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FUMETTI: Moomin28 Giugno 2011
[da: “Enciclopedia dei fumetti” a cura di Gaetano Strazzulla, Sansoni, 1970] GLI AUTORI TOVE E LARS JANSSON – La storia di Moomin iniziò in Gran Bretagna, a metà degli anni cinquanta, quando venne editato un libro per ragazzi di cui è protagonista una famiglia di ippopotami, con il contorno di un eterogeneo gruppo di comprimari a quattro zampe. Il Syndicate della Associated Newspapers, pensando di poterne trarre una striscia di successo per i giovani, e convinto che nessun disegnatore inglese avrebbe potuto ottenere validi risultati, si volse allora alla disegnatrice finlandese Tove Jansson, la quale — nel campo della narrativa per l’infanzia — aveva conseguito esiti di tutto rispetto. Le trattative risultarono piuttosto lunghe, giacché l’artista, scrupolosa come pochi, opponeva sostanziali riserve al progetto in conseguenza della sua minima familiarità con i comics. Superati a fatica gli scrupoli della Jansson, Moomin cominciò la sua esistenza disegnata, ma il « mistero » circonda tutt’oggi la sua lunga fase di approntamento. Durante la Muminvecka di Stoccolma del 1957 (una «settimana» interamente dedicata ai suoi eroi divenuti in breve un fatto nazionale), la Jansson diede infatti una certa versione dell’origine di Moomin, ma la negò tre anni più tardi, nel corso di un’ampia intervista, affermando che la bestiola era nata « per caso » tra i fogli di un suo libro di schizzi. Nel mezzo si è posto, nel frattempo, anche Verner Molin, un pittore surrealista, il quale ha voluto rivendicare (ma con discutibile testimonianza) la paternità quale parafrasi di una sua opera molto conosciuta in Scandinavia, Mörkskugga (l’ombra scura). Da alcuni anni la responsabilità della striscia è passata a Lars Jansson, fratello della idea-trice, il quale, pur lasciando sostanzialmente immutato l’aspetto grafico delle tavole, ha provveduto a una avvertibile dilatazione del microcosmo iniziale di Moomin. Lars ha pure accentuato il carattere « libero » delle storie, volendo riflettere senza paraventi il tipo di rapporti (familiari e anche sessuali) che le società nordi-che hanno ormai accettato da molti anni. Non è un caso, pertanto, se Moomin e la sua Adipella si possono incontrare nello stesso letto, non ancora sposati, sotto lo sguardo compiacente dei genitori, saggi troll con aggiornate esperienze di vita. è questo, senza dubbio, un altro interessante aspetto della fiaba zoologica dei Jansson, e può fornire il filo per una minuta ricognizione nelle vignette a maggiormente rilevare la solidità dei rapporti che legano una striscia apparentemente « ingenua » all’habitat socio-culturale che l’ha generata. IL PERSONAGGIO MOOMIN (Mumin) – Quando apparve per la prima volta, nella metà degli anni cinquanta, era un giovane ippopotamo, orfano di genitori, che portava sulle spalle la quasi intera responsabilità di una striscia insolita, firmata dalla finlandese Tove Jansson. Aveva un solo compagno fisso, il furbo Sniff, che cercava con affettuoso impegno di scomplessarlo e di rendergli la vita un tantino più piacevole. Moomin, infatti, soffriva di tutte le debolezze dei timidi: non sapeva opporsi ai partners occasionali, non osava ribellarsi alle prepotenze dei più scaltri e neppure tentava di scrollarsi di dosso una congenita apatia. Il maggior tormento, in quel tempo, gli derivava dalia necessità di dover prendere in qualche modo una decisione e a ben poco valevano le violente stimolazioni di Sniff. Abituato a una vita scioperata, benché disprezzata a parole e qualche volta almeno per un barlume rifiutata, Moomin subiva sempre le conseguenze della sua opacità: i parenti gli invadevano la casa costringendolo all’addiaccio, la puzzola Stinky gli divorava suppellettili e impiantito, i più cattivi lo sottoponevano a ogni umiliazione. Qualche tempo dopo, però, per uno di quegli accadimenti che la narrativa larmoyante ha tenuto da sempre nella massima stima quale insostituibile ingranaggio per i propri macchinismi patetici, Moomin ebbe la ventura di riabbracciare i « cari » genitori che avendolo perduto lo avevano inutilmente cercato per stagioni e stagioni. Riunitasi la piccola famiglia, e aggiuntosi, come adottivo, il vivace Sniff, la striscia non si trasformò nella sostanza, ma cominciò tuttavia ad animarsi di nuove presenze abbastanza curiose e godibili. In primo luogo, quella del padre, copia esatta dell’erede quanto a fisico e muso (eccezion fatta per un cilindro e un bastone da passeggio, segni distintivi della sua maturità), ma formato di ben altra pasta. A differenza infatti del figlio mollaccione e titubante, ha in odio la vita tranquilla e agiata che conduce da anni: sogna l’avventura, cerca di continuo l’occasione propizia per riportarsi agli anni duri della gioventù, si crea situazioni che — in qualche misura — possano ridargli il senso dell’instabilità. Assecondato con adorabile complicità dalla dolcissima compagna, un carattere che nella lunare svampitezza può rammentare il candore e la disarmante illogicità di certi personaggi della commedia sofisticata americana degli anni trenta e quaranta (una Billie Burke, tanto per ricordare una matrice ormai classica), il « coraggioso » genitore mal sopporta l’indifferenza di Moomin e si fa in quattro per avviarlo su una strada meno futile. Ma a rompere — al giusto tempo — la troppo lineare vicenda del giovane ippopotamo interviene Snorkfröken (Adipella nella versione italiana), una deliziosa fidanzata, almeno così la vede Moomin, della quale egli si innamora alla prima occhiata. A dire il vero, la partner non si differenzia da lui che per minimi particolari (una frangia capricciosa e due occhi stellati), ma essi sono tuttavia sufficienti per darle una vitalità fino a quel momento sconosciuta. Che questa Adipella sia parecchio civetta e appetita da molti ganimedi lo testimoniano poi le storie successive, quelle in cui essa non rifiuterà le attenzioni di un maestro di set o di un divo del cinema, quasi a rendere la pariglia a Moomin, impelagato a sua volta in qualche legame extra moenia: un furioso fiirt, ad esempio, con la primadonna di un circo. Con il progredire della saga, il palcoscenico della striscia si va popolando di nuovi personaggi, talvolta legati alla famiglia da vincoli di sangue: è il caso di zia Gina (Moster nella versione originale), una anziana ereditiera temuta dal padre di Moomin come la peggior disgrazia per via del suo viscerale attaccamento al denaro, oppure della terribile Mietta (ossia Lilla My) prolificamente circondata di fratellini e so-relline). Nel medesimo tempo, si allargano pure le quinte della rappresentazione, che l’iniziale e quasi fisso ambiente rurale cede il posto ad altri scenari: una spiaggia alla moda (dove Moomin ha modo di provare il suo convinto attaccamento ad Adipella, sfidando a duello un azzimato dongiovanni), oppure l’ambiente del cinema (con una gustosa parodia dei serials mozzafiato del « muto », nella quale il sempre donchisciottesco padre si butta a capofitto, profano delle regole della finzione scenica) o ancora certi appena accennati sfondi cittadini, dove uomini e animali si confondono senza sorpresa. Resta difficile dire, dato il tratto nativo del disegno della Jansson (sostituita in un secondo tempo dal fratello Lars, senza tuttavia varianti di rilievo nello stile), quanto gli umani appartengano davvero alla razza pensante. Un tipo come Snusmumriken (il Pipetta della traduzione italiana), un vagabondo campagnolo che Moomin incontra più spesso in cima a un albero che tra i solchi arati, può infatti facilmente prestarsi all’equivoco. Ma è pur vero che poco conta il genere cui egli appartiene, giacché le ingenue favole dei Mumintrollet si rendono suggestive soprattutto in virtù del loro carico di fantasia, di libertà iconografica e di indifferenza al reale. Pipetta resta un personaggio estremamente godibile proprio per quanto è astratto: potrebbe essere un « barbone » o un animale truccato da « barbone » o perfino uno spaventapasseri. Più di una precisa sua connotazione, in sostanza, interessa il sentimento di libertà che egli impersona e che traduce con apparizioni improvvise e inattese. Poi c’è Sofus (ossia « l’Ombra » nella edizione nostrana), un animaletto abbastanza misterioso, che assomiglia tanto a un topo quanto alla controfigura di un’altra bestiola. È nato con Moomin nel primissimo quadretto delle sue strisce, nell’angolo in basso a destra, quasi confuso con l’erba alta nella quale l’ippopotamo tentava un acrobatico esercizio d’equilibrio. Per parecchio tempo, pur facendolo apparire regolarmente, l’autrice non gli ha dato la voce. S’è accontentata di usarlo come un fànfano (il « pilota » del pescecane), sempre nei pressi del protagonista, pronto a spartire con lui fatiche e disavventure, ma assolutamente incomunicante. Un bel giorno, acquistata la parola, s’è rivelato per l’« Ombra » di Moomin, un’ombra attivis-sima, prodiga di consigli e di coraggiose iniziative. Le strisce dei fratelli Jansson, proprio per il tipo di racconto che svolgono, non riservano corpose sorprese al lettore, ma testimoniano con il loro andamento, piano e « infantile » (anche se non si tratta di un fumetto tipicamente per i minori), una indiscutibile desinenza del mondo culturale scandinavo. Un tanto di magia e di mistero — anch’essi volutamente « ingenui » — s’intravvedono pur sempre tra le vignette e non si può certo affermare che le grandi saghe nordiche, popolate appunto di curiosi troll, non abbiano lasciato una qualche traccia nelle tavole. Personaggi e ambienti, sfondi e creature di passaggio, risultano comunque avvolti da un indefinibile clima. L’extra-reale non è tanto sostanziato dal taglio fiabesco delle storie minime, quanto piuttosto dallo stile dei Jansson, i quali sanno trarre incantevoli suggestioni da un disegno solare, impostato su candidi spazi « vuoti » e su contrapposte immagini stipate di minuti particolari e di raffinati ornamenti. La derivazione dei racconti di Moomin dalla pittura spontanea (caso probabilmente unico nella storia della comic art) è affermato dalla presenza di elementi che, magari estranei all’azione, servono comunque a ingentilire il quadretto e a caricarlo di una magica freschezza. Gli stessi passaggi di vignetta, d’altro canto, poco rispettano le tradizionali regole. Un primitivismo abbastanza raro, dunque, quello dei Jansson, che si traduce in un incanto grafico-letterario probabilmente non avvertito appieno dal lettore che ha scarsa dimestichezza con II surreale, ma che in patria ha destinato questi racconti al massimo della fama e del successo, e non soltanto presso una ristretta élite intellettuale. Letto 2507 volte.
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