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Fumetti: Long Sam28 Dicembre 2010
[da:”Enciclopedia dei fumetti” a cura di Gaetano Strazzulla, Sansoni, 1970] GLI AUTORI AL CAPP E BOB LUBBERS – Un binomio abbastanza singolare questo, tanto più curioso se pensiamo che stavolta l’autore della sgangherata satira della piramidale società statunitense, ambientata tra la cenciosa comunità montanara di Dogpatch, con Li’l Abner e la sua procacissima e fedelissima moglie Daisy Mae in testa, e di quello stordito poliziotto (caricatura evidente del celebre Dick Tracy di Chester Gould) battezzato Fearless Fosdick, autentico simbolo della dabbenaggine umana ma anche delle discrepanze macroscopiche che allignano all’interno dell’opulento tessuto urbano d’oltre Atlantico, talora inserito nelle strisce di Li’l Abner come « lettura » preferita del ragazzone Yokum, funge qui — almeno in forma ufficiale — soltanto come soggettista e sceneggiatore, fornitore cioè dell’impianto narrativo sul quale Lubbers, poi, porta avanti la sua sequenza disegnata. Binomio singolare, si è detto, in quanto Bob Lubbers proviene dal fumetto avventuroso e al suo attivo resta un discreto periodo di attività nel regno burroughsiano di Tarzan. Ma, tant’è, se solo ci soffermiamo a considerare anche superficialmente la strip intestata alla bruna bellezza, generosa di curve e di charme erotico, Long Sam, si può intuire come la straripante dimensione grottesca, umoristica fino alla farsa caricaturale, che è la caratteristica dominante di questo fumetto, non può che uscire dalla verve sarcastica che da quarant’anni – grosso modo — alimenta la fantasia e l’immaginazione di Al Capp. Autore fervidissimo, anche se, come giustamente ha scritto Panieri Carano nella prefazione al volume Il cittadino Yokum « Al Capp non è un poeta come Schulz, e non è neppure un intellettuale ironicamente sottile come Walt Kelly che strizza l’occhio agli occhialuti giovanotti dei colleges e che, per dirla con un neologismo, è molto camp, aggiornato e di moda, cioè. Capp è, al contrario — prosegue Carano — un uomo sanguigno, ricco di temperamento e di rabbia. Proprio per questi motivi egli è più soggetto degli altri due pontefici massimi della comic strip a sbagliare, a menare un fendente a vuoto. Il mondo di Charlie Brown è talmente perfetto, compiuto, unitario nei suoi temi, lo sviluppo graduale mirabilmente dosato, che le poche, inevitabili fasi di stanca quasi non si avvertono nell’insieme compatto e continuo. Anche il discorso di Pogo e dei suoi amici, per certi versi simile a quello di Li’l Abner, anch’esso politico, ha una continuità pressoché perfetta, dove i possibili slittamenti d’ispirazione vengono facilmente mascherati dietro una capacità dialettica eccezionale. Oltre alla particolare aggressività e passionalità dell’autore, è la stessa struttura tecnica e narrativa della strip di Li’l Abner — in episodi compiuti centrati su argomenti diversissimi fra loro — a renderla più esposta a bruschi sbalzi qualitativi e di riuscita ». Detto questo, verrebbe da pensare che Long Sam sia una striscia « figliastra » per Al Capp, nella considerazione dello stesso cartoonist, pur restando, in definitiva, più cosa sua che di Bob Lubbers. L’anziano, sanguigno, corpulento Al Capp probabilmente sorriderebbe di queste nostre considerazioni, che ci ostiniamo comunque a collocare abbastanza vicino alla verità. Bob Lubbers, in sostanza, sarebbe soltanto un esecutore, sebbene non privo di talento. Talento del resto necessario, poiché senza esso il suo lavoro a quattro mani accanto all’autorevolissimo boss del fumetto americano avrebbe avuto brusca interruzione assai presto. Se andiamo a rivederci le tavole preparate da Bob Lubbers per la serie Tarzan dall’agosto 1950 al febbraio di quattro anni più tardi, scopriremo, o avremo conferma, come il suo apporto, venuto logicamente dopo quello iniziale per la creatura di Edgar Rice Borroughs di Hal Foster, e dopo via via il lavoro situato a diversi livelli di qualità fornito da Burne Hogarth, Rex Maxon, Dan Barry, Rubimor, ecc. (ci si riferisce ovviamente sia alle tavole domenicali sia alle strisce giornaliere) sia stato tutt’altro che trascurabile. Di Hogarth, l’anatomista principe del « selvaggio bianco », il plastico esecutore delle avventure più fantasiose di Tàrzan, Lubbers è stato l’allievo e il continuatore. Nel 1951 firmò con il «maestro» un intero episodio, agganciandosi direttamente e inconfondibilmente al suo stile. Non solo. Il tratto sembrò assumere nuova morbidezza, mettendo quindi in luce uno stile personale. Di lui ha scritto Alfredo Castelli, riferendosi proprio alla realizzazione delle tavole di Tarzan: « Eccellente la sua tecnica del chiaroscuro, limitato a sottili riflessi sul volto e sul corpo dei suoi personaggi ». Tarzan non è il suo primo lavoro, il suo primo personaggio. Nell’ambito del fumetto avventuroso si era fatto notare come designer di Captain Wings, e più tardi, assumendo lo pseudonimo di Bob Lewis, avrebbe fatto proprio – – temporaneamente — il personaggio dell’Agente Segreto X-9 creato congiuntamente da Alex Raymond e Dashiel Hammett. Il suo passaggio dal genere « serio », elaborato sulla scorta di scenari fantasiosi e nel contempo visti secondo una precisa luce realistica, alla paradossalmente comica eroicizzata di Long Sam, può certamente meravigliare coloro che non conoscono le ferree leggi professionali del cartooning statunitense, dove cioè l’abilità, il mestiere di pronta fiducia deve manifestarsi con qualunque possibilità. Sembra che Bob Lubbers abbia accettato negli anni cinquanta di disegnare le storie di Al Capp perché in quel periodo si trovava in una fase diciamo non propizia: aveva bisogno di lavorare. La fiducia di Al Capp non è andata delusa.
IL PERSONAGGIO
LONG SAM – Per dare un’idea della scelta grafica, del disegno caricaturale di Bob Lubbers per questa striscia in cui — come vedremo — sono riconoscibili certe evidenti componenti sociali dell’America urbana e provinciale, delle velleità della ricca borghesia, della sottomissione del maschio alla prosperosa e invadente femmina, suggeriamo di pensare a come risulterebbe deformato un tablò di taglio realistico se osservato attraverso una lente d’ingrandimento. Pensiamo a una faccia: il naso sproporzionato ai contorni somatici, oppure gli occhi strabuzzanti, ecc. In questa dimensione, che altera sensibilmente la realtà pur tenendola saldamente come matrice per ogni quadretto, si muove Long Sam e la sequela di personaggi che via via codesta bruna giovane bellezza incontra nella vallata delle Montagne Rocciose dove è nata e dove — all’inizio della storia — la vediamo vivere insieme alla vecchia madre, tipo stravagante che desidera per la sua « bimba » l’assoluta castità, per cui decide di mai farle incontrare un uomo. Cosa presentemente abbastanza facile poiché in quella falda naturale Long Sam e la genitrice praticamente vivono sole, a contatto di gomito — si fa per dire — di un unico individuo, uno scorbutico montanaro privo del dono della vista. Ma il « fato », d’obbligo in quest’intreccio dagli esordi feuilletonistici, destinato nelle intenzioni di Capp alla smitizzazione dell’eroica immagine della vecchia frontiera, fa capolino letteralmente, s’introduce tra Long Sam e sua madre nelle fattezze di un medico, il quale non solo cura dalla sua cecità l’unico maschio della vallata, e lo guarisce, ma riesce a simpatizzare anche con la nostra protagonista, convincendola a partirsene con lei (e con l’altro) alla volta della città. Da questo momento le vicende di Long Sam si diramano verso rivoli differenti, tutti convogliati comunque nella evidenziazione del carattere della protagonista, che è una specie di Daisy Mae dai capelli corvini; fisicamente gli somiglia moltissimo, anche se all’ingenuità non accompagna il volto seducente alla Marilyn Monroe che Al Capp ha donato alla compagna di Li’l Abner. Ricca di movimento, la striscia da la sensazione di essere «gridata»: il farneticare dei personaggi, somaticamente inseriti in divertenti esagerazioni, sì accompagna a dialoghi scritti spesso in neretto, cioè « detti » a voce alta. Con un effetto « rintronante » ben raggiunto. Accuratissimo, il disegno raggiunge effetti di sorprendente realismo, sì che tutto quanto di esagerato accade all’interno della strip viene ad assumere una sua plausibilità. Lo si accetta e basta, il che aumenta nel fruitore un divertimento quasi sempre su di tono, privo di zone d’ombra. Certo, tramite Long Sam, questa figliola ricca di generosissimi attributi fisici, che il maschio per quanto intraprendente non riesce mai ad « agguantare » (sono per lo più esseri fisicamente insignificanti, che prima di accorgersi di desiderarla se ne sono innamorati cotti, precludendosi quindi in seguito ogni sorta d’iniziativa e prostrandosi anzi a tutte le sottomissioni possibili), il volto dell’America minore balza fuori in tutta la sua divertita carica provincialotta. Long Sam è di questa saga piccolo borghese e paesana l’anti-eroina, nel senso buono del termine. Si trova cioè a essere protagonista suo malgrado, senza saperlo e senza volerlo. Infatti è maldestra. Durante una prova di ballo con le altre girls sulla passerella d’un teatrino dove un giorno si è presentata in cerca di lavoro, inciampa, non sta al passo, precipita addirittura dal proscenio sul tamburo dell’orchestra sottostante sfondandolo (il suo nome, Long, significa esattamente ciò che dice: è infatti una spilungona, facilmente individuabile tra tutti gli altri comprimari « in scena », e anche tra le altre bellezze che pure sovrabbondano numericamente in occasioni frequenti). Ed è appunto da questo patetico modo di fare che scaturisce la sua istintiva difesa contro il mondo e le tentazioni connesse. Comunque, all’occorrenza, sa anche mostrare le unghie. Insomma uno spaccato di vita americana, che naturalmente si tiene mille miglia distante dalla sarcastica vena che anima l’universo di Dogpatch, pur sostanziandosi in mille annotazioni di strepitosa arguzia, di malizioso sberleffo. Potrebbe essere, striscia dopo striscia, la sceneggiatura visiva di un film praticamente già compiuto. La tecnica narrativa è la stessa del cinema; tuttavia ciò che suggerisce questa parentela, questa possibilità di travaso dalla carta stampata al nastro di celluloide (sempre che vi potessero essere sufficienti probabilità di trovare attori tanto espressivi quanto lo sono i personaggi grafici), è — come già abbiamo detto — il senso di movimento, di rumorosità, di sonorità che scaturisce da ogni vignetta. Letto 3095 volte.
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