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Fumetti: Rubino

19 Marzo 2012

[da: “Enciclopedia dei fumetti”, a cura di Gaetano Strazzulla, Sansoni, 1970]

L’AUTORE

ANTONIO  RUBINO  –  «Se  io  sono   nato   poeta e pittore non ne ho nessuna colpa, non ne ho merito   alcuno.   Non   ho   fatto   altro,   durante   i miei ottant’anni di vita, che seguire la mia sorte. Il   mio   motto   è   sempre   stato   questo:   sequor naturam   meam.   La   mia   carriera   giuridica   di­ventò  una  carriera  letteraria e  la  mia  carriera letteraria  si   confuse  con   la  mia  carriera  arti­stica  in  modo  perfettamente  logico,  senza  so­luzione  di  continuità ».  Con  poche  frasi,  Anto­nio Rubino — nel suo curriculum ridiculum — ha  stretto   così   il   senso   della  sua   vocazione artistica  e  con   meno   parole  ancora  ha  sinte­tizzato  la sua vastissima produzione:  « Diventai giornalista per ragazzi, tavolista per il  Corriere dei  Piccoli,   autore  di   libretti   e  di   commedie, decoratore  di  ambienti,  scenografo,   attore   po­lemista,   regista   di   cartoni   animati   e   perfino, nei  ritagli  di  tempo,  raccoglitore  di  olive ». Nato a Sanremo  nel  1880,  cominciò a scrivere versi   e   a   schizzare   pupazzetti   giovanissimo, per lo stupore dei  compagni  e  per un  diletto tutto personale: quello di mettere in burla temi e argomenti di studio, incontri e occasioni che la   vita   gli   porgeva   ogni   giorno.   Se   esecrava il   luogo   comune   – –   come   osservò   Giuseppe Bevione in una presentazione di Rubino — non era  per  un  frainteso  volersi   mettere   in   vista: gli veniva naturale, come spontaneo gli nasceva il gusto di canzonare se stesso e le mode del suo   tempo.   Avversore   convinto   degli   schemi mentali  immobili  e di ogni  esperienza artistica che   non   tentasse   di   distanziarsi   dall’abituale, Rubino,   poco   più   che  ventenne,   spaziava  con la sua fantasia tra interessi difformi, tra ispira­zioni   eterogenee,   tra   favole,   simboli   e   giochi fonetici. Che sia impossibile ritrovare nelle sue composizioni letterarie una fonte unitaria è stato più volte annotato e pure è stato sottolineato il precipuo   carattere   eclettico   (un   « vizio »   del tempo, se vogliamo)  della sua poesia: echi di Verlaine si frammischiano alla forza di Böcklin, stimoli  e suggestioni  di  Poe e di  correnti  tra loro diverse si impastano in un linguaggio che di   continuo  sperimenta  e  propone  soluzioni   o recuperi   vissuti   in   assoluta   libertà,   senza   un minimo di  indecisione o di  imbarazzo. Nel   1902  Rubino  stringe   i   primi   approcci  con la pittura. Ma non si tratta di un salto netto, di un   abbandono   della   lingua   a   favore   di   una nuova forma espressiva, oppure della ricerca di un  mezzo che gli consenta una comunicazione più   immediata.   Il  suo  interesse  per  la  pittura si   lega  stretto  a  quelli   letterari:  nell’immagine Rubino  cerca  una  dilatazione  della  parola,   un proseguimento   di   quel   discorso   « curioso »   di ogni sviluppo che egli va attuando da qualche anno. Il sogno, probabilmente, è quello di giun­gere all’ideogramma, a compenetrare in un uni­cum   il   suo   universo   poetico.  Versi   e  disegni, parole  e  immagini  dovrebbero  saldarsi   in   una coagulazione   perfettamente   equilibrata,   ma   la realtà è diversa: Rubino realizza soltanto un’ec­citante   osmosi   tra   immagine   scritta   e   imma­gine  disegnata.

Che le sue tavole, i suoi dipinti, le tempere e. gli schizzi mostrine uno stile inconfondibile, una personalità assolutamente unica — e non solo nel panorama artistico nazionale — è un fatto innegabile. Molte volte si è osservato che l’ele­mento caratterizzante delle sue visioni risiede in una particolarissima scrittura floreale. Certo il Liberty lo ha influenzato in maniera netta e unidirezionale, lo ha eccitato con arabescati intrecci e generose contorsioni, ma a ben guar­dare — e oltre quindi i rimbalzi mnemonici a Beardsley o Rackam — l’influsso più evidente è quello della pittura orientale: giapponesi e cinesi gli hanno — per così dire — fornito la chiave per una tessitura figurativa che scon­certa e appassiona proprio per quanto essa resta estranea alle mode dell’epoca e agli schemi più consumati.

L’attività di « tavolista » Rubino la inizia nel 1907, al Giornalino della Domenica, e la svi­luppa a partire dal 1909 lavorando al Corriere dei Piccoli, del quale è uno dei collaboratori di spicco fin dalla nascita (1909). Della sua determinante presenza — come responsabile delle scelte « educative » e come artista — molto si è scritto e neppure si è trascurato di attribuirgli la decisione di sostituire il balloon delle tavole originali con i versetti rimati in calce alle caselle. Pur senza essere in pos­sesso di prove inequivocabili, basandosi quindi solo sulle convinzioni di Rubino in fatto di nar­rativa grafica, viene spontaneo supporre che gli ormai famosi ottonari del Corrierino siano figli della sua eccezionale versatilità nel porre in versi qualsivoglia argomento. Comunque, e tralasciando di citare il precedente delle « fa­vole » di Wilhelm Busch, pure esse verseggiate dall’autore, in questa sede preme maggior­mente dire dei personaggi di Rubino, di quella trentina e più di figurette che ha distribuito ai suoi giovani lettori proponendo una narrativa semplice e solare, godibile nei colori accesi e nelle gags ingenue.

Tutte le sue storie, chiuse prima dalla defini­zione stessa del personaggio e poi limitate da­gli otto immancabili « passaggi » nella pagina, sono una costante lezione di sensibilità, di ubbidienza, di amore sconfinato alle cose e agli animali. Gli eroi, risolti quasi sempre figu­rativamente sul modello di marionette dalla testa di legno intagliato (con l’accetta quelli negativi, aguzzi e gobbuti; a biglia quelli posi­tivi) non indossano mai vestiti, ma « costumi ». Gli abiti debbono partecipare della totale per­fezione dello sfondo, disegnato con una sorta di tormento lucido, che graffia ogni particolare, senza mai tirare via. L’originalità inventiva si mutua in simbolismi barocchi, in reminiscenze arcaiche, in contorsioni grottesche. Acqua, fiori, uccelli, nuvole, pietre e alberi nascono e muoiono tra mille bizzarrie, in un formicolante intreccio: a volte ne sono protagonisti, a volte ne formano l’ondeggiante scenario, a volte an­cora sono il passe-partout per invenzioni ful­minanti, per estrose e personalissime aperture poetiche.

Ricordati alla rinfusa (non dimenticando gli anni della prima guerra mondiale durante i quali Rubino fu uno dei più attivi collaboratori de La Tradotta, settimanale della Terza Armata, per il quale scrisse e disegnò numerosi carat­teri: dai consigli pratici del caporale C. Piglio alle imprese straordinarie di Muscolo Mattia, soldatino che sa menar le mani « in gerarchia », dalle disavventure del borghese Apollo Mari alle tavole satiriche di cui sono protagonisti Cecco Beppe, Guglielmone e Carletto), i suoi eroi si chiamano Quadratino, Lola e Lalla, Italino e Kartoffel Otto, Pierino (e l’odiato burat­tino), Pippotto e il caprone Barbacucco, Rosa-spina, Lionello, Bengalì e Bonzibù, Luca Takko e Bombardone, Cirillo, Pino e Pina, Polidoro Piripicchi. Ma ciascuno di questi chiama com-primari e comparse, i quali, in pratica, non rappresentano tanto un coro cordiale ed etero­geneo, quanto piuttosto la ricca riserva di at­tori di carattere dove l’autore pesca a suo piacere per meglio mischiare le carte di un gioco che non possiede segreti ma si offre immediato all’uditorio infantile. Come si potrebbe, infatti, disgiungere la fiaba della capricciosa Rosaspina (« reginetta che sempre si rifiuta, i piedi pesta, urla, strepita e protesta») dalla presenza dei dotti Sempresì e Semprenò? Oppure del caprone Barbacucco, bestiaccia truculenta, da quella dei pimpanti Pippo e Carolina? O ancora del funambolico Quadratino da quella di Nonna Matematica e di Aia Trigonometria? II gioco delle parti, nelle tavole di Rubino, non conosce tempi morti o battute a vuoto: la costruzione, pur aperta a godibilissime invenzioni fantastiche, spesso al limite dell’assurdo e del surreale, è rigorosa. Rispetta una metrica precisa, per cui togliere una parola ai versetti o un ghirigoro al disegno significa scompaginare un sempre sorprendente» equilibrio.

D’altro canto, l’artista — a differenza di dise­gnatori parimenti illustri — non è per natura fedele ai suoi eroi: essi vivono solo per quel tanto che la fantasia di Rubino può accettarne il condizionamento. L’iterazione lo soffoca, gli toglie curiosità ed egli allora abbandona i suoi fantocci per animarne altri che gli consentano di allargare l’orizzonte del suo universo alle­gorico. E non si dovrebbero trascurare nem­meno i tanti personaggi ideati da Rubino per libri infantili: la deliziosa Viperetta, per esem­pio, suggeritagli dai capricci di sua figlia Leopoldina, «avvertendola che il libro è completo e capricci non ne occorrono più ». Nel 1927, lasciato il Corriere dei Piccoli, Rubino emigra sulle colonne del Balilla, ma la sua collaborazione non durerà a lungo. Traducendo in immagini le favole di Esopo, una bellissima serie tuttavia poco nota, incespica in quella de L’aquila, il corvo e la tartaruga. Dall’alto, per ragioni politiche, si chiede il suo allonta­namento e Rubino passa così a lavorare per Mondadori. Nel 1934, nonostante la sua antica avversione, si lascia convincere a schizzare al­cune tavole a fumetti, ma un nuovo interesse, intanto, lo preme. Come Disney, che ha studiato a fondo essendone il traduttore italiano, vuole provarsi nel film di animazione. Mette così mano a Il paese dei ranocchi, un cortometrag­gio presentato e premiato a Venezia nel 1942. Realizza poi Crescendo rossiniano, ma gli ori­ginali vanno a fuoco con lo stabilimento Agfa. La guerra, poi il dopoguerra. La firma di Ru­bino, per molti anni, non appare più. Lavora, nella casa di Sanremo, alla sua pittura. Ri­prende il colloquio con il suo pubblico nel 1935, esponendo i suoi quadri a Milano, e due anni dopo tornando alle pagine del Corrierino, chiamato da Mosca. Ma i tempi sono irrime­diabilmente mutati e le sue tavole — per nulla disposte ad adeguarsi alle mode — resistono solo qualche stagione. Nel 1959 gli eroi floreali di Rubino si allontanano senza clamore dalla scena. Proprio come, di lì a qualche anno, il 1 luglio 1964, farà il loro papa, appoggiato a un muretto della sua terra, tra i grandi ulivi e il mare aperto, nell’attimo di bere « a grandi sorsi un po’ di cielo ».


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Bart