|
CINEMA: TEATRO: I MAESTRI: Weiss – Brook. L’oltranzismo dell’orrore7 Maggio 2016
di Guido Piovene Si è tanto parlato di Marat-Sade nelle sue varie apparizioni, con diverse regìe, sulle scene teatrali (a Londra, a Parigi, a Dusseldorf, tra poco anche a Milano), che forse i lettori conoscono di che cosa si tratta. L’autore è Peter Weiss, lo stesso che ci ha dato con L’istruttoria, montaggio di battute, testualmente citate, di accusati, avvocati, giudici, testimoni nell’istruttoria del processo di Francoforte, una tremenda relazione sul campo di concentramento di Auschwitz, ma anche un atto d’accusa per coloro che cercano di scaricare quegli orrori dalle loro spalle. Il titolo della commedia è La persecuzione e l’assassinio di Jean-Paul Marat rappresentati dai filodrammatici di Charenton, sotto la guida del marchese di Sade: Marat-Sade è l’abbreviazione. La migliore interpretazione scenica, per comune consenso, è quella allestita da Peter Brook per un teatro londinese. Con lo stesso regista, riappare ora filmata. Non è un caso però di quella « stampa del teatro » di cui abbiamo parlato la volta scorsa a proposito dell ‘Otello nell’interpretazione di Lawrence Olivier. Qui il cinema mette a frutto tutte le sue risorse. Dirò anzi che questa moltiplicazione di un luogo e di uno spazio chiusi, compiuta dalla macchina da presa che vi entra dentro, è uno degli effetti più impressionanti che il cinema può dare, una via nuova che si apre. Lo spazio, chiuso e molteplice, di Marat-Sade è la sala del manicomio di Charendon adibita ai bagni e trasformata in sala di recitazione. Il dato di partenza è storicamente vero. Il direttore del manicomio, Coulmier, faceva recitare i pazzi a scopo terapeutico, e alle recite assisteva l’alta società parigina. Spesso il testo degli spettacoli e il loro allestimento erano opera del Marchese di Sade, non pazzo, ma ricoverato a Charendon per togliere di circolazione un uomo troppo scandaloso. Sade era già stato a Charendon per breve tempo, ma per sempre, come inguaribile, dal 1803, per morirvi dopo undici anni. La recita attribuitagli da Peter Weiss appartiene a questo periodo, coincidente con il dominio di Napoleone. Si può apprezzare la diversità dello stile. L‘ancien régime dava a Sade la Bastiglia, Napoleone il manicomio, e la rivoluzione non lo aveva salvato. Il titolo abbreviato, Marat-Sade, è più pertinente di quello intero. La commedia rappresenta infatti la morte di Marat, assassinato in bagno da Charlotte Corday, ma questo è solo uno dei nuclei. Sade interviene a più riprese, è il cardine della recita. Intorno a esso si dipana tutta la problematica della rivoluzione, anzi delle rivoluzioni; sulla falsariga di quella francese, si discutono le situazioni e le ideologie del presente. La prima domanda da porsi è perché Sade (il Sade di Peter Weiss) imbastisca un tale spettacolo. E’ perché vuole vivere tutta la sua esperienza, riaccettarla e risoffrirla tutta, in uno spettacolo in cui la finzione di fatti trascorsi e la realtà di fatti che attualmente avvengono formano una cosa sola. Marat rimuore sulla scena, le teste degli aristocratici cadono, i conflitti infuriano veri. Se il paragone è possibile, vi è qualche analogia tra questo spettacolo e la Messa qual è sentita da un devoto; in cui il sacrificio di Cristo non è rappresentato ma effettivamente si compie. Così Sade abolisce, nel suo spettacolo vissuto attualmente e veracemente, il confine tra sanità e pazzia; e risofferta la sua vita giunge all’ultimo sacrificio, una dichiarazione di fallimento, per amore di verità. Il grande personaggio della commedia è Sade. Egli fa vivere e risente, in quegli attori pazzi, la propria idea del mondo, vi partecipa e vi si immola. Nessuna rivoluzione lo assimila Nessun genere di rivoluzione ha potuto annettersi Sade, la cui opera fu detta un laboratorio nel quale tutte vengono sperimentate. Vi è in lui un integralismo rivoluzionario in cui le rivoluzioni, e reazioni, di qualsiasi origine esistono tutte in potenza. Sade è l’uomo della coerenza estrema dei princìpi spinti alle ultime conseguenze, che rende la vita un inferno, anzi è impossibile da vivere e finisce per irretirsi nelle contraddizioni. I suoi piaceri sono intellettuali e producono sofferenza. Lo scopo principale dei personaggi omicidi nei quali si incarna è vivere la verità; nel matricidio, nell’incestò e nell’infliggere supplizi essi trovano soprattutto l’ebbrezza d’essere nel vero, la gioia di sentirsi esecutori attivi e lucidi di una legge della natura di cui danno la dimostrazione, distrutti dalla loro stessa vittoria. Sade paga di persona, il « piacere » che predica non ha niente a che fare con la felicità, è un orgasmo intellettuale scontato col dolore. incessante e ossessivo. « Dichiaro apertamente », scrive dalla prigione, « che non è il caso di parlarmi di libertà, se essa mi è offerta in cambio della distruzione dei miei princìpi; lo dico a voi; lo dirò a tutta la terra; fossi davanti al patibolo, non cambierei ». In un’altra lettera dice: « Non mi è rimasto che il dolore ». Accenno a queste cose rapidamente, perché (insieme con qualcos’altro) sembrano confluire nella recita fattagli eseguire da Peter Weiss. La natura indifferente alla morte Due sono i principali concetti dei suoi dialoghi con Marat. Marat è il ri- voluzionario che cavalca la tigre e al quale non è più lecito scendere. La rivoluzione uccide, e la corruzione, gli arbitri, le prepotenze degli uccisi si riproducono subito negli uccisori; bisogna eliminare anche i nuovi padroni, e ancora, e ancora, senza mai giungere a pulire il mondo. Il popolo resta affamato; inesorabile il tribuno esige il nuovo repulisti, chiede altre teste mozze, dal fondo del suo bagno in cui lo confina la malattia che gli mangia la pelle. La natura, gli dice Sade, è indifferente alla morte degli uomini, è atona e inumana, e non fa distinzione tra una persona e l’altra. Non vi è che un modo di sentirsi individui, l’uccidere o il perire, ma dev’essere un atto nostro, in cui la forza vitale che infligge la morte o gli spasimi della vittima esaltino la persona, accampandola in faccia alla natura che l’ignora. Ma la morte che infligge la rivoluzione è il contrario, legalizzata, anonima, meccanizzata, senza nulla di personale, priva di ebbrezza, inutile. Secondo argomento di Sade: i massacri della rivoluzione non portano mutamento, né possono avere fine; non contrastano con la natura, che uccide senza posa e senza scopo nella sua indifferenza, ma agiscono nello stesso modo; e inoltre sono impotenti. Non quello è il genere d’omicidio, atto di libertà, che Sade ha predicato. Il dibattito dura e non conclude. Forse il lato più nuovo di questa figura di Sade è la sua incapacità di concludere. La stessa sua filosofia è messa in dubbio; nell’universo della morte meccanizzata, spersonalizzata e astratta. Il principio dell’assassinio come affermazione vitale non regge alla prova e vacilla. L’uccidere lo disgusta. Gli rimane solo il dolore, e alla fine lo spettacolo della pazzia sfrenata. Sade è ancora un rivoluzionario e un ribelle; in una rivoluzione confusa, senza più nome e volto. E’ probabile che il campo di concentramento fosse ancora presente all’autore della commedia: il campo di concentramento, applicazione industriale della crudeltà, sadismo diventato tecnica, con il suo atroce scambio di connotati tra carnefici e vittime, dove ogni verità e ogni scopo si dissolvono nella suprema idiozia del massacro. Se si dovesse dare alla commedia un altro titolo, potrebbe essere « Sade e il sadismo alla prova del campo di concentramento»; ed è proprio Sade che, alla fine, sebbene disperato, trova un accento umano. Ma quest’opera implica tante cose diverse che analizzarne tutti gli elementi sarebbe lungo. Di costante c’è solo il delirio e l’orrore, un oltranzismo dell’orrore quale si ritrova soltanto nei più granguignoleschi drammi elisabettiani. Mi sono ricordato che Peter Brook ha messo in scena un’opera giovanile attribuita a Shakespeare, Titus Andronicus, un seguito ininterrotto di assassini e supplizi. Mi sono chiesto se l’orrore, nell’interpretazione di Peter Brook, non sia impartito in dosi anche eccessive, ma il nostro è un tempo che ammette soltanto l’estremo. Certo si è trascinati da quella tensione, non allentata ma accresciuta dai suoi momenti di umorismo stravolto, e il regista è di un’abilità somma nell’intessere insieme il macabro e il grottesco. Tutti gli attori, in mano sua, sono esattamente quello che devono essere: è un saggio di perfetta recitazione. Non vi è istante in cui, mentre fanno la loro parte, non si veda rilucere nei loro occhi, spiritati o sonnecchianti, la pazzia; e insieme è chiaro che tutti dicono la verità, cioè parlano di se stessi; e che la recita è per tutti, come per Sade, un avvenimento reale. Tanto è vero che spesso escono dalla loro parte per parlare e agire in proprio; e Duperret, l’innamorato di Charlotte Corday, è un erotomane che recita con il pensiero fisso di saltarle addosso, tanto che si è costretti a farlo parlare incatenato. Guardiani e monache devono di tanto in tanto buttarsi sugli attori che danno in smanie o svegliarli se si addormentano; e il direttore Coulmier interrompe le scene quando volgono al peggio. Vi sono straordinarie trovate sceniche; la fustigazione simbolica di Sade compiuta coi capelli di Charlotte Corday; tutti gli episodi del coro; le canzonette che Charlotte, impastata di sonno, graziosa e sinistra sonnambula, canta con voce esile di educanda. L’episodica del film è ricca. Dato il numero degli spunti ideologici turbinanti in questo vaudeville frenetico a forti tinte, ognuno potrà interpretarlo nel modo che più gli conviene. In quanto a me, non so vedervi, di là dell’urto delle idee, che una disperazione intellettuale assoluta. Letto 1137 volte.
Nessun commentoNo comments yet. RSS feed for comments on this post. Sorry, the comment form is closed at this time. |
![]() |
|||||||||