessa – ne riferisca con deÂferenza, la natura di lei reÂstò sempre quella di un fenomeno da circo    (« Sarah Barnum » s’intitolò un libelÂlo che le scagliò contro, fuor d’ogni cordialità , una sua nemica, ingenerosamente veriÂtiera).
I due o tre film che interÂpretò in veneranda età , conÂservati forse sì e forse no negli archivi di qualche cineÂteca, sono ciò che ci resta di lei, a quarantasei anni dalla morte; e quel che meglio atteÂstano, se attestano qualcosa, è che l’esasperato artificio, nella recitazione delle dive arcidannate del cinema priÂmitivo, fu un’involontaria paÂrodia del modo bernhardtiano di essere attrice; ma cerÂto le imitatrici deformarono il modello, a parte che nei film della Bernhardt mancaÂva il suo autentico fascino, la musicalità della voce. Del resto, fra l’artificio di Sarah e la naturalezza della Duse, quello e non questa, oggi, semÂbra l’anello primo del teatro moderno; sì che, ricordando Diderot, che dichiarava suÂblime solo l’attore privo di sensibilità , la Bernhardt può anche essere giudicata una anticipatrice del tempo noÂstro; fu pur scritto dai criÂtici suoi contemporanei che, nella Fedra raciniana, diveÂniva « tutta sesso », mentre le rivali apparivano tutte cuore.
Il suo motto, ricamato fiÂnanche su guanciali e lenÂzuola, era « Quand même », e può significare rassegnaÂzione ( « pazienza » ) oppure alterigia (all’incirca, «me ne infischio»), e, ancora meglio, le due cose assieme. La faÂmosa bara in cui, talvolta, usava dormire, legno rosa foÂderato di raso bianco; il giarÂdino zoologico che si teneva in casa – dai cani ai leonÂcelli, dalle scimmie ai pitoni, senza contare un cinailuro giovane e scherzoso, su cui manchiamo di informazioÂni -; la mania di far primo attore il suo amante in cariÂca, rassegnandosi solo di raÂdo all’azione contraria, far suo amante il primo attore in carica, tutto questo alimenÂtò la sua reputazione di scanÂdalo e di stravaganza, non meno alta della sua fama di interprete; e contribuì alla nascita, come fu detto, della sarahlatria.
Poesia e posa. Anche quanÂdo, canuta, insegnava recitaÂzione al Conservatorio e deÂclamava i versi parnassiani ai giovani che, ascoltandola, si liquefacevano, « era chiuÂsa », scrisse la saggista Dussanne, «nelle sue formule di seduzione come in un abito portato da  tanto tempo».
Nessuno lo disse, ma poesia e posa si abbinavano naturalÂmente in Sarah Bernhardt, che, tutta « liberty », di fuoÂri e di dentro, non era figlia, bensì madre del suo secolo. Quando, per lusingarla, afÂfinché recitasse La città morÂta, D’Annunzio la proclamò « dannunziana »,  come per darle una decorazione al meÂrito, probabilmente ignorava di essere lui, piuttosto, un bernhardtiano. Andando a caccia accanita di effetti, schivò, scegliendo il repertoÂrio, le tendenze nuove e più sottili del teatro e ignorò gli innovatori, da Maeterlinck a Ibsen e a Strindberg; non reÂcitò che i drammi con persoÂnaggi a sua misura, e perciò in prevalenza quelli scritti da Sardou, al rullo di mille tamburi, apposta per lei, e che le erano congeniali. In quanto a Shakespeare, poiché l’esangue Ofelia le diceva poco, preferì darsi la parte di Amleto; del resto, sulla scena e fuori di scena, indossava voÂlentieri gli abiti maschili.
Cornelia Otis Skinner vuoÂle bene al suo personaggio e racconta con indulgenza le più marchiane, ma cede alÂl’enfasi quando, descrivendoÂla nel suo romitaggio mariÂno, il castello di Belle Isle, « la sua anima » – ritiene di poter sostenere – « s’innalÂzava in cielo con i gabbiani », e questo volo sincrono, sugÂgerito dalla protagonista alÂla biografa, sembra asserito tanto perentoriamente quanÂto arbitrariamente. EgualÂmente enfatica, Sarah BernÂhardt intitolò al suo nome il teatro sardanapalesco che, a Parigi, donò a se stessa, tappezzando ogni parete di suoi enormi ritratti. Ebbe, coÂsì, una sua cattedrale, come Wagner ne ebbe una a Bayreuth; qui, nella sua maturiÂtà , si celebrarono i riti di un culto del quale era, insieme, sacerdotessa e divinità . Il buttafuori che, all’ora dello spettacolo, picchiava alla porÂta del camerino, ripeteva ogni sera la formula d’obbligo: « Signora, se lei è pronta, soÂno le otto ». Se non era pronÂta, erano le sette e tre quarti.
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